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La Stampa Rassegna Stampa
05.01.2016 Sunniti contro sciiti: la crisi del Golfo
Servizi di Giordano Stabile, Francesca Paci, Francesco Semprini

Testata: La Stampa
Data: 05 gennaio 2016
Pagina: 8
Autore: Giordano Stabile - Francesca Paci - Francesco Semprini
Titolo: «Le monarchie sunnite si schierano con l'Arabia - Ma all'interno il regime saudita vacilla, i giovani sognano libertà e feste - 'A Riad vogliono la guerra dei cent'anni'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/01/2016, a pag. 8-9, con i titoli "Le monarchie sunnite si schierano con l'Arabia", "Ma all'interno il regime saudita vacilla, i giovani sognano libertà e feste", "A Riad vogliono la guerra dei cent'anni", i servizi di Giordano Stabile, Francesca Paci, Francesco Semprini.

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Sunniti (in verde chiaro) e sciiti (in scuro)

Ecco gli articoli:

Giordano Stabile: "Le monarchie sunnite si schierano con l'Arabia"

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Giordano Stabile

Le monarchie sunnite del Golfo fanno quadrato attorno all’Arabia Saudita e, anche se con misure differenti, la seguono nello scontro frontale con il nemico comune, la superpotenza regionale sciita, l’Iran. Dopo l’annuncio di Riad, che dava ai diplomatici iraniani «48 ore» per lasciare il Paese, nella tarda mattinata di ieri è stato il regno del Bahrein a seguire con più convinzione la linea dura, con la rottura immediata delle relazioni diplomatiche. E il piccolo Stato in mezzo al Golfo persico, monarchia sunnita che governa una popolazione a maggioranza sciita, è il nuovo punto caldo nel scontro brutale fra le due correnti dell’Islam.

Più prudenti gli Emirati Arabi Uniti, che hanno richiamato l’ambasciatore a Teheran e ridotto lo status della propria rappresentanza diplomatica in Iran. Il Qatar, ieri pomeriggio, non aveva ancora preso una decisione, mentre è improbabile che l’Oman, tradizionalmente equidistante, segua gli alleati del Consiglio di cooperazione del Golfo, la struttura regionale che ruota attorno all’Arabia saudita.

Sostegno netto a Riad è arrivato invece dal più lontano Sudan che in passato è stato alleato di Teheran. Khartoum ha espulso l’ambasciatore iraniano e soprattutto sta dando un grosso contributo in uomini e mezzi nella guerra che l’alleanza sunnita conduce nello Yemen contro i ribelli sciiti Houti. Riad, in cambio, fornisce aiuti finanziari. Dall’Egitto, la massima autorità religiosa, il teologo sunnita Ahmed al-Tayyeb, dell’Università al-Azhar ha affermato che «non bisogna interferire con Riad» e dal Pakistan il consiglio islamico ha dichiarato che le scelte saudite «aiutano l’Islam e i musulmani».

In più la Lega Araba convocherà domenica una riunione di emergenza e il suo numero due, Ahmed Ben Helli, ha affermato che l’obiettivo è «condannare le interferenze iraniane negli affari arabi».

Gli schieramenti ricalcano quelli della guerra per procura in Yemen, ma questa volta Riad e Teheran rischiano di scontrarsi in Bahrein, dove ieri mattina violente manifestazioni hanno squassato i sobborghi della capitale Manana, come Sitra, con 400 manifestanti che si sono scontrati con la polizia, e nelle cittadine di Duraz, e Bilad al Qadim. Il ministero degli Interni ha accusato Teheran di «fomentare» i disordini e ha annunciato misure contro chiunque «ridicolizzi il sistema giudiziario saudita» in quanto il regno ha tutto il diritto di «mantenere la propria sicurezza con i mezzi ritenuti adeguati».
Le preoccupazioni in Occidente sono altissime, soprattutto negli Stati Uniti, che hanno nel Bahrein la base più importante della loro Quinta Flotta. E all’Onu, che ha mandato l’inviato speciale per la Siria Staffan de Mistura in missione riservata, prima a Riad e poi a Teheran.

La durezza del Bahrein si spiega nella storia recente, e nella composizione sociale e religiosa del Paese. Il re del Bahrein Hamad bin Isa al Khalifa ha condotto riforme in senso più liberale ma è rimasto scottato dalla rivolta sciita del febbraio-marzo 2011, sull’onda delle primavere arabe. Rivolta del 2011 che fece ufficialmente tre morti e centinaia di feriti che il re riuscì a reprimere solo con l’aiuto di un corpo di spedizione saudita di 5 mila uomini e decine di blindati.

