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La Repubblica Rassegna Stampa
16.01.2016 Gli ebrei romani: 'Non rinunceremo alla nostra kippah, ma crescono i timori di attacchi antisemiti'
Servizio di Corrado Zunino

Testata: La Repubblica
Data: 16 gennaio 2016
Pagina: 25
Autore: Corrado Zunino
Titolo: «'Non rinunceremo alla nostra kippah ma fuori dal Ghetto c'è chi la nasconde'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/01/2016, a pag. 25, con il titolo "Non rinunceremo alla nostra kippah ma fuori dal Ghetto c'è chi la nasconde", il servizio di Corrado Zunino.

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Corrado Zunino

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Il commerciante di cibo kosher, cravatta regimental e kippah poggiata in testa, dice in un romano stretto e antico: «Quando esco dal Ghetto il copricapo lo proteggo con un altro cappello. Sì, lo nascondo. Non voglio dare riferimenti a chi ci vuole male, non voglio offrire un vantaggio al nemico». Roberto, 35 anni, barba ortodossa, racconta una storia di famiglia, e di avi, che porta all’assedio di Gerusalemme da parte delle legioni di Tito Flavio Vespasiano, gli ebrei portati prigionieri nella Roma imperiale: «Discendo da lì». Dice ora in piazza Cenci, il ministero di Giustizia dista una strada da attraversare: «Non ho episodi di antisemitismo plateale da raccontare, ma dopo Charlie Hebdo, dopo il Bataclan, il livello di attenzione deve salire. L’ostilità è tornata a crescere anche da noi. Gli italiani sono tolleranti e curiosi, ma nelle moschee romane, quelle ufficiali, quelle abusive, ci sono molti arabi radicali. Il problema esiste. La kippah non la tolgo, mi mette in contatto con Dio, diciamo che la proteggo».

Mancano tre ore allo shabbat in Sinagoga, il tramonto del venerdì che porta al giorno del riposo, il sabato. Nei tre ettari compresi tra sei strade acciottolate uno sciame di studenti (escono dalla scuola ebraica paritaria Renzo Levi, tre gradi di istruzione) e poi turisti israeliani e romani in pausa pranzo ed ebrei romani. Molti hanno la kippah, rotonda e schiacciata, portata con vestiti casual. Il rabbino di Marsiglia ha suggerito di non mostrarla dopo l’aggressione con un machete da parte di un quindicenne turco, in Francia la tensione è sempre alta. Qui la comunità tutta si sente al sicuro, e non è solo una questione che dipende dai tre poliziotti sotto il Portico d’Ottavia e la pattuglia dei carabinieri davanti alla sinagoga. Già, domenica sarà qui papa Francesco, la prima volta in una sinagoga. «Al Ghetto non ho mai problemi», racconta Mosé Silvera, 54 anni, il più importante importatore di vini da Israele, un negozio a Milano già sfregiato da alcune svastiche, il giaccone sgualcito dalle casse di chardonnay della Giudea scaricate.

«Fuori di qui le minacce sono presenti e ci danno una percezione di insicurezza. L’altra sera uno alla fermata dell’8, qui dietro, mi ha urlato frasi sconnesse, forse era ubriaco. La kippah, però, non la tolgo». La copre con un cappello da baseball, magari. «A Milano negli anni Ottanta mi suggerivano di levare la catenina con la stella di David, era la stagione degli attentati. Non l’ho mai fatto». Mosè racconta l’antisemitismo conosciuto da commesso viaggiatore: «Sono stato molestato da un magrebino a Sarcelles, alla periferia di Parigi. Ricordo poi un volo lo scorso settembre, mattina prestissimo, un Alitalia si stava levando per il Nord Europa. Ho chiesto il permesso al pilota di poter pregare in fondo all’aereo. Davanti a me, seduto, un signore scuoteva la testa, imprecava, andava nervoso verso il personale di bordo a lamentarsi. Non ho smesso. Lo so che gli ebrei non piacciono a tutti, questo lo accetto. Cerco di comprenderne il motivo, ma non mi scontro mai».

Quando era ragazzo Mosè ha lavorato in un negozio di alta moda in via Monte Napoleone, a Milano. «Il direttore mi detestava, ferocemente mi provocava. Stilava una lista di dischi che dovevo comprargli da Ricordi: tutti inni fascisti. Diceva sempre: “Gli ebrei li voglio solo in negozio a spendere soldi”. L’ho odiato, oggi mi limito a parlar male di lui». L’importatore Mosé porta la kippah da vent’anni esatti. Una scelta adulta, la sua. «Mi vide al ristorante il rabbino: “Almeno a tavola dovresti tenerla”. Non ero un praticante, ma iniziai a riflettere sulla necessità di crescere, migliorare. Oggi la porta tutto il giorno, anche se mi ha regato la calvizie».

Fabio Perugia, portavoce della comunità, seduto nel dehor del ristorante Su Ghetto — ha aperto da dodici giorni — assicura: «Il rabbino ci ha detto che a Roma non esistono motivi per non portare la kippah. Il conflitto religioso? Parigi e Marsiglia? Un ebreo non la indossa per motivi politici, e non deve lasciarla per motivi politici. In un’era in cui si uccide in nome di Dio, è bene mostrare in modo sano la propria identità religiosa». Fabio Perugia non indossa sempre la kippah, ma la ferma sui capelli con due mollette. Il titolare di Su Ghetto non la indossa proprio: «È volata via», ride. Alberto, ristoratore di Bellacarne, crede invece che il copricapo che ricorda il timore del cielo vada portato per difendere una comunità: «Abbiamo una storia». Sull’uscio del suo kosher grill dice: «Non mi tiro indietro, mio fratello è uno dei trentasette feriti nell’attentato alla sinagoga. L’Ottantadue. I problemi ci sono, ma noi continuiamo a fare la nostra vita».

Marco Sed, 45 anni, è un riferimento della comunità. Ristoratore, commercia, produce formaggi. È assessore al Culto. In un momento di pausa spiega: «A Roma non avevamo la tradizione della kippah, ma la comunità è cresciuta sul piano religioso. Io la porto da 15 anni e non ho mai avuto problemi, fino ad oggi. Faccio qualsiasi cosa senza toglierla. Se iniziassi ad avere problemi per il mio copricapo, un simbolo religioso, mi sentirei leso nei miei diritti di italiano, di ebreo italiano».

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