martedi` 19 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
29.01.2016 Libia: i più feroci terroristi dello Stato islamico sono vicini ai nostri confini
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 29 gennaio 2016
Pagina: 3
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Lo stragista e lo stratega»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 29/01/2016, a pag. III, con il titolo "Lo stragista e lo stratega", l'analisi di Daniele Raineri.

Immagine correlata
Daniele Raineri

Immagine correlata
Abu Ali al-Anbari

Il capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, invia in Libia i comandanti migliori che ha a disposizione. Prima ha mandato un veterano iracheno spietato e a lui molto caro che si chiamava Abu Nabil al Anbari, che però nel giro di un anno è stato localizzato dall’intelligence americana ed è stato ucciso da due jet prima dell’alba di sabato 14 novembre 2015 a poca distanza da Derna, sulla costa libica a est di Bengasi. Poi ha mandato il suo secondo, uno che gli era ancora più caro: uno stratega che è un ex ufficiale dell’intelligence di Saddam Hussein, è passato con i jihadisti ancora prima dell’invasione americana in Iraq nel 2003 e di nome fa anche lui Al Anbari, ma Abu Ali: Abu Ali al Anbari. La notizia del trasferimento di quest’ultimo in Libia è arrivata all’inizio di dicembre dal New York Times grazie a un giornalista che si chiama Eric Schmitt e si occupa di sicurezza nazionale.

Ora, non conosciamo il processo decisionale all’interno del gruppo, ma è possibile dire questo: se Baghdadi spende i suoi leader, quelli che gli sono più vicini, in questo nuovo progetto e li fa arrivare in Libia (come? Sarebbe importante saperlo: si dice “su una barca”, ma è poco) e se investe così tanto nel paese africano, allora vuol dire che considera quel fronte un pezzo cruciale del suo piano per la sopravvivenza del gruppo a breve termine – nello scenario peggiore per loro – oppure per la sua espansione a tempo indeterminato – nello scenario migliore. Questo piano di guerra si pone per sua natura in contrapposizione frontale con l’Italia, che per la posizione geografica e per i legami con la Libia – uno fra tanti: il business dell’energia che passa per Eni – si trova nella posizione scomoda di avversario in prima fila. Credevamo di essere spettatori da lontano della guerra civile in Siria e Iraq, la linea del fronte è avanzata, siamo coinvolti.

A questo proposito serve una nota di chiarimento: attenzione alle distorsioni ottiche, la Libia non è caduta in mano allo Stato islamico, che laggiù conta secondo le stime tremila uomini, vale a dire meno di molte singole brigate di reduci della rivolta contro Gheddafi. Con Baghdadi e i suoi vale però una legge generale che dice così: se volti le spalle al gruppo poi ti devi attendere guai maggiori a venire, come è successo in Iraq, in Siria e nel Sinai. Il capo di Stato maggiore americano, Joseph Dunford, una settimana fa ha usato questo termine per spiegare le operazioni militari americane in Libia che secondo lui cominceranno nel giro di “poche settimane”: dobbiamo mettere un “firewall”, un muro tagliafuoco, quindi dobbiamo impedire che l’incendio si propaghi.

Il primo Anbari
Nell’estate del 2014 Al Baghdadi è davanti a un dilemma: ha un leader fidato da mandare in Libia? Lo Stato islamico ha raggiunto il picco dell’estensione territoriale: sta cacciando i curdi siriani verso l’imbuto di Kobane, dove poi ci sarà una battaglia furiosa pochi mesi più tardi, sta dilagando nell’Iraq centrale – tanto che si parla persino di un’offensiva sulla capitale Baghdad – ha preso Mosul e Tikrit, da sei mesi controlla Fallujah (che due anni dopo è ancora nella stessa situazione). A quaranta minuti di auto dalla capitale iracheno c’è il segno di dove sono arrivati gli uomini del gruppo, come un’onda di piena: è uno scavo nel manto stradale lungo un paio di metri che fecero per costringere i veicoli a rallentare e dare modo ai loro cecchini, appostati sul tetto di una casetta un po’ defilata tra le canne, di inquadrare i mezzi militari con più calma. Il capo dello Stato islamico è così sicuro che a giugno ha recitato la khutba, il sermone del venerdì, nella moschea grande di Mosul dedicata a Nuruddin al Zinki, predecessore del Saladino. Se ragionasse secondo le categorie precedenti al 2010, anno della sua nomina, allora avrebbe già vinto, ma sta lavorando alla fase successiva.

