Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/01/2016, a pag. 22, con il titolo "Il crollo dell'oro nero infiamma l'Arabia Saudita", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
Arabia Saudita e petrolio
L’ Iran non è certo un modello d i democrazia. E quando i suoi dirigenti fustigano il «funzionamento criminale» di quel «regime infame» — perché legato al «terrorismo» — che è l’Arabia Saudita, è come il bue che dà del cornuto all’asino. Resta il fatto che quanto accaduto durante lo scorso fine settimana nel Regno Saudita è preoccupante per diverse ragioni. Quarantasette esecuzioni capitali in un solo giorno è un modo curioso di cominciare l’anno. È un buon inizio per battere il record delle 153 condanne a morte del 2015 e delle 87 dell’anno precedente. E quando queste pene capitali, eseguite con la spada o con armi automatiche, si sommano alla litania degli apostati decapitati, dei blogger torturati o in attesa nei corridoi della morte di essere giustiziati, o del ladro di carte bancarie crocifisso nel Nord del Paese, si ha il diritto di affibbiare al re Salman, come al suo predecessore e come agli aspiranti alla sua successione che finora non hanno manifestato alcun segno di protesta o di rammarico, il titolo macabro ma meritato di recordman mondiali del crimine di Stato.
Ma a questo si aggiungono, al di là dell’oltraggio ai princìpi più elementari della dignità umana, segnali di grande portata. La messa in scena, particolarmente macabra, dei massacri perpetrati, lo stesso giorno, in tutte le città del Paese esprime la volontà di esibirli, non di nasconderli, affinché non siano ignorati: né certo dal Paese, né dalle cancellerie delle capitali alleate o nemiche. In altri termini, c’è in questo atteggiamento la dimostrazione di forza di un regime instaurato da un secolo ma che tutti gli osservatori son concordi nel definire corrotto, guasto, in declino, sempre più evidentemente inadeguato ad assicurare la propria durata nel tempo: è un tipo di fuga in avanti che, trattandosi di un Paese chiave in tutte le grandi manovre geopolitiche del momento, non è mai una buona cosa.
D’altronde, il fatto di mettere sullo stesso piano, e sullo stesso carro, i probabili scherani di Al Qaeda e dell’Isis (la maggioranza dei giustiziati di sabato scorso) e quattro oppositori sciiti, fra cui il carismatico sceicco Nimr al-Nimr — che non hanno commesso altro crimine se non quello di difendere una visione dell’Islam alternativa al sunnismo e, più particolarmente, al wahhabismo — apre la strada a un ingranaggio di rappresaglie che non ha tardato a infiammare questa parte del mondo: Yemen, Bahrein e, naturalmente, l’altra grande potenza regionale, sciita per vocazione e destino, che è l’Iran. Forse, a infiammare le coscienze e i cuori c’è anche in origine una parte di calcolo che, per quanto rischioso e verosimilmente perdente possa essere, non sorprenderebbe poi molto trattandosi di un regime che, se durasse la lenta ma inesorabile diminuzione dei prezzi mondiali del petrolio, finirebbe nel baratro e che quindi è pronto a tutto pur di uscire dalla trappola in cui si è in parte rinchiuso: quando si è il primo produttore mondiale di greggio e l’ottanta per cento delle proprie risorse dipende dalla stabilità della regione, apparire come l’epicentro di una nuova zona di turbolenze dal futuro bruscamente incerto e dalle convulsioni imprevedibili, non è forse un mezzo, comunque a medio termine, di sperare di far risalire il prezzo del petrolio?
C’è poi la coalizione anti-Isis in cui sembrava che l’Arabia Saudita volesse avere un ruolo eminente quando una quindicina di giorni fa, attraverso il principe ereditario Mohamed ben Salman, lanciava l’idea di un esercito musulmano anti-islamista che arruolasse, sotto lo stesso stendardo, 34 Paesi così diversi fra loro come l’Indonesia, la Malesia o il Libano: con questo ritorno, senza precedenti da lungo tempo, della guerra all’ultimo sangue fra sunniti e sciiti, con la riapertura, a scapito della mobilitazione contro il nemico comune, della vecchia disputa fra i due imperi arabo e persiano e fra due narrazioni contraddittorie, con il vento di collera e di rivincita che soffia a Baghdad e che spinge il governo pro-iraniano di Hayder al-Abadi alla rottura con il fratello saudita diventato nemico, sembra difficile che questa alleanza possa concretizzarsi e prender forma.
Quanto alla riconquista di Mosul — che sarà la vera svolta dell’offensiva anti-Isis e che presuppone un’operazione congiunta fra curdi, sunniti e sciiti — essa sembrava imminente, ma ecco che all’improvviso è rinviata alle calende greche. La comunità internazionale, di fronte a questo disastro, non si muove. Le democrazie in particolare, come al solito, voltano lo sguardo dall’altra parte. E sembra che nessuno voglia ricordare, per esempio, che proprio in questo momento la presidenza del Comitato consultivo dei Diritti dell’uomo dell’Onu è stata affidata — guarda che paradosso! — a un rappresentante di questo Paese diventato folle. Nessuno ha il potere di cambiare la natura del regime saudita. Ma per chi, fra i suoi partner, gli vende aerei da caccia e gli compra oro nero non dovrebbe essere tanto difficile calmare i suoi furori omicidi notificandogli che, oltre al suo popolo, esso minaccia la pace della regione e del mondo. La famosa frase — «è il petrolio, idiota!» — ispirata da Bill Clinton durante la sua campagna presidenziale nel 1992 di fronte a Bush padre, funziona nei due sensi: in questo gigantesco imbroglio, dove ciascuno prende l’altro alle spalle e in ostaggio, chi è più vulnerabile, chi ha maggior interesse a venire a patti e, di fatto, cederà per primo, non è necessariamente quello che si crede. A buon intenditor, poche parole.
(Traduzione di Daniela Maggioni)
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