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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.12.2015 La doppia morale di Toscano: no alle condanne a morte in Arabia Saudità, sì a quelle in Iran
Mentre Putin attacca Erdogan per i traffici con l'Isis: il bue dà del cornuto all'asino

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Roberto Toscano - Guido Olimpio
Titolo: «La barbarie e il silenzio dell'Italia - Il califfo petroliere: chi compra da lui?»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/12/2015, a pag. 1-21, con il titolo "La barbarie e il silenzio dell'Italia", il commento di Roberto Toscano; dal CORRIERE della SERA, a pag. 6, con il titolo "Il califfo petroliere: chi compra da lui?", l'analisi di Guido Olimpio.

"Siamo contro la pena di morte": un ottimo proposito. Peccato che Roberto Toscano applichi questo principio in modo duplice, seguendo i dettami di una consueta, ignobile doppia morale. Nel caso dell'Arabia Saudita, infatti, le condanne a morte sono attaccate e al regime teocratico di quel paese estremista non si fanno sconti. Nel caso dell'Iran, altro regime teocratico altrettanto estremista e ben più pericoloso per il mondo intero, invece, Toscano non spende una parola di critica. Anzi, plaude sempre alla fine delle sanzioni. Eppure le condanne a morte in Iran sono molto più numerose di quelle comminate in Arabia Saudita. Di più, l'Iran per condanne a morte viene subito dopo la Cina, ma Toscano, ex ambasciatore a Teheran, sta zitto.  

Quando si tratta di acquistare il petrolio, inoltre, cadono come d'incanto le remore morali ed ecco che si fanno acquisti con il regime degli ayatollah e con lo Stato islamico. Putin che accusa Erdogan di trattare - anche economicamente - con lo Stato islamico ha le sue ragioni, ma ricorda un po' la storia del bue che dà del cornuto all'asino, visti gli ottimi rapporti di scambio economico e supporto militare che intercorrono tra Mosca, Damasco e Teheran.

Ecco gli articoli:

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Esecuzione capitale in Arabia Saudita...

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... e in Iran

LA STAMPA - Roberto Toscano: "La barbarie e il silenzio dell'Italia"

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Roberto Toscano

Siamo contro la pena di morte, ovunque. Per l’Europa l’abolizione della pena di morte non è soltanto un requisito per l’adesione all’Unione, ma addirittura un tratto identitario, una componente essenziale dei propri principi. E l’Italia, con una coerenza che ci fa onore, esercita da anni, soprattutto in ambito Nazioni Unite, una forte leadership nella battaglia per la moratoria delle esecuzioni in un’ottica esplicitamente abolizionista.

Si tratta di una lotta di civiltà paragonabile a quella condotta in passato contro la schiavitù, e proprio per questo siamo fiduciosi che la tendenza verso l’abolizione sia inarrestabile. In attesa del giorno in cui la pena di morte possa passare alla storia risulta tuttavia moralmente ineludibile non solo opporsi alla pena capitale per ragioni di principio, ma denunciare anche, con coerenza e coraggio politico, le offese ai diritti umani che derivano sia dalle modalità delle esecuzioni sia dai reati per cui la pena di morte viene decretata. Il caso più clamoroso è quello dell’Arabia Saudita, dove le esecuzioni vengono eseguite nella capitale mediante decapitazione sulla pubblica piazza (sinistramente nota come «chop chop square») in un osceno spettacolo popolare senza umanità, senza dignità, senza rispetto.

Quello che è ancora più osceno è l’elenco dei crimini punibili nel Regno saudita con la pena di morte. Come altri Paesi, l’Arabia Saudita prevede la condanna a morte dei colpevoli di omicidio o per traffico di droga, ma in questo caso l’elenco completo dei reati capitali è a dir poco raccapricciante: si va dall’adulterio all’omosessualità; dall’apostasia alla blasfemia; dall’idolatria alla stregoneria.

Negli ultimi tempi, alcuni casi hanno colpito particolarmente l’opinione pubblica mondiale: quello di un giovane saudita, Ali al-Nimer, condannato ad essere decapitato e successivamente messo in croce, e lì lasciato marcire, per avere partecipato nel 2012, quando aveva 17 anni, a manifestazioni di protesta per l’arresto del padre, un clerico sciita anche lui condannato a morte; la condanna alla lapidazione di una donna per adulterio, commesso con un uomo che invece è stato condannato soltanto a cento frustate; la condanna a morte per apostasia nei confronti di un poeta palestinese, Ashraf Fayadh, per avere, nei suoi versi, «insultato Allah e il Profeta» e avere «diffuso l’ateismo». Ma ad essere clamorosi non sono solamente questi veri e propri eccessi di barbarie retrograda, ma anche i nostri silenzi. Nostri dell’Europa, nostri dell’Italia, pur di solito così attiva nell’opporsi per principio alla pena di morte.