L’ambizione di Baghdadi è l’esportazione dello Stato islamico in Libia per uscire dall’alveo in cui si è mosso in questi anni, Siria e Iraq, Iraq e Siria. Il precedente tentativo di esportazione fatto in Siria nel 2011 era finito in disastro, dal suo punto di vista. Sei mesi dopo lo scoppio della rivoluzione lo Stato islamico aveva mandato sette uomini selezionati per le loro qualità attraverso il confine tra Iraq e Siria, perché fondassero una succursale siriana, ma con un nome diverso per coprire – fino a quando fosse stato il momento giusto per la rivelazione – a chi facesse capo la nuova fazione. I sette crearono in effetti un gruppo di successo, Jabhat al Nusra, ma nel 2013 ripudiarono Baghdadi, rifiutarono di essere considerati la filiale siriana dello Stato islamico e si piazzarono sotto l’autorità di al Qaida, creando la spaccatura più guerreggiata della storia dei gruppi jihadisti. Baghdadi si era fidato del suo emissario in Siria, Abu Mohammed al Jolani, che prima della Siria era il suo comandante nella zona di Mosul, ed era stato un errore. Se fossero ancora assieme, lo Stato islamico sarebbe più grande di circa un terzo rispetto a oggi. E invece: il fattore umano. Aveva sbagliato a puntare su Al Jolani. La scelta di Baghdadi cade questa volta su Abu Nabil al Anbari. Questa è la scomposizione del nome di guerra: il padre, Abu, di un bambino chiamato Nabil, il nobile (succede con gli aggettivi arabi che talvolta diventano nomi: per esempio Karim, il generoso, e così via), che viene dall’Anbar, la regione più violenta dell’Iraq.

La prima volta che questa combinazione esce sui media è il luglio 2014: il governo iracheno ha messo le mani sul laptop di Abdulrahman al Bilawi, il capo dei capi militari dello Stato islamico ucciso dai curdi a inizio giugno, il quotidiano britannico Telegraph ci arriva per primo e pubblica lo schema inedito della catena di comando del gruppo di Baghdadi. Lì il nome di Abu Nabil al Anbari compare con il titolo: Wali di Salaheddin, quindi governatore della provincia dell’Iraq più cara ai sunniti nostalgici di Saddam Hussein, quella che include anche Tikrit, luogo di nascita del rais. In realtà Anbari aveva una storia segreta nel jihad lunga almeno dodici anni. E’ un ex ufficiale di polizia di Saddam Hussein che dopo l’invasione americana è entrato a far parte di Tawhid wal Jihad, il gruppo ultraislamista fondato in Iraq da Abu Mussab al Zarqawi, che è considerato il padre fondatore dello Stato islamico. Livello di ferocia ideologica: si racconta che abbia ucciso il marito della sorella perché faceva il poliziotto. Lui e Baghdadi si sono incontrati per la prima volta nel carcere di Camp Bucca, quindi tra l’otto febbraio e il quattro dicembre del 2004, che sono le date d’inizio e di fine detenzione di Baghdadi.

