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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.01.2016 Il fanatismo islamico dietro lo stupro di massa a Colonia
Analisi di Pierluigi Battista, Matteo Matzuzzi

Testata:Corriere della Sera
Autore: Pierluigi Battista - Matteo Matzuzzi
Titolo: «Quelle donne libere umiliate a Colonia dal fanatismo - L'integrazione non è un pranzo di gala»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/01/2016, a pag. 23, con il titolo "Quelle donne libere umiliate a Colonia dal fanatismo", l'analisi di Pierluigi Battista; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "L'integrazione non è un pranzo di gala", l'analisi di Matteo Matzuzzi.

Ecco gli articoli:

A destra: la donna sottomessa nell'islam, dall'islam: o così...

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...o così

CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista:  "Quelle donne libere umiliate a Colonia dal fanatismo"

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Pierluigi Battista

Gli uomini che a Colonia si sono avventati come animali sulle donne in festa per il Capodanno volevano punire la libertà delle loro vittime. Hanno palpeggiato, molestato, umiliato, violentato, picchiato le donne che osavano andare da sole, che giravano libere di notte, che si abbigliavano senza rispetto per le ingiunzioni e i divieti consacrati dai padroni maschi. Consideravano prede da disprezzare e da percuotere le donne che facevano pubblicamente uso di una libertà che gli stupratori e gli energumeni di Colonia considerano inconcepibile, peccaminosa, simbolo di perversione, donne che studiano e lavorano. Che sposano chi desiderano e non il marito oppressore che la famiglia, la tradizione, il clan assegnano loro. Che non sono costrette a uscire solo in compagnia dell’uomo prevaricatore. Che bevono e mangiano in libertà, entrano nei locali, fanno l’amore quando scelgono di farlo, brindano a mezzanotte, indossano jeans e magliette, flirtano, fanno sport e si scoprono per praticarlo, hanno la sfrontatezza di festeggiare il Capodanno con i loro amici maschi.

Per chi considera la libertà delle donne un peccato da estirpare, le donne libere sono delle poco di buono da umiliare, da riempire di lividi sul seno e sulle cosce aspettandole all’uscita della metropolitana e con la polizia impotente e immobilizzata. Come si fa con gli esseri considerati inferiori. Come è accaduto a Colonia in una tragica e sconvolgente prima volta nella storia dell’Europa contemporanea in tempo di pace. È stato un rito di umiliazione organizzato, coordinato, diretto a colpire quello che oramai comunemente viene definito uno «stile di vita». Nonostante i retaggi del passato, nonostante le tenebre oscurantiste che ancora avvolgono come fumo di un passato ostinato le città e persino le famiglie dell’Europa figlia dell’Illuminismo, malgrado i branchi di lupi che infestano i nostri Paesi e fanno morire di paura le donne che si avventurano sole, le ragazze indifese di fronte al bullismo e al teppismo, malgrado tutto questo, la libertà della donna resta pur sempre un principio e una pratica di vita inimmaginabile in altri contesti culturali, in altri sistemi di valori. Ed è l’incompatibilità valoriale con questo spirito di libertà che le bande di Capodanno hanno voluto manifestare contro le donne che andavano a ballare, a bere, a baciare anche.

Non capire il senso di «prima volta» che gli agguati di Colonia portano con sé è un modo per restare ciechi, per non capire, per farsi imprigionare dalla paura e dall’afasia. Così come non abbiamo voluto vedere, abbiamo fatto finta di niente, siamo restati volontariamente ciechi quando al Cairo, nella leggendaria piazza Tahrir, la «primavera araba» diventò cupa e le donne a decine cominciarono in nome dell’Islam ad essere aggredite, molestate, violentate dai super-fanatici del fondamentalismo misogino. Ora dovremmo cercare di capire che nelle gesta di prevaricazione degli uomini che odiano le donne libere si riflette un gesto di aggressività valoriale di stampo irriducibilmente sessista e non lo sfogo barbarico di un primitivismo pulsionale. Un atto di sopraffazione culturale, non di ferocia animalesca e irriflessa.

