Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 06/01/2016, a pag. 7, con il titolo "Gli attivisti tacciono, a Riad si va in carcere pure per una parola", l'intervista di Raffaella De Santis alla donna saudita Maysaa Al Amoudi, in carcere per aver osato guidare.
Maysaa Al Amoudi
“NON CONOSCEVO le persone uccise, la loro storia, ma so che ciò che è accaduto non dovrebbe mai accadere». Eppure in Arabia Saudita tutto tace. Domina il silenzio. Maysaa Al Amoudi è una giornalista di 34 anni, finita in carcere un anno fa per aver guidato una macchina al confine tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Ha letto delle 47 esecuzioni, mentre era in Italia. Maysaa è un volto popolare della tv araba, questa è la prima intervista che rilascia da quando è stata liberata. È una donna coraggiosa, luminosa. Si è tolta il velo quando tutte lo portavano, è diventata giornalista anche se alle donne non era consentito, ma stavolta pesa ogni parola. È chiaro che teme conseguenze per i suoi familiari, che sono ancora lì.
Come mai non si registrano reazioni importanti da parte degli attivisti sauditi contro il governo? «Anche una parola in più potrebbe essere di troppo. In carcere c’è ancora il nipote dell’imam sciita ucciso Nimr Al Nimr e per la minoranza sciita la situazione è difficile da gestire. Quello che posso dire è che detesto ogni forma di violenza e che non vorrei mai vedere scorrere tanto sangue».
Nessuno parla per paura di finire in prigione? «Le carceri sono piene di lavoratori stranieri e giornalisti. Dentro ci sono sia sunniti che sciiti, sono trattati tutti allo stesso modo, ma le differenze si vedono nelle aule dei tribunali. Persino i social media sono pieni di insulti razziali contro gli sciiti. Io non sono sciita, ma ho subito due processi dopo essere stata arrestata per aver guidato una macchina, il che è vietato alle donne dalla legge saudita. Il secondo processo al tribunale di Riad prevedeva anche l’imputazione per terrorismo, ma l’avvocato è riuscito ad evitare l’accusa. In realtà avevo solo tentato di andare in soccorso dell’attivista blogger Loujain Alhathoul. Stava guidando dagli Emirati Arabi Uniti verso l’Arabia Saudita ed era bloccata al confine. Mi sono messa al volante e le ho portato cibo e altre cose utili».
Avete entrambe scontato 73 giorni di carcere. Come l’ha cambiata quell’esperienza? «Durante la prigionia ho imparato a meditare. Cercavo di cancellare i ricordi del mondo esterno. Quando sono uscita non ricordavo niente, la mia taglia, il mio profumo, le facce dei miei amici. Un giorno una guardia mi ha permesso di vedere la luna e il cielo, è stato bellissimo. Oggi so che voglio lottare per i diritti umani in generale, non solo per le donne».
Ma la situazione per le donne in Arabia Saudita va migliorando? «Alle recenti elezioni amministrative dove le donne sono state ammesse per la prima volta, molte candidate sono state cancellate dalle liste, tra cui la stessa Loujain Alhathoul e l’attivista Nassima Al Sada, senza dare motivazioni. Non tutte le donne però hanno capito l’importanza del voto. Sono abituate a vivere sotto il controllo di guardiani uomini, si fidano di loro».
A Dubai conduceva un programma tv sui diritti delle donne. Cosa si aspetta dal futuro? «Non voglio tornare in Arabia Saudita. Vorrei vivere in un Paese libero e sicuro, essere una giornalista normale e non una giornalista impaurita. In carcere ci sono tuttora molti giornalisti sconosciuti che non fanno notizia».
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