Da allora la monarchia si ritiene bersaglio di un’opera di destabilizzazione sistematica da parte dell’Iran. Sia Riad sia Manama hanno sottolineato che l’esecuzione del religioso sciita Al Nirm è perfettamente «in linea con la sharia», la legge coranica.
E storicamente nel mondo islamico, le correnti sciite hanno avuto caratteristiche «rivoluzionarie». In Bahrein lo sciismo è incarnato dal gruppo ismailita millenarista dei Carmati (Al Qaramitan), forte soprattutto nell’isola di Sitra dell’arcipelago. Il timore dei sovrani sunniti, fin dal tempo del califfato Omayyade, è di essere rovesciati da una «sedizione sciita». E il Bahrein, lo «Stato fra due mari» in arabo, che vede l’Iran appena oltre il Golfo e conta il 65% di cittadini sciiti, sente la minaccia più concretamente dei suoi vicini ed è in totale sintonia con la leadership saudita.

Riad, in più, si sente offesa dalle accuse da parte dell’Iran di essere «sponsor dell’Isis» e degli altri gruppi terroristici sunniti. I media sauditi continuano a sottolineare che fra i 47 «terroristi» giustiziati sabato c’erano «esponenti di spicco di Al Qaeda» e sui siti delle sue ambasciate ha messo online l’elenco dei crimini di cui erano accusati i condannati a morte. Fasail J Abbas, editorialista di punata di Al Arabiya, ha accusato ieri esplicitamente Teheran di essere «il vero porto sicuro» degli estremisti sunniti che destabilizzano il Medio Oriente, compresi quelli qaedisti.

Francesca Paci: "Ma all'interno il regime saudita vacilla, i giovani sognano libertà e feste"

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Francesca Paci

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Arabia Saudita vs Iran

«Non credevamo che avrebbero ucciso Al Nimr, pensavamo alle solite minacce del governo. Invece eccoci. Forse la paura di perdere l’alleato americano li rende più sanguinari. Mostrano i muscoli e tessono reti alternative di alleanze regionali a partire da Ankara, fino a poco fa detestata perché associata ai Fratelli Musulmani. Anche con il Qatar le cose vanno meglio, è la politica del nuovo re Salman e di suo figlio Mohammed, il vero regnante su cui noi attivisti ironizziamo amari ammiccando alla barba stile Fratelli Musulmani». La trentottenne che chiameremo Zahra è una finestra sull’Arabia Saudita. Incarcerata tre mesi per un blog in favore dell’emancipazione femminile e interdetta un anno dal viaggiare, ha lasciato la cittadina natia vicino Gedda e da poche settimane, incassato il rifiuto d’ingresso a Dubai, abita in Germania. Nessun dietrofront, dice. Ma la famiglia è ancora lì e lei, per proteggerla, ha firmato di non raccontare. Non con il suo vero nome, almeno.

Tutto inizia nel 2011 quando anche i giovani sauditi fiutano il vento ribelle: «Ho studiato medicina perchè nel 2000 le donne non potevano laurearsi in giornalismo ma ho sempre seguito la politica. Da una decina d’anni le nuove generazioni della classe media saudita sono in movimento: ragazzi e ragazze iniziano a parlare nei caffè, ci troviamo sempre più spesso in casa per aggirare il divieto di mescolarci, sopperiamo l’assenza di cinema guardando insieme i film scaricati dal web, organizziamo feste in cui circolano alcolici. Nella zona di Gedda s’incontrano pioniere senza velo e con l’abaya chiaro. Credo sia un po’ come in Iran. Poi ecco il 2011, ci infervorammo. Ma siamo troppo spaventati e individualisti per fare rete: Khaled al-Johani convocò il giorno della rabbia e si ritrovò solo, fu accusato di terrorismo e sparì. Noi donne ci mobilitammo allora per poter guidare, pareva la richiesta meno destabilizzante».

Zahra scrive, si attiva sui social, guadagna influenza e paga: «Era la fine del 2014 Quando vidi la donna velata di nero da capo a piedi accanto al poliziotto capii: sono le ultra-religiose a lavorare in prigione. Mi ritrovai in cella con 30 detenute per reati comuni, molte scontavano l’adulterio e avevano lì i figli nati fuori dal matrimonio. Per le donne sotto i 30 anni c’è il carcere minorile, a me toccò quello duro. C’era la luce 24 ore al giorno, potevamo guardare le soap opera o leggere il Corano: la narrativa internazionale e i libri di scienza sono proibiti. Per due settimane ebbi solo acqua e due datteri al giorno, poi del cibo con molto olio, stavo male e non mi picchiarono. Mi davano medicine che credo fossero sedativi e dell’erba chiamata “kafoor”, somministrata per ridurre il desiderio sessuale. Se non avessi evitato l’accusa di terrorismo sarei ancora dentro».

La rivoluzione saudita non ha chance, ammette. Esploderà quando la gente sarà in bolletta: «Si dice che le esecuzioni di domenica servissero a far dimenticare il taglio dei sussidi e a serrare il paese dietro l’orgoglio anti-Iran. Non è vero che i sauditi siano tutti ricchi, la vita è sempre più cara, la borghesia s’impoverisce, con lo stipendio base di 8000 riyal (1900 euro) si fatica. Noi attivisti lottiamo ma non facciamo squadra, ognuno per sé e le donne da sole. Inoltre, quasi avessimo assorbito il doppio standard dei Saud, non agiamo come parliamo: se sto a una festa dove si beve alcol o ci sono omosessuali di sicuro non posto la foto sui social, così come ora che ho un’amica israeliana non farei mai un selfie con lei. Il disagio economico però sì, a quello siamo sensibili. Può darsi che l’offensiva governativa tradisca la paura del caos».

Francesco Semprini: "A Riad vogliono la guerra dei cent'anni"

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Francesco Semprini

L’esecuzione dell’imam sciita Nimr al Nimr è destinata a inasprire la guerra per procura tra il blocco sunnita (in particolare wahabita e salafita) e quello sciita. Un conflitto che rischia di andare ben oltre i confini regionali per trasformarsi in conflitto settario dalla durata indefinibile. Basta scorrere la rete di appoggi e alleati di Teheran - per cogliere l’ampiezza del terreno di scontro. Accanto all’Iran infatti ci sono la Siria di Bashar al-Assad, Baghdad, gli Hezbollah impegnati in prima linea nei conflitti regionali, i ribelli Houthi in Yemen, le province orientali della stessa Arabia dove si concentra praticamente la totalità degli sciiti sauditi. Sono esponenti di spicco del «Partito di Dio» libanese a delineare la linea e a tracciare lo scenario di contrapposizione a Riad.

Lo sceicco Ali Dagmoush è il responsabile politico delle relazioni esterne di Hezbollah. «Oggi, i gruppi armati takfiri - questo il nome utilizzato per definire i terroristi salafiti - vogliono balcanizzare il mondo arabo, squartare la Siria, cooptare l’Iraq, e innescare guerre etniche e religiose, così da lasciare taluni Paesi in posizione dominante, Arabia Saudita in primis». Il progetto, di cui definisce gli Stati Uniti «complici», trova però l’opposizione di forze come Hezbollah, Iran e ora Russia. «Volevano indebolire il blocco sciita e l’Isis non sarebbe rimasta in Siria ma sarebbe penetrata in Libano. Cosa potevamo fare? Lasciarli passare? Li abbiamo preceduti e siamo andati a fermare i salafiti in Siria. Questo è ciò che continueremo a fare sino a quando l’Arabia e i suoi alleati continueranno a finanziarli e armarli».

Si preparano a una lotta senza quartiere i serragli della resistenza, l’intelligence di Hezbollah. Spiega il responsabile dell’ufficio di Beirut, Abu Zalah: «Il nostro compito ora sarà soprattutto combattere l’esportazione del terrorismo e della guerra per procura da parte dei takfiri foraggiati dall’Arabia». Di cui illustra l’agenda. «Nella regione il piano è a lungo termine: vogliono far cadere Damasco, far implodere il Libano, dividere l’Iraq e isolare l’Iran», spiega lo 007 di Hezbollah.

I registi di questa manovra disgregatrice sono - sostiene - l’Arabia Saudita, assieme a Qatar e Turchia. Come sono loro a finanziare e sostenere le cosiddette «agenzie», ovvero uffici che aiutano i terroristi sunniti ad arrivare in Europa per compiere attentati. «Ce ne sono anche qui in Libano, ma soprattutto in Turchia, chiedono somme alte, in cambio trovano garanzie bancarie e visti regolari», prosegue Zalah. Non ha dubbi nel sostenere che l’obiettivo sia quello di allargare il conflitto e che anche nel caso in cui a un certo punto lo Stato islamico dovesse essere sconfitto, la guerra continuerà. «Se cade l’Isis è perché quelli che lo hanno creato vogliono distruggerlo, ma ci saranno formazioni destinate a diventare più letali, e la guerra continuerà per dividere sunniti e sciiti, la grande guerra settaria, calda dentro e fredda fuori, la nuova guerra dei cento anni».

Amin Hoteit, detto il «Generale dei generali» combatte i terroristi sunniti sul campo. Hassan Nasrallah, il leader degli Hezbollah, lo definisce l’«infallibile». È consapevole che la guerra sarà lunga ma il suo esercito non la teme: «La forza di Hezbollah è nei suoi corpi di élite, combattenti ultrapreparati, sono loro che operano in Siria. Hezbollah non combatte come gli eserciti tradizionali, sia dal punto di vista numerico, sia per tecniche e tattiche, non ha linee di combattimento, non esiste l’impatto, ma operazioni chirurgiche».
Le azioni insomma devono essere fatte velocemente per poi ripiegare in copertura e non avere vittime: «Infiltrazioni, blitz, raid terra aria, tutte azioni che causano grandi sofferenze al nemico». Il generale dice che questa loro forza riesce a neutralizzare e sconfiggere gli estremisti sunniti ogni dove, ma per farli sparire occorre legare le mani a chi gli fornisce armi e denaro.

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