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Corriere della Sera Rassegna Stampa
08.12.2015 Francia: vincono gli eredi di Vichy
Analisi di Aldo Cazzullo, Bernard-Henri Lévy

Testata: Corriere della Sera
Data: 08 dicembre 2015
Pagina: 1
Autore: Aldo Cazzullo - Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Gli elettori affamati di identità - I reali pericoli di una destra che divide la Francia»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/12/2015, a pag. 1-35, con il titolo "Gli elettori affamati di identità", l'editoriale di Aldo Cazzullo; a pag. 35, con il titolo "I reali pericoli di una destra che divide la Francia", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

Ecco gli articoli:


Front National (blu); Repubblicani (azzurro); Socialisti (rosso)

Aldo Cazzullo: "Gli elettori affamati di identità"

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Aldo Cazzullo

Il risultato è clamoroso, entusiasma i nazionalisti non solo francesi, spaventa gli europeisti; però bisognerà pur dire che con questi dati Marine Le Pen non diventerà presidente della Francia. Se domenica si fosse votato per l’Eliseo, il favorito naturale uscirebbe dalle file della destra repubblicana, il cui leader oggi è il vituperato Nicolas Sarkozy e potrebbe essere domani il pupillo di Chirac, l’eterno Alain Juppé. E se Hollande fosse il candidato unico della sinistra — una chance oggi remota, ma possibile in uno scenario di drammatizzazione — rientrerebbe pure lui in gioco.

Alle Regionali il Front National ha confermato non soltanto di essere il rifugio più credibile dalla paura del terrorismo, dell’immigrazione, del mondo globale. Ha dimostrato di saper leggere meglio dei partiti tradizionali la crisi delle classi popolari europee, e in particolare della coscienza nazionale francese: in cuor suo mai rassegnata del tutto al tramonto della grandeur evocata domenica da Marine Le Pen, che per una notte ha parlato da gollista. Un Paese che in mezzo secolo ha perso un impero coloniale, la centralità culturale, una buona parte della propria sovranità, una quota del proprio benessere, e ora si sente indifeso di fronte a una banda di terroristi, ha visto nella famiglia Le Pen l’ultimo baluardo di quell’egemonia o almeno di quell’identità francese, cancellata dalla storia prima che dagli errori del vecchio establishment.

Oggi il Front National è uscito dall’angolo e occupa il centro della scena, detta l’agenda politica, impone i temi e le parole della discussione pubblica. Tuttavia non è inutile ricordare che i tre migliori risultati sono stati raggiunti dalla nipote del fondatore Jean-Marie, da sua figlia e dal compagno della figlia. E neppure l’irresistibile fascino che promana da un vincitore può far dimenticare che il programma del Front è lastricato di promesse fraudolente, che il ritorno alla pensione a 60 anni è un inganno, e nazionalizzare le imprese è arduo in un mercato globale di cui la Francia fa parte e che nessun muro lepenista potrà frantumare. Per Marion, Marine e Louis Aliot votano i giovani, ma la Francia dell’inverno 2015 è quella nostalgica, spaventata, rattrappita, che a ogni elezione cambia maggioranza senza che nulla cambi, che si agita ma si avvita su se stessa, che si muove ma va sempre da dove è venuta. In gioco è la sopravvivenza stessa dell’Europa, che i Le Pen intendono dichiaratamente distruggere: un risultato certo non sgradito agli stessi fondamentalisti islamici che vorrebbero combattere.

Di fronte a una sfida epocale, gli Hollande e i Sarkozy appaiono ben poca cosa. La loro salvezza è il sistema politico ed elettorale; che non rappresenta soltanto un’alchimia, ma la garanzia che il capo dello Stato debba conquistare al secondo turno il 51% dei voti. È un sistema costruito per un bipolarismo superato dai fatti, che quindi produce una stortura e un’ingiustizia: il Front National, primo partito, ha appena due deputati all’Assemblea nazionale. Ma è un sistema che semplifica, perché prevede un solo vincitore. E alle presidenziali, se i dati sono questi, il vincitore non si chiamerà Le Pen. La desistenza unilaterale decisa dai socialisti probabilmente non basterà domenica prossima a impedire l’elezione di Marine a Lille e di Marion a Marsiglia.

Ma nel 2017 la partita sarà diversa. Non voterà solo la metà dei francesi, come stavolta. Marine Le Pen sarà al secondo turno; ma potrebbe essere battuta da Hollande, sia pure a fatica, e senza troppi problemi da un candidato della destra repubblicana. A maggior ragione se alle primarie Sarkozy, oggi padrone del partito ma indebolito anche dai guai giudiziari, dovesse essere sconfitto da Juppé. Questo scenario non significa certo l’uscita di scena del Front National. Né esclude sorprese anche drammatiche. La Francia è entrata non in una nuova guerra, destinata prima o poi a concludersi; è entrata in una nuova epoca, di cui non vedremo la fine. Marine Le Pen non si batte con la demonizzazione o gli accordi sottobanco. Ma la si può battere. Per il bene dell’Europa, e anche della Francia.

Bernard-Henri Lévy: "I reali pericoli di una destra che divide la Francia"

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Bernard-Henri Lévy

La Francia che aspira al peggio ha vinto la prima manche . Domenica prossima non deve vincere la seconda. Un partito esecrabile diretto da una cricca nepotista, ricco di pregiudicati e di nostalgici dello spirito fazioso dovrebbe forse assoggettare parecchie regioni del nostro Paese? Fra qualche giorno, una parte del territorio dovrebbe forse appartenere ai discendenti di Vichy, ai nostalgici dell’Algeria francese e dell’Oas, ai nemici di sempre della Repubblica e della democrazia? Dovremmo vivere al fianco di questa pestilenza, respirare giorno dopo giorno l’irrespirabile? Accettare come una fatalità la volgarità soddisfatta e ignara che renderebbe il nostro Paese oggetto di scherno e di pietà da parte dell’Europa? E rassegnarci alla rivincita postuma di Maurras, di Brasillach, di Pétain, degli uomini che hanno voluto uccidere il generale de Gaulle, di quell’eterno partito costituito da chi odia la Francia e continua a volerla sempre più piccola, meno sfolgorante, meno gloriosa? E accetteremmo, senza tentare nulla, che una, due, forse tre o quattro delle regioni più emblematiche del genio francese siano presiedute da donne e uomini che, ancora oggi, ogni volta che la loro patria è impegnata in un conflitto, ogni volta che invia piloti o forze speciali a rischiare la vita su teatri d’azione esterni, si schiera sempre, come per caso, con il nemico: ieri Gheddafi o i distruttori del Mali; oggi Bashar al Assad; domani, Dio non voglia, Putin e le sue provocazioni?

No, troppo grande sarebbe la vergogna, la disgrazia, il disordine. Siamo ancora in tempo, oggi, se appena l’insorgere delle coscienze avrà la meglio sui piccoli calcoli, per arginare la marea crescente. Qualche settimana fa, davanti a un’altra forma di minaccia diretta contro il nostro vivere insieme, abbiamo dimostrato di avere uno spirito di resistenza nato dal profondo e che ha stupito il mondo. Certo, i fatti non sono paragonabili. E non è possibile mettere sullo stesso piano il nichilismo sterminatore degli jihadisti che uccidono come si disboscano le foreste e la squallida passione di apprendisti stregoni che, rovesciando le forme della Repubblica contro il suo spirito e la sua storia, progettano di revocare le nostre tradizioni di ospitalità, la libertà di creazione dei nostri artisti e quei diritti delle donne così faticosamente conquistati.

Ma ci sono qui due fenomeni che si corrispondono. C’è un odio giovane e un odio stantio che, apparentemente agli antipodi, si guardano allo specchio, si rafforzano e si coniugano al fine di sconvolgere la nostra forma di contratto sociale e di far insorgere i francesi gli uni contro gli altri. Gli attentati di gennaio, poi quelli di novembre, hanno provocato un soprassalto di unità nazionale che ci riporta alle ore più ricche della nostra storia. Ebbene, al pesante voto di domenica deve corrispondere una stessa reazione di unità e di rifiuto. All’odio espresso nelle urne, occorre replicare con uguale vigore che all’odio espresso nel sangue. E le stesse persone che, a milioni, hanno detto no al terrorismo e alle bandiere nere, ora devono dire no a coloro che alterano lo spirito delle leggi, giocano con il tricolore e lo usurpano, agli unici dirigenti politici che, sia detto en passant , l’11 gennaio scorso, all’indomani dei massacri di Charlie Hebdo e dell’Hyper Kasher, rifiutarono di unirsi all’ondata umana che scese nelle piazze per esprimere il proprio rifiuto della barbarie e il proprio amore per la Francia.

Concretamente, questo significa tre cose. Chi ama la Francia, uomini e donne di buona volontà che difendono lo spirito di tolleranza e dei tre motivi del motto repubblicano, devono essere molto più numerosi, domenica prossima, ad andare a votare. Sinistra e destra, in tale circostanza e provvisoriamente mescolati, dovranno avere, votando nelle regioni minacciate, una sola e unica preoccupazione: impedire a un manipolo di avventurieri, nemici del nostro sistema di sovranità e di cittadinanza, di accedere alle più alte funzioni locali. E i loro candidati devono, fin da oggi, esplorare e adottare le uniche due o tre formule (desistenza, fusione delle liste, fronte repubblicano, poco importa...) che consentiranno di sbarrare la strada a coloro che, due secoli dopo Voltaire, un secolo e mezzo dopo la proclamazione della Repubblica, credono di nuovo sia giunta la loro ora.

Non c’è via d’uscita. Nessun ragionamento, fosse pure dottrinalmente giusto (la fusione significa confusione... il Front National si nutre della scomparsa del dibattito e del disaccordo politico...) conterà davanti all’urgenza (fare di tutto affinché il clan Le Pen non prenda in ostaggio, per esempio, i due poli, nord e sud, di una Francia scombussolata...). La responsabilità storica della sconfitta annunciata ricadrebbe, negli apparati come sul terreno, sugli uomini e le donne di scarsa coscienza che avessero sostenuto le loro ambizioni o passioni personali contro l’interesse generale. La Francia, al termine del terribile anno che ha appena attraversato, merita qualcosa di più del disfattismo. Sarebbe penoso se, dopo essere coraggiosamente insorta contro il nemico esterno, dovesse cedere a un nemico interno che, anch’esso, a suo modo, sogna di vederla in ginocchio.

(traduzione di Daniela Maggioni)

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