Con tutte le cautele e il senso di responsabilità che si deve in questo genere di problemi, Colonia ha lo stesso significato di aggressione simbolica dell’irruzione fanatica nella redazione di Charlie Hebdo : lì veniva scatenata un’offensiva mortale contro la libertà d’espressione, considerata un peccato scaturito nel cuore del mondo infedele; qui contro la libertà della donna, la sua emancipazione impossibile e temuta in contesti culturali che danno legittimazione ideale e persino religiosa al predominio e alla sopraffazione del maschio.

Certo, è diverso lo sterminio dei vignettisti dalle botte umilianti di Colonia. Ma c’è un comune sostrato punitivo, l’identificazione di un simbolo culturalmente indigeribile che stabilisce una distanza abissale tra uno «stile di vita» libero e una mentalità che bolla la libertà delle persone, uomini e donne allo stesso modo, come una turpitudine, un’offesa, un peccato, un oltraggio. Rubricare invece le violenze di Colonia come una delle tante, tristissime manifestazioni di aggressione contro le donne che infestano la vita delle città europee significa smarrirne la specificità, la novità, il senso stesso della sua dinamica. Significa non capire cosa ha mosso gli aggressori, il fatto che fossero centinaia e centinaia in un abuso di massa del corpo e della libertà delle donne come non si era mai visto. Loro, gli aggressori, possono dire che le donne colpite e umiliate «se la sono cercata» semplicemente perché hanno scelto un modo di vivere inammissibile e peccaminoso. A noi il compito di difenderlo, questo modo di vivere, e di considerare inviolabili le donne, e la loro libertà.

IL FOGLIO - Matteo Matzuzzi: "L'integrazione non è un pranzo di gala"

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Matteo Matzuzzi

Il successo di un modello d’integrazione non lo si giudica da quante bottigliette d’acqua minerale vengono donate ai migranti scesi dai modernissimi treni nelle stazioni di frontiera, intonando l’Inno alla gioia di Beethoven e sventolando bandierine tedesche raccattate chissà dove. Né lo si valuta da quanti ettari di terra sono a disposizione, tra la Baviera e la Renania, per ospitare chi va in Germania per rifarsi una vita. Cinque anni fa, parlando a Potsdam davanti ai giovani cristiano-democratici, la cancelliera Angela Merkel disse che “i tentativi di creare in Germania una società multiculturale sono totalmente falliti”, aggiungendo che “l’idea secondo cui persone provenienti da diverse realtà culturali possano vivere le une vicine alle altre in modo felice non ha funzionato”.

Horst Seehofer, già all’epoca leader della Csu e primo ministro della Baviera, colse subito la palla al balzo per chiedere un freno all’arrivo di migranti arabi e soprattutto turchi. E allora non c’era ancora stata la notte di Colonia, il Capodanno in cui un centinaio di donne hanno denunciato alla polizia molestie o violenze carnali compiute per le strade attorno alla monumentale cattedrale da bande di stranieri, forse – ha reso noto nel pomeriggio di ieri la polizia locale – da una gang di nordafricani con base a Düsseldorf che già in passato avrebbe adottato le stesse tattiche predatorie.

E’ comunque un “disastro annunciato”, ha detto lo storico consigliere di Helmut Kohl, Michael Stürmer, a Repubblica: “Quei giovani sono uomini allo stato naturale, cresciuti in una cultura in cui la donna è animale da gregge”. La situazione – chiosava – “peggiorerà”, visto che “la polizia non può identificarli tutti”. Proprio ieri il governo federale dava i numeri di quello che è stato definito “l’enorme afflusso” registrato nel 2015: sono entrati in Germania 1,1 milioni di richiedenti asilo, ha asserito il ministro dell’Interno, Thomas de Maizière. Trecentomila in più rispetto alle stime agostane, il quadruplo di quanto verificatosi nel 2014. Quattrocentomila i siriani. Merkel non ha mai smentito le frasi di Potsdam sul fallimento del modello multiculturale à la tedesca. Neppure quando, pochi mesi fa, faceva sapere ai partner europei che la grande Germania si sarebbe potuta permettere – in barba ai muri di Viktor Orbán e ai distinguo di polacchi e cancellerie baltiche – di accogliere chiunque in fuga dalle rispettive terre, senza fissare quote. Il problema è che il sistema d’accoglienza e di inserimento dei potenziali “nuovi tedeschi” è lo stesso bocciato cinque anni fa.