Immagine correlata
Abu Bakr al Baghdadi

Questa è la storia dello Stato islamico, un continuo flash back, avanti e indietro. Dieci anni più tardi, tra settembre e novembre, Anbari arriva in Libia a Derna e prende il nome di Abu al Mughirah al Qahtani, per confondere le acque. Il nuovo nome comincia a circolare fuori dallo Stato islamico alla fine di maggio 2015 (in un post di notizie libiche su Facebook che passa inosservato). A settembre 2014, esce una sua intervista sulla rivista in inglese del gruppo, Dabiq – in cui minaccia l’Italia di tracollo economico, perché, dice, colpiremo i pozzi in Libia. La mappa dei leader dello Stato islamico In questi giorni a Roma c’è una serie di meeting ad alto livello dei militari italiani – anche con gli americani – che disegnano il contorno di un piano militare fatto di raid aerei e incursioni delle forze speciali contro lo Stato islamico nelle sue basi libiche, da quelle ovvie come Sirte a quelle meno ovvie come Sabratha. Il New York Times conferma che ci sono squadre di commando americani e inglesi in Libia, per “mappare” il network creato per ordine di Baghdadi e per capire come funziona la catena di comando. Un modo per mappare questa catena di comando è ascoltare le voci dei leader nei tanti annunci e ricostruire chi dice che cosa e quando.

La settimana scorsa è uscito un video dello Stato islamico da Bengasi, uno di quei filmati di routine che il gruppo mette in rete a getto continuo per non far abbassare la tensione. Ci sono le solite furberie, non è che una raccolta di spezzoni girati a luglio sulla linea dei combattimenti di Bengasi – e si vede – e mostra decine di colpi di mortaio e di bazooka montati in sequenza rapida per dare l’idea di una potenza di fuoco martellante – anche se magari sono stati filmati nell’arco di tre mesi. Però a metà video si sente un minuto di audio, è “il giuramento di fedeltà fatto a Baghdadi dai suoi combattenti in Libia”, datato dicembre 2014. Una scritta in sovrimpressione dice che è la voce del capo dello Stato islamico in Libia, Abu al Mughirah al Qahtani, ucciso in combattimento. Il timbro di Qahtani ha un’impronta abbastanza riconoscibile, un po’ raschiato, se lo si ascolta un po’ di volte diventa familiare. Un paio di contatti iracheni a cui il Foglio ha fatto ascoltare il giuramento dicono che non è possibile distinguere l’accento iracheno, perché è declamato in arabo classico e quindi la pronuncia è standardizzata. Ma la voce è identica alla voce di Abu Nabil al Anbari, che si può ascoltare con chiarezza – per un confronto – in un video non ufficiale girato a luglio 2014 ad al Alaam, vicino Tikrit, e finito su Youtube nel marzo 2015. Il video porta ancora la vecchia qualifica di Anbari, “governatore di Salaheddin”. Quindi, conferma: al Anbari aveva cambiato nome in al Qahtani per andare a comandare in Libia.

La voce di Al Anbari/Al Qahtani declama un discorso di guerra in un terzo video, uno dei più celebri dello Stato islamico. Si chiama “Ala minaj al nubuha”, che tradotto vuol dire “Con lo stesso metodo dei profeti” – si riferisce ai compagni del profeta Maometto e alla volontà degli uomini dello Stato islamico di comportarsi come loro, quindi come un ordine di combattenti del settimo secolo nella penisola arabica votati all’espansione dell’islam (più alcuni aggiornamenti, come internet e i fucili d’assalto). E’ il 5 giugno 2014. Con un paio di boots americani ai piedi e un kalashnikov a canna corta in mano, il leader arringa prima di dare l’assalto alla città di Samarra (che, per la cronaca, resiste ancora oggi). Pochi mesi dopo, Baghdadi lo ha tolto da lì, da quel ruolo centrale, dal fronte dove si combatte di più contro il governo iracheno, vedi battaglie di Tikrit e della raffineria di Beiji, per mandarlo in Libia. Qahtani/Anbari spunta in un quarto video. Si tratta della produzione più brutale dell’ufficio media del gruppo e si intitola “Uccideteli dovunque li troviate”, preso dall’inizio del versetto 191 della seconda Sura del Corano. Mostra il massacro di Camp Speicher, l’eccidio che ha segnato la storia dell’Iraq: lo Stato islamico cattura circa millecinquecento reclute irachene, lascia andare quelle sunnite, porta quelle sciite all’interno della tenuta di Saddam Hussein a Tikrit e le uccide sulla sponda ovest del fiume Tigri. E’ una delle rare volte in cui si vede un leader del gruppo partecipare di persona alle atrocità.

