Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/01/2016, a pag. 37, con il titolo "Quel padre in cerca di riscatto tra gli orrori della storia", la recensione di Paolo Mereghetti.
Il sottotitolo scelto per presentare il pezzo è: "L'ungherese Nemes agli Oscar con il dramma di un ebreo collaborazionista". Accusare di collaborazionismo chi è stato costretto, nei lager tedeschi, a servire nei Sonderkommando è pretestuoso e insultante. Chi lo ha fatto, come il protagonista del film, non aveva evidentemente una scelta reale di fronte a sé, perciò scrivere di "collaborazionismo" è qui completamente fuori luogo. Può rivelare ignoranza o peggio.
Ecco l'articolo:
Paolo Mereghetti
La locandina
A volte i film chiedono allo spettatore di dare delle risposte sulle storie che raccontano, sulle ragioni che hanno spinto il regista a scegliere proprio quei fatti. Ma a volte, e sono i film più esigenti, interrogano chi guarda anche sul modo in cui quelle storie sono raccontate, perché lo stile della messa in scena («dove mettere la macchina da presa» si potrebbe dire in un eccesso di semplificazione) finisce irrimediabilmente per influire sul racconto, sulla narrazione.
Il figlio di Saul , opera prima dell’ungherese László Nemes, Gran premio della giuria all’ultimo festival di Cannes, nominato agli Oscar come miglior film straniero, è uno di questi perché il modo in cui è filmato influisce immediatamente sulla materia raccontata, gli dà una «forma» che non è ininfluente nel determinare il significato del film. Anzi, il senso nasce proprio da lì, da come Nemes e il suo direttore della fotografia Mátyás Erdély raccontano e filmano le azioni di Saul. Che è un ebreo rinchiuso ad Auschwitz nel 1944. Il suo volto, con i lineamenti spigolosi del poeta Géza Röhrig, lo vediamo emergere da una specie di magma indistinto, fatto di colori e ombre che a stento, in secondo piano, fanno intuire altre persone e altre azioni. Lui invece, Saul, è come inseguito perpetuamente dall’obiettivo della macchina da presa: riempie lo schermo negando visibilità al resto.
A volte viene messo a fuoco anche il volto di un altro prigioniero, ma solo per il tempo necessario a entrare in rapporto con Saul, a scambiare qualche stentata parola con lui. Altrimenti è solo di Saul che la macchina da presa (e la regia) si interessano. Lui, il protagonista, è un membro di un Sonderkommando, quei gruppi di prigionieri scelti per aiutare i nazisti a svolgere le tragiche funzioni di un campo di sterminio: raccogliere gli abiti delle persone mandate nelle camere a gas, ammassare i corpi morti e portarli nei forni, disperderne le ceneri, pulire i pavimenti per non far capire ai prossimi condannati quello che li aspetta. In cambio hanno un po’ di cibo in più, la possibilità di appartarsi con alcune prigioniere, regole meno disumane ma anche la certezza che il loro destino non sarà diverso da quello degli altri ebrei: i nazisti non possono lasciare testimoni. Per questo stanno cercando di organizzare una fuga.
Un giorno però, Saul crede di riconoscere in un cadavere il figlio di cui non aveva più notizie e decide di assicurargli una sepoltura secondo i canoni della fede ebraica. Per questo dovrà trovare un rabbino disposto a dire le preghiere ma rischia, con i suoi comportamenti fuori dalle regole, di attirare la reazione delle guardie. Sceglie «di tradire i vivi per i morti» gli dice un membro del suo stesso Sonderkommando e l’affermazione ha qualcosa di tragicamente ironico, visto che nessuno può davvero considerarsi là dentro un essere «vivo». Ma al di là dei fatti raccontati nel film quello che colpisce al cuore lo spettatore è proprio come tutto questo è raccontato.
Risale almeno al documentario di Alain Resnais Notte e nebbia (1955) e all’articolo di Jacques Rivette contro Kapò di Pontecorvo (del 1961), la riflessione sull’«impossibilità» di filmare la Shoah. O comunque sul rischio di trasformare in «spettacolo» una tragedia così sconvolgente. Nemes questo rischio lo ha molto ben presente e per aggirarlo compie due precise scelte, una narrativa e una estetica.
Con la prima racconta la storia di uno dei «traditori» che accettarono di entrare in un Sonderkommando spingendolo però, con l’accidente narrativo del corpo da seppellire religiosamente, a mettere in discussione proprio quella scelta (voluta o subita poco importa). Con la seconda, sceglie di non mostrare niente che non sia il volto del suo protagonista (e pochi altri prigionieri) lasciando indistinto sullo sfondo quello che quei campi significavano e mettevano in opera. In questo modo Nemes non chiude gli occhi di fronte alla Storia, riflette sui limiti del rappresentabile che il cinema deve porsi (che cosa si può far vedere in un film?) ma soprattutto chiede allo spettatore di confrontarsi con quei temi morali che la Shoah continua a sollevare e che nessuno potrà mai cancellare.
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