Identico, compresi i corsi di lingua da superare, pena il foglio di via. Con più di centomila richieste d’asilo al mese, è difficile fare gli esami a tutti, dopotutto. Gli aedi del multiculturalismo esaltano il ruolo della scuola come fattore d’incontro e di mescolanza, capace di forgiare cittadini del domani non interessati a rivendicare appartenenze patriottiche ed etniche. Religiose sì, ma – dicono sempre i teorici del multiculti – dopo aver studiato sui banchi accanto ad amichetti di altre fedi, le tensioni si allentano. Non è proprio così, ha chiarito l’Economist nel suo ultimo numero. Proprio come nelle banlieue parigine o nei sobborghi autogestiti di Bruxelles dove si parla arabo e si va a fare la spesa in burqa, i bambini rifugiati tendono a isolarsi: “Molti frequentano le scuole vicino ai centri d’accoglienza o nei quartieri abitati in maggioranza da immigrati”. Il risultato più immediato è che non imparano nemmeno la lingua del posto. E con le stime demografiche che prevedono un progressivo svuotamento delle culle autoctone e la crescita a ritmi record dei nati da genitori immigrati, il rischio che la profezia di Stürmer si avveri è alto.

Tra i primi a suonare l’allarme era stato, anni fa, Heinz Buschkowsky, per quasi tre lustri sindaco “rosso” di Neukölln, distretto di Berlino, 325 mila abitanti. Prima di dimettersi, nel febbraio scorso, se l’era presa con “la pigrizia mentale e il divieto di parola sul dibattito relativo all’immigrazione”. Ieri la tv pubblica Zdf si è scusata con i telespettatori per averli informati in ritardo (“un nostro evidente errore di valutazione”); l’ex ministro dell’Interno, Hans-Peter Friedrich, ha parlato di un “cartello del silenzio” all’opera; mentre Chantal Louis, columnist della rivista femminista di Colonia Emma, ha detto che nello specifico “ci sono donne che hanno esitato a denunciare per non dare l’impressione di accusare un’intera categoria”. L’ex sindaco di Neukölln, Buschkowsky, accusava la politica – compresa quella per decenni portata avanti dal suo partito, l’Spd – di essere del tutto “avulsa dalla realtà”. Girava per i vialetti del suo quartiere, indicava all’interlocutore di turno i laghetti e le panchine hi-tech, l’erba ben tagliata, ma subito invitava a non illudersi: “Bande criminali arabe hanno il controllo di intere strade, studenti di quinta elementare non sanno parlare tedesco, ragazze invitate fuori dalle scuole a indossare solo abiti islamici”.

Pochi mesi prima, l’imam locale aveva invocato l’intervento di Allah per distruggere “gli ebrei sionisti”. Un sistema così non regge, aggiungeva. Né si può ritenere che il flusso di richiedenti asilo sia immune da logiche già viste all’opera per i migranti economici. Lo scorso ottobre, un’inchiesta dello Spiegel faceva il punto sul “numero crescente di incidenti nelle strutture d’accoglienza per gli immigrati”, a causa di clash cultural-religiosi: fino al caso del delitto d’onore di una siriana violentata due anni fa in patria e raggiunta poi dai famigliari (rifugiati) per fare “giustizia”. E’ un fallimento che parte da lontano, se è vero che perfino la comunità di immigrati non europei più “antica”, quella turca (5 milioni di residenti), ha fatto temere per la tenuta del sistema: un anno fa, ai tempi dell’ultima guerra di Gaza, centinaia di manifestanti palestinesi e turchi occupavano le strade di Essen al grido di “Hitler! Hitler!”.

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