Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/12/2015, a pag.8, con il titolo "Militari turchi in Iraq, Bagdad protesta, l'Isis sposta miliziani in Afghanistan", l'anaklisi di Lorenzo Cremonesi.
Lorenzo Cremonesi
Tre eventi delle ultime ore tornano a enfatizzare quanto la sfida contro l’Isis, in un Medio Oriente dove le lotte interne sono alimentate da ostilità regionali e internazionali, si stia facendo sempre più complessa. In primo luogo le reazioni alla notizia due giorni fa della presenza di truppe turche nelle zone curde a Bashiqa, una trentina di chilometri dalla Mosul controllata dall’Isis. Ieri le prese di posizione delle parti in causa hanno estremizzato vecchie tensioni. Il governo sciita di Bagdad si è affrettato a condannare. «Le truppe turche in Iraq sono una violazione della nostra sovranità nazionale. Un atto ostile. Devono uscire immediatamente», si legge nella nota diffusa dall’ufficio del premier Haider al-Abadi. L’ambasciatore turco è stato convocato al ministero degli Esteri iracheno. Da Ankara è allora giunta la riposta del premier Ahmet Davutoglu, il quale ha detto che il contingente turco non è in missione di combattimento, ma per «contribuire all’addestramento dei volontari impegnati nella guerra al terrorismo». Fonti sul posto confermano che i militari turchi lavorano per aiutare la minoranza turcomanna e in generale la popolazione sunnita in Iraq costretta tra l’incudine delle milizie di Isis e il martello delle brigate sciite che obbediscono al governo di Bagdad e trattano i sunniti come cittadini di secondo rango. Ma la realtà è ancora più complicata. L’enclave autonoma curda nel Nord del Pese gode di ottimi rapporti con la Turchia. Da anni lascia che i commando turchi colpiscano le unità del Pkk (l’organizzazione estremista dei curdi turchi) che opera dall’Iraq settentrionale. Non è strano che abbia permesso ai turchi di stazionare anche a Bashiqa. La vera sfida è dunque tra Bagdad ed Erbil. La crisi sui militari turchi rappresenta l’ennesimo tentativo del governo centrale iracheno di limitare l’autonomia dell’enclave curda che agisce da tempo come Stato indipendente. D’altro canto, la Turchia è oggi molto interessata ad ampliare il proprio raggio d’azione. La crisi con Mosca, infuocata dalle polemiche sull’abbattimento del caccia russo, le accuse di sostenere segretamente Isis e le pressioni degli alleati Nato a chiudere il passaggio sul confine con la Siria, sono tutti fattori che spingono il presidente Erdogan a rafforzare i rapporti con le minoranze filo-Ankara, quali i turcomanni e i sunniti moderati in Iraq. Ieri tra l’altro da Teheran sono giunte nuove accuse circa la disponibilità turca ad acquistare petrolio dall’Isis in Siria (ed è questo il secondo elemento rilevante di cronaca). Accuse, sembra, documentate da filmati, che alimentano l’attivismo turco. Terzo elemento che complica lo scenario: l’apparente capacità dell’Isis di cambiare strategie e teatri di guerra in parallelo alle pressioni militari della coalizione internazionale. Mentre fonti dell’intelligence occidentale (non ultimi i servizi britannici e francesi) confermano che, a fronte dei continui bombardamenti sulla zona siriana di Raqqa, l’Isis sta inviando uomini e mezzi in Libia, sembra assodato che gli uomini del Califfo stiano raggiungendo anche l’Afghanistan orientale. Il Times di Londra rivelava ieri che 1.600 jihadisti Isis si sarebbero insediati in quattro distretti a est di Jalalabad, lungo in confine con il Pakistan, sino a poco fa regno di Al Qaeda e dei talebani. Ma oggi Isis è la «marca» vincente, in grado di attirare giovani volontari e contributi finanziari. Kabul fa sapere che la media mensile dei soldati caduti contro i jihadisti sfiora i 500.
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