Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 07/01/2016, a pag. 11, con il titolo "Liberiamo le periferie dai jihadisti assassini o sarà guerra civile", l'intervista di Alexandre Devecchio a Alain Finkielkraut.
Alain Finkielkraut
UN ANNO dopo gli attacchi che, dal 7 al 9 gennaio, colpirono vignettisti, giornalisti, poliziotti ed ebrei a Parigi, il filosofo Alain Finkielkraut ritiene che questi atti di guerra abbiano chiuso la parentesi della post-Storia. Nella tragedia, vede sorgere la riscoperta della cosa comune, della Francia come patria amata.
Un anno dopo l'anniversario della strage a Charlie Hebdo, lei è sempre Charlie? «Come tutti i manifestanti dell’11 gennaio 2015, ero Charlie, ero ebreo, ero la polizia, ero la Repubblica. Abbiamo sepolto, con questo slogan, lo spirito sessantottino di cui la rivista Charlie era uno degli ultimi simboli. In mancanza di nemici reali, figli e nipoti del ’68 picchiavano i poliziotti, criticavano il sistema, celebravano l’individuo contro tutti i poteri. Gli attentati di gennaio hanno chiuso la parentesi incantata della post-Storia. La festa è finita: di fronte a un nemico temibile, la Repubblica è tornata a essere la cosa comune e la Francia una patria amata. Ma mentre il popolo scendeva in piazza, gli abitanti di quelli che la “neolingua” chiama “quartieri popolari” rimanevano a casa. Non avevano alcuna intenzione di brandire la matita della libertà di espressione. Charlie aveva insultato il Profeta. Questo è il grande paradosso dell’11 gennaio. Questo momento commovente di unità nazionale ha rivelato la spaventosa realtà della spaccatura francese».
Dopo gli attentati di novembre, una parte del personale politico, sotto la spinta del presidente della Repubblica e del primo ministro, si è riappropriata dei simboli della nazione. E' giunta finalmente all'appuntamento con la Storia? «La riappropriazione dei simboli nazionali è un fenomeno che va al di là della classe politica. Le vittime della “generazione Bataclan”, ultraconnessa, credevano di vivere su scala globale. La nazione era roba vecchia per loro. Navigando su Internet, mangiando al tavolo universale, avendo amici ovunque, snobbavano le frontiere. Coloro che li piangono oggi si svegliano da questa illusione. Gli spiriti planetari scendono brutalmente sulla terra. Ancor più del “Je suis Charlie” dell’11 gennaio, il “Je suis en terrasse” del dopo 13 novembre proclama che una civiltà è stata colpita: la civiltà urbana dei caffè, della promiscuità. Di questa particolare civiltà iscritta nella geografia e nella Storia si sentono improvvisamente gli eredi e questo li riconcilia con il tricolore e l’inno nazionale. Questa Marsigliese di cui ieri fustigavano le parole sanguinose ora sembra perfettamente adeguata alla nostra situazione. Perché non si tratta di andare a conquistare l’universo cantando, si tratta di difendersi dai feroci soldati che vengono in mezzo a noi a massacrare i nostri figli e i nostri compagni. “Si può amare la Francia per la gloria che sembra garantirle un’esistenza che si prolunga nel tempo e nello spazio. O si può amarla come cosa che, terrestre qual è, può venire distrutta e che vale quindi tanto di più”, ha scritto Simone Weil ne La prima radice. È questo secondo patriottismo a essere all’ordine del giorno».
Abbiamo imparato a convivere con i soldati davanti alle sinagoghe e alle porte delle chiese. Francesi hanno sparato su francesi. Ci minaccia la guerra civile? «Questa guerra civile, i jihadisti la vogliono e non sono i soli. Le arringhe di alcuni rapper la auspicano esplicitamente. Questa francofobia vociferante non va presa alla leggera. Come ha detto Georges Bensoussan, ha trasformato i territori perduti della Repubblica in territori perduti della nazione. Per evitare la guerra civile, lo Stato deve riconquistarli».
Che cosa ne pensa della privazione della cittadinanza per i francesi con doppia nazionalità condannati per atti di terrorismo? «Chi si scandalizza invoca il grande principio repubblicano dello ius soli. Dimentica che lo ius soli è stato introdotto in Francia non già per ragioni di principio, ma per soddisfare i requisiti della leva obbligatoria. Gli uomini sentono nel loro cuore che sono uno stesso popolo quando hanno una comunione di interessi, affetti, ricordi e speranze, ecco che cosa fa la patria. A questo “desiderio di vivere insieme”, ci sono francesi che rispondono con un’aspirazione inversa. Non scelgono la nazione, ne vogliono la morte e scelgono la jihad. Dobbiamo prendere atto di questo arruolamento e ristabilire per quelli che, nati da genitori francesi, si sono convertiti all’islamismo assassino la pena di indegnità nazionale creata alla Liberazione per i francesi che avevano sostenuto la Germania nazista».
Questo problema divide la sinistra. La decadenza della nazionalità rimette in discussione lo ius soli? «Il razzista dice che gli stranieri che desiderano diventare francesi non possono, il repubblicano, al contrario, prende in considerazione i comportamenti di ognuno perché tratta gli esseri umani come soggetti responsabili. Il razzista stigmatizza gli indesiderabili, il repubblicano sanziona i non desiderosi. In un momento in cui la Francia torna ad essere un’esperienza condivisa, alcuni vorrebbero, in nome dell’uguaglianza di tutti i cittadini, limitarla a un timbro. Quando il nemico si dichiara, escono fuori petizioni e forum a denunciare come una misura razzista la discriminazione giuridica tra amico e nemico. C’è, tuttavia, una buona notizia: l’opinione pubblica rifiuta, di qualsiasi tendenza essa sia, di lasciarsi trascinare in questo delirio».
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