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Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.12.2015 Essere donne: schiave nello Stato Islamico - Combattenti fra i curdi
Servizi di Marta Serafini, Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 dicembre 2015
Pagina: 15
Autore: Marta Serafini-Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Una fatwa sugli stupri, così lo Stato Islamico disciplina la schiavitù-Le soldatesse curde 'il Califfo ha paura di noi'»

Essere donne nello Stato Islamico, schiave e poi eliminate. Fra i curdi, invece..
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/12/2015,  a pag. 15, due servizi:

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Marta Serafini                 

Marta Serafini: " Una fatwa sugli stupri, così lo Stato Islamico disciplina la schiavitù"

 «Alcuni fratelli hanno violato le regole nel trattare le schiave. Queste violazioni non sono permesse dalla sharia, perché queste leggi non sono aggiornate ai nostri tempi. Ci sono indicazioni in materia?». Inizia con una domanda la fatwa numero 64 dello Stato Islamico, che porta la data del 29 gennaio 2015. A recuperare il documento — che la Reuters ha reso pubblico ieri — sono state le forze speciali americane e britanniche in un raid condotto in maggio nel nord della Siria. Qui, dopo che è stato ucciso il tesoriere del-l'Isis Abu Sayyaf, è stata catturata anche la moglie di Abu Sayyaf, il cui compito era proprio quello di gestire le «sabaya», le schiave. Ed è nel rifugio della coppia (lo stesso dove probabilmente è stata tenuta prigioniera la cooperante americana Kayla Mueller) che, tra più di un terabyte di materiale informatico, cd, dvd e chiavette usb, è venuta alla luce la fatwa numero 64. Nel testo, diviso in 15 punti, si legge: «Non è possibile per il padrone di una schiava avere rapporti sessuali con lei fino a che non ha avuto il ciclo ed è diventata pulita». Al secondo e al terzo punto viene spiegato come non sia permesso «far abortire una schiava che rimanga incinta e avere rapporti Legittimare l'orrore La ricercatrice Usa: «È un tentativo aberrante di istituzionalizzare l'orrore» con lei fino a quando non abbia dato alla luce il bambino». E ancora: «Se il padrone possiede sia la figlia che la madre non può avere rapporti con entrambe ma solo con una di esse». Stesso discorso se le schiave sono sorelle. Inoltre padre e figlio non possono violentare la stessa donna. Infine la fatwa 64 informa che non è concesso avere «rapporti anali con le schiave» e «che bisogna essere compassionevoli con esse». Il documento conferma quanto emerso negli scorsi mesi. Attraverso il sistematico abuso delle donne e il permesso dato ai miliziani di possedere delle schiave, i leader di Isis stanno ottenendo un duplice scopo: terrorizzare le popolazioni dei territori conquistati e trarre profitti dalla vendita delle sabaya. Sempre la Reuters nei giorni scorsi ha reso noto come lo Stato Islamico abbia dato il permesso di espiantare gli organi degli apostati «per salvare la vita dei musulmani» e abbia creato un vero e proprio dipartimento per il bottino di guerra nel quale rientrano anche le donne. E se orrore, tortura e morte sono fonte di profitto nel Califfato, a emergere, nero su bianco, è anche il tentativo del gruppo terroristico di creare delle leggi di stampo religioso. Negli ultimi due anni le organizzazioni non governative come Human Rights Watch hanno raccolto le testimonianze di centinaia di donne, per lo più appartenenti alla minoranza yazida. Violentate e costrette a ogni tipo di pratica sessuale, molte di esse hanno raccontato come i loro carnefici dopo averle stuprate si giustificassero con argomenti di tipo religioso. Un'aberrazione che ha portato analisti e osservatori a parlare di «teologia dello stupro». Ovviamente tutti questi precetti non hanno nulla a che fare con la religione. «Nel corso dei secoli all'interno dell'Islam si è agito per abolire la schiavitù», ha spiegato alla Reuters Abdel Fattah Alawari, docente di teologia islamica all'università di Al Azhar, una delle più antiche del Medio Oriente. Probabilmente il tentativo da parte dei vertici di Isis di dare *** una giustificazione religiosa e un «limite» ai comportamenti brutali dei miliziani arriva dopo le critiche dagli ambienti musulmani più radicali. Non sono pochi infatti i predicatori salafiti che hanno espresso dissenso di fronte ai filmati che circolano nel «deep web» (la rete nascosta di cui Isis si serve per fare propaganda e per comunicare) e che mostrano stupri di gruppo perpetrati su bambine e bambini. «E evidente che a Isis non interessa assolutamente se un uomo violenta una donna con il ciclo o meno o se abusa allo stesso tempo della madre e della figlia», sottolinea Audrey Alexander, ricercatrice del Program on Extremism della George Washington Uni-versity. Piuttosto a spaventare i leader del Califfato potrebbe essere «d'instabilità dei nuclei familiari» legata alla presenza non controllata delle schiave o la diffusione delle malattie veneree e dell'Hiv che il passaggio continuo delle donne tra gli uomini rende più frequente. Niente di più lontano dunque dall'umana pietà. «E piuttosto un tentativo, aberrante, di istituzionalizzare l'orrore».

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Lorenzo Cremonesi               Combattenti curde

Lorenzo Cremonesi: " Le soldatesse curde 'il Califfo ha paura di noi' "

Non esiste sfera privata, se non quella della condivisione tra compagne delle poche cose che ci stanno in uno zaino: un pettine, il sapone , lo shampoo, un ricambio di
vestiti . «Abbiamo scelto di essere soldatesse. Nessuna differenza con i commilitoni uomini. Facciamo i turni di guardia come loro, andiamo in pattuglia di notte come loro, rischiamo allo stesso modo. Siamo donne combat ent i» , raccontano le volontarie dello Jp j (Unità femminili di Autodifesa), quasi la metà della forza combattente dei curdi arroccati nella loro enclave indipendente nelle zone nordorientali della Siria. Sono circa
10.000 donne: «Il nostro numero è cresciuto dopo il l’estate 2014, quando vennero alla luce i crimini dell’Isis contro le donne yazide , violentate, ridotte a schiave sessuali, usate e uccise». Le abbiamo incontrate ovunque. Anche in prim a linea nella zona a nord di Raqqa, capitale del Califfato. Nella cittadina di Aaloua, deserta e sconvolta dalla guerra, vivono in gruppi di 5-6 tra le casupole utilizzate come basi. Sui muri i ritratti di compagne e compagni morti. Spicca quelllo di Arin Mirkan, la ragazza poco più che ventenne assurta a leggenda quando durante la battaglia per Kobane decise di farsi saltare in aria pur di non venire catturata. «Arin aveva finito i proiettili. Gli uomini di Isis l’avevano circondata. E fece la scelta giusta: altrimenti sarebbe stata violentata, schiavizzata e alla fine uccisa nel peggiore dei modi. Noi nell e sue condizioni faremmo come lei. Non avremmo alternative», spiegano due ventenni, Ani Zerin e Ani Sihaian. «Le donne come noi che decidono di indossare la divisa non possono essere sposate, né avere figli .
Proibiti anche gli amori con i compagni (chi viene beccato è processato ed espulso) . Ma da quando siamo soldatesse non abbiamo sentito di alcun caso del genere . Non
possiamo perché perderemmo la concentrazione necessaria a combattere».
Amme tono che vogliono anche vendicare le vittime femminili dei jihadisti. Con un’arma in più. «I nostri nemici sono convinti che se verranno uccisi da una donna non avranno la dignità di martiri meritevoli il paradiso. Dunque quando ci vedono scappano, ci evitano. Una buona ragione per noi di stare al fronte». La sera intensificano le guardie. Con il buio aumentano i tentativi di attacchi da parte del nemico nascosto una decina di km più a sud. Il villaggio senza energia elettrica è avvolto dall’oscurità. Le donne lubrificano i
fucili e ci ordinano di tornare alle retrovie. Le strade di collegamento possono essere minate.

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