Un cadetto si finge sunnita davanti a Qahtani/Anbari, in piedi fra i compagni già trucidati, lo supplica di salvargli la vita, gli esecutori gli concedono una possibilità di provare che non è uno sciita, lo fanno pregare sul posto, ma la recluta sbaglia la posizione delle mani prima di inginocchiarsi. Il capo lo porta vicino a una scarpata e gli spara alla testa. Il video, che dura ventisette minuti, mostra Qahtani uccidere almeno altre sei reclute. Non è mai indicata la sua identità, ma tutta la produzione video dello Stato islamico è un gioco di riferimenti e citazioni: la sua voce è riconoscibile e tanto basta, un mese prima della pubblicazione i libici lo hanno cacciato da Derna con una rivolta capeggiata dalle milizia filo al Qaida (la spaccatura di cui si diceva prima, vedi Jabhat al Nusra) ed eccolo comparire da protagonista in una produzione efferata. Baghdadi ha mandato in Libia il comandante che in suo nome ha compiuto il massacro più grave degli ultimi vent’anni in Iraq. Un’ultima nota sugli audio: il giorno dopo l’uccisione con un bombardamento, il portavoce del Pentagono ha detto che forse Anbari era anche l’uomo che ha diretto l’uccisione dei cristiani copti sulla spiaggia di Sirte (video uscito nel febbraio 2015) e che ha minacciato Roma puntando il coltello in direzione dell’Italia. Stando alla voce, non era lui, ma un altro.

Il secondo Anbari
Gli inglesi hanno questa parola, enforcer, per dire uno che impone la propria volontà e fa rigare dritti. Se il primo Anbari era un “enforcer”, il secondo Anbari è invece specializzato nel tessere relazioni e creare alleanze. Prima di essere spedito in Libia aveva la responsabilità su tutte le operazioni in Siria. Si dice che quando Baghdadi e Jolani ruppero, all’inizio del 2013, il primo minacciò il secondo: “Ti manderò addosso le autobomba e gli uomini con i silenziatori”, in riferimento a una tattica di esecuzioni clandestine spesso impiegata contro i gruppi rivali. Poi, preso da un ripensamento tattico, mandò al Anbari ad annullare quelle minacce. Il nome dell’ambasciatore di Baghdadi compare in almeno altre due occasioni, in incontri convocati per mediare, lisciare, appianare i problemi con i gruppi siriani locali – prima della grande rottura del gennaio 2014, quando le fazioni della rivolta contro il presidente Bashar el Assad e lo Stato islamico cominciarono a spararsi addosso per eliminarsi a vicenda. F

u Abu Ali al Anbari a comprare in segreto e con finanziamenti generosi la fedeltà di una grande fazione nell’ovest siriano, che senza dire nulla alle altre si sposta armi e bagagli verso Raqqa. Un dettaglio biografico: Abu Ali, di cui non girano foto autentiche e di cui ancora non si conosce con esattezza il nome reale, faceva parte del cosiddetto Emirato islamico delle montagne che nel 2002, nella zona curda dell’Iraq, ospitava gli estremisti islamici prima dell’arrivo degli americani e prima che il regime di Saddam Hussein cadesse. Era già un veterano prima che Baghdadi abbracciasse il jihad. Nel panorama libico di oggi, Al Anbari potrebbe essere la scelta giusta, dal punto di vista dello Stato islamico. L’Amministrazione americana si sta coordinando con il governo italiano e altri per sradicare il gruppo, quindi c’è bisogno di alleanze locali e di relazioni con altre fazioni. A dicembre un gruppo che si fa chiamare “Mujaheddin di Misurata” ha annunciato un giuramento di fedeltà a Baghdadi e dopo due settimane è toccato a un secondo gruppo ad Ajdabiya, dove si sta combattendo molto tra governo di Tobruk e fazioni islamiste. Anbari deve accelerare ancora la crescita dello Stato in Libia, più di quanto non lo sia già adesso: se oggi conta tremila uomini, l’anno scorso in questo periodo erano in circa trecento.

Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT