Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/12/2015, a pag. 17, con il titolo "Kobane", il reportage di Lorenzo Cremonesi.
Lorenzo Cremonesi
Soldatesse peshmerga curde
KOBANE (Siria) «Il miele in quindici mesi è quadruplicato di prezzo. Tanto che sono stato costretto a cambiare le mie ricette. Meno miele e più zucchero o surrogati». Partiamo da un argomento dolce per raccontare una storia amara. La riassume con l’immediatezza dei semplici Jalal Abdi, pasticcere nel centro di Kobane: «Una volta le mie specialità erano i dolci damasceni ricchi anche di uvette, olio d’oliva, farina bianca ben raffinata. Ma ormai sono prodotti introvabili. Siamo sotto embargo. Il confine turco a trecento metri in linea d’aria è sempre stato la nostra porta commerciale. Da due mesi però resta serrato, i soldati turchi sparano a chi cerca di valicarlo. E adesso persino dalla parte curda irachena il governo Barzani ci crea problemi. Così sforno solo biscotti semplici di farina grezza e il tradizionale Knafeh con formaggio di capra prodotto nelle nostre campagne. Siamo all’autarchia per sopravvivere. Ma con l’autarchia non si costruiscono case».
Kobane, città martire devastata dalle battaglie con l’Isis dell’autunno 2014, il simbolo della resistenza curda alla barbarie, resta una minuscola enclave assediata. Una piccola comunità abbagliata dalla breve parentesi di notorietà garantita dai bombardamenti ripresi in diretta dai grandi media, salvata dall’intervento aereo americano e poi illusa dalle promesse di aiuto giunte da tutto il mondo e adesso delusa dai silenzi internazionali, dal deserto di organizzazioni non governative, dalla solitudine in cui è ricaduta. A sud-ovest la morsa dei jihadisti, a nord quella ancora più ferrea del governo turco che considera i guerriglieri curdi siriani più pericolosi dei peggiori tagliagole del Califfato, e a est l’atteggiamento di ambigua ostilità delle province autonome del Kurdistan iracheno. Ci siamo arrivati convinti di incontrare un fervore di volontari internazionali, ma abbiamo trovato un mondo funzionante al rallentatore, fortemente ideologizzato dal socialismo etnico curdocentrico, oltre a un mucchio di civili tornati alle macerie delle loro case e pronti a ricostruirle da soli pur di non peregrinare da profughi.
«Nostri maggiori problemi al momento sono i blocchi imposti dai turchi e dal governo di Erbil. Tutti i progetti di ricostruzione della città dipendono dal passaggio delle merci, soprattutto cibo, ma anche cemento, ferro e in generale materiale edile. Stiamo premendo affinché l’amministrazione curda irachena sdogani oltre 25 tra ruspe, bulldozer e macchine pesanti per la movimentazione del terreno bloccate a Dohuq. Sappiamo che la questione è politica. Erbil dipende da Ankara per tutto e non intende inimicarsi il governo Erdogan. Ma così ci soffocano», sostiene il sindaco 33enne Ibrahim Haj Khalil. Le rovine dominano sulla città. Tolte le vecchie vie del centro e le periferie che si allungano verso una lunga serie di villaggi curdi a est, il resto della zona urbana è un susseguirsi di quartieri rasi al suolo, macerie pericolanti, case inabitabili e strade già pulite dai rottami ma svuotate di vita e identità. Erano circa 100.000 gli abitanti prima del settembre 2014, ridotti a 5.000 al momento della dichiarazione della liberazione dall’Isis a fine gennaio di quest’anno, oggi sono saliti a circa 70.000, ma la grande maggioranza vive accampata in luoghi di fortuna, senza acqua ed elettricità.
Secondo la 29enne Hawzhin Azeel, da due mesi presidente del Team della Ricostruzione finanziato soprattutto dalle comunità della diaspora curda, quasi l’80 per cento delle abitazioni è danneggiato, il 48 per cento in modo irreparabile, o rase al suolo. Oltre alla devastazione del 70 per cento della rete elettrica, stradale, fognaria e idrica. «Ci siamo prefissi di costruire 8.000 edifici al più presto. I primi appartamenti liberi andranno alle famiglie dei circa mille combattenti curdi, uomini e donne, morti nella difesa della città. Intanto funzionano già 7 delle 15 scuole municipali e abbiamo riparato l’ospedale», specifica Hawzhin. La città è stata divisa in 14 quartieri, ognuno con un proprio comitato locale, che ha soprattutto il compito di indirizzare le autobotti municipali a chi è privo di cisterne in casa e di far funzionare i pur vecchi e fatiscenti generatori pubblici. Uno sforzo particolare è costato l’allestimento del «Cimitero dei Martiri» appena fuori città. Sono centinaia e centinaia di tombe fresche, contenenti in grande maggioranza ragazzi e ragazze tra i 18 e 25 anni morti combattendo l’Isis.
Sul muro di cinta troneggia la foto di Arin Mirkan, una combattente delle unità femminili che nell’ottobre 2014 si fece saltare in aria con le sue bombe a mano pur di non essere catturata e assurta a figura leggendaria. Lo spazio libero è ancora tanto. C’è però da temere che non lo sarà per molto. L’altro giorno cinque tumuli freschi stavano a indicare le vittime degli ultimi scontri in una zona presso Tarablos, solo 30 chilometri più a nord. Eppure, a Kobane c’è anche chi spera. Nonostante la povertà, la disoccupazione, risulta in crescita netta il numero dei matrimoni. «Non ho mai affittato tanti vestiti da sposa come di questi ultimi tempi. Mediamente otto al giorno. Due anni fa non arrivavo a quattro. La vita continua», dice allegro il 30enne Mohammad Muslim, che ha persino aperto una seconda bottega non lontano dal pasticcere. E a pochi metri da lui un gruppo di giovani ha inaugurato da poco un bar-ristorante ora tutto decorato con alberi di Natale. «Non sarà sempre così magra — sostengono —. A un certo punto, speriamo presto, la gente tornerà a divertirsi».
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