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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
18.01.2016 Papa Francesco in sinagoga: occasione importante, ma Israele non è neanche nominato
Analisi di Fiamma Nirenstein, commento di Maurizio Molinari

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari
Titolo: «Adesso Francesco riporti i cattolici al fianco di Israele - Il canto che ricorda la Shoah ma celebra l'amore per la vita»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 18/01/2016, a pag. 1-5, con il titolo "Adesso Francesco riporti i cattolici al fianco di Israele", l'analisi di Fiamma Nirenstein; dalla STAMPA, a pag. 2, con il titolo "Il canto che ricorda la Shoah ma celebra l'amore per la vita", il commento di Maurizio Molinari.

Ecco gli articoli:


Papa Francesco ieri al Tempio maggiore a Roma

IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "Adesso Francesco riporti i cattolici al fianco di Israele"

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Fiamma Nirenstein

È stato un giorno importante ieri al Portico di Ottavia: il mondo sa un po' meglio adesso che deve seguitare a cercare la pace, l'accordo e la convivenza nonostante il terrorismo che insanguina il mondo e perseguita gli ebrei, i cristiani e anche i musulmani stessi. Consapevoli della severità del compito, il Papa e il rabbino Di Segni hanno cercato di tracciare la strada di una sempre più duratura e stabile amicizia tenendo conto del terremoto che investe il mondo.Per gli ebrei è l'anno 5776, un conto affettuoso e possessivo dalla nascita del mondo, ovvero da quando la Bibbia lo conta come tale.

Di certo il Papa era consapevole, mentre ieri varcava le soglie di pietra del tempio ebraico fra due ali di folla emozionata, di avere su di sé gli occhi dei quattromila anni della difficile storia da Abramo. Una visita al popolo ebraico da una posizione di influenza e potere come quella del Pontefice comporta accenti fatali. È la terza volta che un pontefice visita la Sinagoga, Giovanni Paolo nel 1986, Benedetto nel 2010; e ogni volta sono diverse le sfide del tempo, nel ricucire l'antico strappo lungo e largo, rosso di sangue, scuro di odio. Gli ebrei sono per i cristiani un popolo portatore di questioni non solo teologiche ma morali e civili per tutta l'umanità; Francesco ha cercato con la sua visita di seguitare a costruire un rapporto positivo con un atteggiamento molto amichevole, con la memoria di Stefano Gaj Taché e con quella della Shoah, e con la ripetizione dell'affettuosa espressione di Giovanni Paolo «fratelli maggiori».

Quello che il Papa ha incontrato è un popolo al centro da una parte di un'avventura meravigliosa e dall'altra di un attacco concentrico che ha il suo centro nel jihadismo, ma che ha poi diramazioni sfumate che portano l'odioso nome di antisemitismo. Ieri sera, di ritorno in Vaticano, vi avrà certo posto mente.L'avventura meravigliosa si chiama Israele, e il popolo ebraico è tuttora orgoglioso e anche pieno d'entusiasmo e di preoccupazioni per aver finalmente dopo duemila anni di esilio raggiunto il suo Paese, un faro di democrazia e di civiltà assediato da mondi autocratici e aggressivi. Forse, se Francesco l'ha avvertito per esempio nel discorso di Ruth Dureghello, la Chiesa potrebbe cessare di propendere per una lettura terzomondista che si rispecchia in filopalestinismo sulla stampa cattolica.

Gerusalemme, nonostante i rapporti diplomatici e formali siano molto progrediti, attende ancora il riconoscimento fondamentale del popolo cattolico circa la sua positività morale. Si può legittimamente aspirare alla pace con i Palestinesi riconoscendo che Israele è l'unico Paese democratico che ha sempre difeso i cristiani mentre li si uccide in tutto il Medio Oriente. Si può vietarne la continua diffamazione razzista, l'incitamento palestinese sostanziato dai programmi nelle scuole e dalla televisione ufficiale, condannare l'ondata di terrorismo che il popolo ebraico soffre in Israele e nel mondo. «Israele» ed «ebrei» devono essere parole ben presenti nella mente occidentale (e quindi cristiana) quando si parla di quella piaga.

Il Papa ha incontrato un mondo ebraico stupefatto dal fenomeno che non avrebbe dovuto più ammorbare l'Europa, un antisemitismo che uccide, che costringe a nascondere la kippah, che porta a una intensa emigrazione verso Israele, un'autentica fuga. L'estremismo antisemita ha la briglia sul collo, e al suo seguito vengono i movimenti di boicottaggio di Israele, le accuse assurde e infamanti che introducono l'idea di un ebreo paria insieme a quella di un Israele paria. Questo mondo ferito è quello che il Papa da ieri sa ancora meglio di dover curare, per esempio non si deve lasciare che si neghi con abile mossa propagandista il fatto più che accertato che Gesù fosse ebreo, e che si induca l'assurdo falso storico di un Gesù palestinese. Sotto banco si ripropone conseguenzialmente l'idea che gli ebrei non abbiano le loro accertate radici nella loro terra, Israele.La gente che era ieri intorno al Papa è stata la prima nella storia a inventare il precetto: «Ama il prossimo tuo come te stesso»; le parole del Padre Nostro cristiane sono ricalcate sulla preghiera ebraica. Per i cattolici deve essere un precetto inviolabile quello di amare il miracolo di Israele e di onorare la sua presenza nel mondo. Oggi non c'è più spazio, non c'è tempo per tergiversare, questa visita, se il Papa la terrà vicina al suo cuore, può fare una differenza.

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Il canto che ricorda la Shoah ma celebra l'amore per la vita"

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Maurizio Molinari

È stato il canto di «Ani Maamin» a concludere la visita di Papa Francesco nella Sinagoga di Roma come era avvenuto con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il testo che inizia con le parole «Io credo» si richiama ai tredici principi di fede di Maimonide e la melodia è attribuita a Azriel David Fastag, un chasid di Modzitzer che si ritiene l’abbia composta dentro un carro bestiame mentre lo portavano a Treblinka. Ad intonarlo furono gruppi di ebrei che si incamminavano verso le camere a gas nei campi di sterminio. Ogni anno, durante la cena del Seder che ricorda l’Uscita degli ebrei dall’Egitto narrata nell’Esodo, molte famiglie ebraiche cantano «Ani Maamin» per ricordare i caduti del ghetto di Varsavia e i sei milioni di vittime del nazifascismo. Fu Elio Toaff, allora rabbino di Roma, a volerlo nella cerimonia per Giovanni Paolo II per indicare il legame con la memoria della Shoah. È un motivo che, in una versione più recente del cantante chassidico Shlomo Charlebah, celebra l’amore per la vita e la fede nella venuta del Messia.

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