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La Repubblica Rassegna Stampa
05.01.2016 'Il labirinto del silenzio': la storia di Fritz Bauer, che fece scoprire la Shoah alla Germania, dal 14 gennaio al cinema
Recensione di Natalia Aspesi

Testata: La Repubblica
Data: 05 gennaio 2016
Pagina: 36
Autore: Natalia Aspesi
Titolo: «L'archivio dell'orrore»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 05/01/2016, a pag. 36, con il titolo "L'archivio dell'orrore", la recensione di Natalia Aspesi.

Il commento di Natalia Aspesi, informato ma anche appassionato, è un invito a vedere un film che si annuncia di estremo interesse. Ne riparleremo quando uscirà nelle sale il 14 gennaio.

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Natalia Aspesi

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La locandina                        Fritz Bauer 

SI PUÒ DIMENTICARE l’Olocausto? Non solo i negazionisti, ma una intera nazione, quella responsabile? La Germania lo fece per quasi un ventennio, come se il processo di Norimberga, del 1945-46, con la condanna a morte dei grandi responsabili del nazismo (ma quelli condannati alla detenzione furono graziati negli anni 50), avesse chiuso per sempre quel capitolo mostruoso, cancellandolo come se non fosse mai avvenuto. Quello storico processo poi era in mano agli alleati, ai vincitori, non ai vinti, ai tedeschi, piegati dalla sconfitta, dalla miseria, dalla distruzione. Bisognava ricominciare, riprendersi la vita e il benessere, lasciarsi vincere dall’amnesia... Il processo contro Eichmann con la sua condanna a morte avvenne a Gerusalemme nel 1961, ma solo nel 1963 ci fu un grande processo istruito dalla giustizia tedesca contro i crimini di guerra perpetrati dai tedeschi: fu celebrato a Francoforte, nel 1963, in piena ripresa economica e voglia di divertirsi, costò 5 anni di ricerche, durò 20 mesi, imputati 22 ufficiali SS, 183 udienze, 17 condannati, 6 all’ergastolo. Si riconosceva finalmente che tante brave persone tedesche, tornate alle loro belle famigliole e al loro lavoro, panettieri (era panettiere il secondo direttore del campo, Joseph Bauer), guardiacaccia, medici, avvocati, contadini, erano state spietate SS che avevano torturato, gasato, ucciso milioni di persone, uomini, donne, vecchi, bambini ad Auschwitz- Birkenau, in Polonia, inferno dove avevano prestato servizio 8000 delle 600mila SS.

Il labirinto del silenzio, candidato all’Oscar come film straniero, in sala dal 14 gennaio, è una grande storia indimenticabile, carica di serena passione, tesa nel ritmo ansioso del thriller dove il giustiziere deve muoversi tra mille ostacoli ma li vince tutti. Lo ha girato Giulio Ricciarelli, padre italiano, madre tedesca, cinquantenne al suo primo film, scritto con Elisabeth Bartel; senza una scena, una foto dell’Olocausto; solo qualche straziata parola strappata ai sopravvissuti («voi non ne avete idea, non ne avete idea!»); solo quelle facce qualsiasi di uomini di mezza età, gli ex aguzzini, tornati cittadini esemplari, che, muti, perdono ogni bonomia in un attimo di consapevolezza della loro ferocia dimenticata. Il giovane magistrato Radmann (bello, raffinato, il bravissimo attore tedesco Alexander Fehling) non conosce il passato recente del suo paese.

È il 1958, e lui come quelli della sua generazione non ha mai sentito nominare Auschwitz. È un ligio addetto alle infrazioni stradali fino a quando viene a sapere che un gioviale insegnante che scappellotta gli scolari è stato riconosciuto da un sopravvissuto come crudele carceriere ad Auschwitz: per legge non potrebbe insegnare, anche se i reati di guerra sono ormai cancellati, tranne l’omicidio. Al palazzo di giustizia la cosa non interessa (un collega gli dice «mi creda, nei campi si mangiava meglio che a casa, ma non lo dica a mia moglie ») tranne che al procuratore generale, Fritz Bauer, il meraviglioso, dolente Gert Voss, che gli consente di indagare ma lo avverte: «Non penserà che dopo la morte di Hitler i nazisti siano scomparsi? Sono dappertutto, ad ogni livello, hanno dimenticato e fatto dimenticare ». Un altro magistrato che lo prende in giro chiamandolo sceriffo gli grida «Non vorrà che tutti i figli chiedano al padre se era nazista?». Sì, Radmann lo vuole, «voglio la fine della menzogna e del silenzio». Anche l’addetto militare americano all’immenso archivio sul nazismo lo scoraggia. «Voi tedeschi eravate tutti nazisti, lasci perdere, adesso il nemico è il comunismo». Che è lì oltre un muro, nella stessa Germania Est.

Una storia d’amore, un amico giornalista che per primo gli ha parlato di quell’insegnante nazista che non si può sospendere perché il personale è scarso, un collega che lo segue, una segretaria che sta male quando sente le rivelazioni dei testimoni, la foto di due gemelline ridenti che “un dottore che sembrava un angelo” prese in custodia ad Auschwitz ed era Joseph Mengele, torturandole e uccidendole con i suoi esperimenti folli. Per Radmann Mengele diventa un’ossessione, sa che va e viene dal Sudamerica, indisturbato, sotto falso nome. Ma è troppo protetto ovunque, nessuno vuole che venga preso, morirà libero in Brasile, nel 1979.

Alla fine il processo si farà, e gli adulti usciranno dal labirinto dell’oblio, i giovani cominceranno a conoscere un passato da non dimenticare mai. Il processo di Francoforte ha ispirato nel 1965 il dramma di Peter Weiss L’istruttoria e nello stesso anno a Luigi Nono Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. Quello che racconta il film di Ricciarelli sembra impossibile, ben pochi non tedeschi ne avevano idea: eppure è la verità, la storia di un grande e coraggioso procuratore generale di origine ebrea, Fritz Bauer, cui il film è dedicato («appena esco dal mio ufficio mi sento in esilio»), di tre procuratori riuniti nella figura di Radmann. Un processo con pochi imputati rispetto alle migliaia di colpevoli, ma fondamentale per la Germania che ormai da tempo ha accettato le sue responsabilità.

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