Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/01/2016, a pag. 1. con il titolo "Una kippah contro la resa dell'Occidente", l'editoriale di Claudio Cerasa; dalla REPUBBLICA, a pag. 19, con il titolo "Perché è scandaloso che un ebreo nasconda la kippah", l'analisi di Siegmund Ginzberg.
Ecco gli articoli:
IL FOGLIO - Claudio Cerasa: "Una kippah contro la resa dell'Occidente"
Claudio Cerasa
La colpa è nostra, naturalmente, e se c’è un islamista che si fa esplodere a Mosul, un terrorista che uccide vignettisti, un fondamentalista che accoltella israeliani, una coppia di integralisti che fa una strage in un centro disabili, un uomo che a nome dell’Isis spara tredici colpi di pistola a un poliziotto di Philadelphia, la responsabilità è sempre dell’occidente mascalzone che, con il linguaggio, con le parole, con le guerre, con le bombe, non fa altro che provocare, in ogni angolo del mondo, la reazione del jihadismo e dell’integralismo di matrice islamista. Siamo noi che provochiamo, ovvio, non sono loro che agiscono, e forse, chissà, il modo migliore per non provocare questa reazione è quella di ritirarsi, di farsi da parte, di nascondersi, di fare di tutto per non innescare una possibile contro azione. E dunque meglio non parlare di islam, dice il progressista collettivo, meglio non fare sciocchezze, meglio non chiamare le cose con il loro nome. Meglio, molto meglio, preoccuparsi di far calare un velo ipocrita sulle radici del male e della violenza. Meglio, molto meglio, formulare appelli accorati contro la dilagante emergenza mondiale dell’islamofobia. Meglio, dunque, non parlare dei problemi veri, del rapporto che esiste tra uso della violenza e interpretazione dell’islam. E meglio, in definitiva, farsi da parte per evitare problemi.
La ritirata culturale dell’occidente è un tema purtroppo presente con una certa costanza nella quotidianità delle cronache mondiali ma quando la ritirata si trasforma in una resa occorre smetterla di fischiettare, occorre smetterla di far finta di nulla e occorre semplicemente guardare la realtà con occhi diversi. Mettiamoci la kippah, no? E’ successo questo. Tre giorni fa a Marsiglia, nell’indifferenza dei grandi giornali, un insegnante che indossava la kippah è stato aggredito mentre si avvicinava alla Sinagoga. Il giorno dopo il concistoro israelitico di Marsiglia – nella stessa Francia che nel 2015 ha registrato l’84 per cento di attacchi antisemiti in più rispetto all’anno precedente e nella stessa Europa dove i veli islamici proliferano, dove le donne sono pronte a coprirsi il volto per protestare contro l’islamofobia, dove i simboli cristiani vengono nascosti in nome del politicamente corretto, dove i presidi di alcune scuole, ad Amsterdam, hanno dato la propria disponibilità a eliminare dal calendario scolastico un giorno di festività cristiana per sostituirlo con uno caro ai fedeli di religione islamica – ha invitato i fedeli della comunità ebraica a rassegnarsi, a non provocare e a non indossare più la kippah “in attesa di giorni migliori”.
Haïm Korsia, Gran Rabbino di Francia, si è dissociato dal concistoro di Marsiglia, affermando che “Noi continueremo a portare la kippah”, ma il dato resta, il trend è drammatico e la potenza dei simboli ha un valore universale. Secondo un sondaggio di qualche tempo fa della European Union’s Fundamental Rights Agency, un terzo degli ebrei in Europa ha già rinunciato a indossare simboli religiosi per paura di farsi riconoscere. Lo scorso anno, a febbraio, un appello simile a quello arrivato dal Concistoro di Marsiglia fu formulato dal presidente del consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, che invitò gli ebrei a “evitare la kippah dove ci sono molti musulmani”. E il tema ci sembra dunque evidente: si può accettare di passare da una ritirata tragica a una resa drammatica senza smuovere un dito, senza fare nulla, senza combattere, senza protestare, senza far suonare un campanello d’allarme che ci porti a capire che non si può continuare a ignorare che il rispetto di alcune identità religiose (avete capito quali) ci sta portando a coprire con un velo, letteralmente a nascondere, altre identità religiose (avete capito quali)?
No che non si può. Un ebreo che si nasconde per paura di essere riconosciuto come ebreo è l’emblema perfetto di un mondo che costringe l’occidente a nascondersi per paura di provocare la reazione di chi vuole accoltellare l’occidente. Il primo febbraio verrà celebrato il World Hijab Day, la Giornata mondiale del velo islamico. Bene. Noi, nel nostro piccolo, quest’anno trasformeremo il 27 gennaio, la Giornata della memoria, nella nostra e nella vostra Giornata della kippah. Gli ebrei non devono nascondersi. L’occidente non deve nascondersi. Noi ci mettiamo la faccia. Se volete metterla anche voi inviate al Foglio la vostra foto a kippah@ilfoglio.it: la kippah ve la regaliamo noi.
