Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/01/2016, a pag. 7, con il titolo "Spenta la voce di Raqia, la giornalista libera che osava sfidare l'Isis", la cronaca di Viviana Mazza.
Viviana Mazza
Raqia Hassan Mohammed
Nelle foto porta il velo islamico intorno al volto, un vestito pieno di lustrini dorati e il rossetto rosa sulle labbra che accennano un sorriso. Nel suo profilo Facebook raccontava la vita della gente comune intrappolata a Raqqa, la capitale del Califfato, tra le violenze dell’Isis e la paura dei bombardamenti Usa, ma spesso con un incrollabile senso dell’umorismo e un pizzico di speranza. «Tagliate pure i collegamenti internet, i nostri piccioni viaggiatori non si lamenteranno», scriveva sfidando l’Isis, sotto lo pseudonimo di Nisan Ibrahim. Raqia Hassan Mohammed — questo era il suo vero nome — è stata uccisa perché era una voce indipendente.Trentenne, curda, studi in filosofia, era cresciuta con la famiglia a Raqqa. Si era subito unita alla rivolta contro Assad scoppiata nel 2011. Due anni dopo aveva rifiutato di lasciare la città trasformata dall’Isis in capitale, trovandosi così a denunciare gli abusi di due nemici: il regime e gli estremisti. Secondo altri «citizen journalist» come lei — che cercano di raccontare la realtà sfondando il muro della propaganda del Califfato —, la morte di Raqia risalirebbe allo scorso settembre e la sua cattura già a luglio, quando scrisse di aver ricevuto minacce di morte. «Ma va bene così — aggiunse allora — perché se mi decapitano difenderò comunque la mia dignità, ed è meglio che vivere nell’umiliazione con l’Isis».
Raqia non è la prima donna «citizen journalist» uccisa dall’Isis, dice al Corriere Abu Muhammad, un attivista del gruppo «Raqqa viene uccisa in silenzio», che la conosceva anche se non lavoravano insieme. «Due settimane fa hanno ammazzato Maria Shamas, un’insegnante di 44 anni. Le hanno sparato per strada. Era una donna qualunque, ma dicevano che fosse una “citizen journalist”. E ce ne sono state altre. La prima è stata Iman Al Halabi, nell’agosto 2013. Lei era davvero un’attivista». Passeggiava con le amiche ai giardinetti, si è accostata un’auto grigia e l’hanno freddata con un colpo di pistola. L’ultimo post di Raqia è datato 21 luglio. Eppure per tre mesi gli uomini del Califfo hanno tenuto nascosta la sua morte, usando il suo profilo Facebook per tentare di identificare altri attivisti dentro e fuori la Siria. Solo il 2 gennaio hanno annunciato alla famiglia che Raqia era stata «giustiziata per spionaggio».
L’accusa: collaborare con l’Esercito siriano libero. Negli ultimi mesi l’Isis ha dato strenuamente la caccia agli attivisti siriani, forse anche per una crescente paranoia dovuta ai bombardamenti Usa e russi. Il gruppo «Raqqa viene uccisa in silenzio» ha perso tre membri da ottobre. Un video appena diffuso mostra l’esecuzione di 5 uomini accusati di spiare per Londra. Molti «citizen journalists» sono caduti dal 2011 ad oggi. Nel 2015 Reporters Senza Frontiere ne ha contati una decina in Siria, mentre il Syrian Network for Human Rights afferma che sarebbero molti di più, una novantina. Entrambe le associazioni additano comunque come responsabile non solo l’Isis ma anche il regime di Assad: mentre il primo spesso annuncia pubblicamente i suoi crimini, il secondo li nasconde. Né sono innocenti altri gruppi ribelli: nel caso di Razan Zaituneh, avvocata e attivista sparita dal dicembre 2013 alla periferia di Damasco, si sospetta il gruppo salafita Jaysh Al Islam (anti Assad e anti Isis); e il Syrian Network denuncia casi di arresti di giornalisti per mano delle forze curde. Il peso della violenza quotidiana talvolta increspava Il tono ironico di Raqia. «Il nostro errore più grande è stato di navigare in un mare di sogni — ha scritto in uno degli ultimi messaggi —. Sognavamo la fase successiva e così abbiamo ignorato la fase attuale. Abbiamo guardato al futuro e ignorato il passato, un errore di cui ci pentiremo».
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