LA REPUBBLICA - Siegmund Ginzberg: "Perché è scandaloso che un ebreo nasconda la kippah"
Siegmund Ginzberg
KIPPAH o non kippah? La diatriba tra gli esponenti dell'ebraismo francese che invitano a non indossare per strada la kippah «per non essere riconosciuti come ebrei, e quelli che lo bollano come incitamento alla viltà e al «disfattismo», è il segno allarmante degli effetti dell'antisemitismo che cresce in Europa. Solo immaginare di dover rinunciare a un simbolo religioso per non essere aggrediti è terribile. Ma è anche qualcosa di surreale. Se non altro perché tutta la storia dell'intolleranza in Europa è sempre passata attraverso l'obbligo per gli ebrei di distinguersi dagli altri, non la loro libertà di indossare o non indossare quel che gli pare: che si tratti di un particolare copricapo o di altro segno distintivo come l'infame stella gialla imposta dai nazisti. La kippah, dalla parola ebraica che significa calotta (e che forse ha la stessa etimologia del nostro "cappello"), chapeo nel castigliano antico dei sefarditi, yarmulke in yiddish, che si potrebbe dire "papalina" in italiano (perché identico al copricapo indossato dal Papa e dai cardinali ), non è affatto un obbligo religioso prescritto dalla Bibbia. Neanche gli ultraortodossi sostengono che lo sia.
Quando a metà Anni '80 Ronald Reagan ricevette alla Casa bianca i lubavich (quelli che girano per New York con riccioli, palandrana e cappellone nero) gli chiese quale fosse il significato religioso della kippah. «Signor Presidente, per noi è un segno di rispetto, gli rispose rabbi Shemtov. Il Talmud si limita a prescrivere: «Copriti la testa per mostrare che hai timore del Cielo». Le leggende di Rabbi Nachman raccontano che a iniziare la pratica di fargli coprire la testa fu sua mamma, convinta che solo il timor di Dio potesse salvarlo dalla perdizione. Nella forma attuale risale al Settecento. Fino a qualche secolo fa non era obbligatorio nemmeno durante i riti religiosi.
Nell'Europa dell'Est erano più in voga i larghi cappelli orlati di pelliccia, che ancora vengono sfoggiati dagli ortodossi per i giorni di festa. È segno di rispetto verso gli ebrei indossare un cappello — qualsiasi cappello, a rigore anche un fazzoletto — durante le loro cerimonie, così come per i cristiani lo è togliersi il cappello in chiesa. In Sinagoga o a una Sèder di Pèsach è normale prestare la kippah a un ospite non ebreo. Solo più di recente si sono moltiplicate le simbologie identitarie. In Israele, ad esempio, indossare una kippah a uncinetto identifica come sionisti o conservatori, in pelle come ortodossi moderni, nera come apprendisti rabbini o chassidim, bianca identifica i seguaci di Rabbi Nachman, in seta i riformatori, quella ricamata i sefarditi e i riformisti. Una funzione completamente diversa da quella religiosa o politica è l'uso identitario, quello per cui chi indossa la kippah si identifica come ebreo, sia che lo faccia in sinagoga, sia lo che lo faccia per strada.
Niente di male, ci sono situazioni in cui è sacrosanto rivendicare la propria identità, specie per i perseguitati (io sono nato poco dopo l'Olocausto e questa è la ragione per cui mio padre volle assolutamente che fossi circonciso, anche se lui non era né credente né praticante). Ma altrettanto lecito e fondato in molti secoli di cultura ebraica e di persecuzioni è il non ostentare eccessivamente la propria ebraicità, il non gridarla inutilmente di fronte a chi vuole male agli ebrei. Nella Bibbia gli ebrei si fanno massacrare pur di non rinnegare il proprio Dio, non inchinarsi agli dei degli altri. I fratelli Maccabei si fanno ammazzare l'uno in modo più atroce dell'altro pur di non consumare la carne di maiale che gli viene imposta dal satrapo ellenistico Antioco. Ma nulla impone, o al contrario proibisce, di esibire in pubblico una certa foggia di vestire o di coprirsi il capo. Dovrebbe essere una questione di libertà, condizionabile solo da esigenze di sicurezza. Per quanto riguarda la Francia bisogna ricordare anche che la discussa legge del 2004 proibisce di indossare pubblicamente nelle scuole il velo islamico, i kippot (plurale di kippah) o altri vistosi simboli religiosi.
Non e dunque uno scandalo religioso suggerire di non indossarli nemmeno per strada. Ma è scandaloso che nel cuore dell'Europa gli ebrei debbano pensare di nascondere la propria identità per paura. Gli ebrei erano stati obbligati per tutto il Medioevo a indossare determinati copricapi (il famoso cappello a cono che poi divenne uniforme dei condannati dell'Inquisizione) o determinati segni che li distinguessero dagli altri. Il Rinascimento imponeva il cerchio giallo da indossare sopra le vesti: ne porta testimonianza anche uno dei profeti del Vecchio Testamento dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina. Pare che lo avessero inventato in Spagna per distinguere e separare ebrei e musulmani, le minoranze dal "sangue sporco". In Francia e in Germania gli ebrei venivano costretti persino a comprare le pezze gialle dal governo, una forma di tassa. I nazisti che imponevano la Stella di Davide gialla non avevano inventato nulla di nuovo.
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