Certo, l’Arabia Saudita è un Paese importante, un partner economico di grande rilievo, soprattutto in materia energetica. Ma il nostro silenzio minaccia non solo di essere in contrasto con il nostro impegno per l’abolizione della pena di morte, ma di farci perdere credibilità. I grandi Paesi, come aspiriamo ad essere, non hanno solo grandi interessi, ma anche grandi valori, e quanto meno fra interessi e valori dovrebbe esserci una tensione. Rinunciare ai secondi, ce lo dicono il realismo e la storia, non garantisce di certo i primi.
E poi, come è possibile opporsi alla decapitazioni di «infedeli» da parte dello Stato Islamico e passare sotto silenzio le esecuzioni di «apostati» da parte dell’Arabia Saudita? Entrambi citano fra l’altro, come fonte, la stessa interpretazione radicale, wahabita, della Sharia.

Infine il nostro silenzio significa che diamo per scontato che il Paese debba rimanere fermo negli aspetti più retrogradi di antiche tradizioni. In questo modo non rendiamo di certo giustizia a una popolazione, soprattutto giovane, in cui comincia ad affiorare l’aspirazione a una modernità che non si limiti alla sfera dei consumi e della tecnologia ma comprenda un’evoluzione della società basata sul rispetto delle tradizioni ma non dalla loro feroce ed autoritaria imposizione da parte di regimi prima o poi destinati - dovremmo ormai saperlo - ad essere sovvertiti, proprio per il loro rifiuto di cambiare, da violenti sommovimenti.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: "Il califfo petroliere: chi compra da lui?"

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Guido Olimpio

A nessuno fa schifo il petrolio del Califfo. Dunque finisce in Turchia, in Kurdistan, a Damasco e molto più lontano perché a volte è mescolato a quello legittimo. E questo spiega come porti allo Stato Islamico circa 500 milioni di dollari all’anno. Una fetta di quel miliardo di dollari che rappresenta il budget del sedicente Stato Islamico. Le accuse del Cremlino sulle tre rotte usate dall’Isis per far arrivare il greggio in Turchia sottolineano con clamore e foto aspetti già emersi. Solo che stavolta Mosca personalizza la situazione, coinvolgendo i familiari del presidente turco Erdogan, dal figlio Bilal al genero. Un network che ha incrociato il grande business, con connessioni importanti, all’arte di arrangiarsi di coloro che vivono un’esistenza precaria. Oltre un anno fa sono emersi dettagli su quanto avveniva a Ezmerin, villaggio siriano, al confine turco. Sotto la frontiera e i campi passavano centinaia di tubature gestite dai contrabbandieri locali.

Dozzine di camion provenienti dal Califfato scaricavano il greggio che arrivava all’interno di case ed edifici a Hacipasa, Turchia, dove erano in attesa altri mezzi. Tutto gestito al cellulare e senza la minima preoccupazione delle autorità. Tutti sanno, tutti fanno. Anche perché l’ottanta per cento della popolazione della zona è coinvolto. Il caso di Ezmerin era emblematico, ma non era certo l’unico. Con il passare del tempo i trafficanti hanno aumentato il numero delle cisterne dirette verso il territorio controllato da Ankara. I serpentoni dei camion erano ben visibili dall’alto: infatti sono stati colpiti dai russi, ma anche dagli americani, come hanno documentato video diffusi di recente.

Il Pentagono, che pure oggi difende l’alleato turco, dovrebbe avere molto materiale sull’argomento. In maggio gli americani avrebbero intercettato documenti relativi proprio ai legami tra Isis e Paesi vicini. Gli oppositori del presidente Erdogan hanno rilanciato i sospetti chiamando in causa Bilal. Sposato, due figli, 34 anni, laurea ed esperienza di lavoro negli Usa, Bilal possiede numerose società. Tra queste ve ne sono alcune che importerebbero l’oro nero via Kurdistan iracheno, per poi piazzarlo sul mercato asiatico (ma anche in Israele). Punti d’appoggio il terminale turco di Ceyhan, sponde a Malta, tante petroliere e relazioni importanti. Un intreccio che, stando ai russi, farebbe gli interessi della famiglia del Sultano.

La Turchia, oltre a smentire ogni responsabilità, può appendersi all’alibi di non essere la sola. Il 25 novembre il Tesoro americano ha adottato sanzioni contro George Haswani e Kirsan Ilyumzhinov. Il primo è un intermediario molto vicino al regime siriano. Il secondo è un imprenditore russo, ex presidente della Repubblica di Kalmikya nonché della Federazione mondiale degli scacchi. Proprio Haswani avrebbe favorito relazioni economiche con gli avversari. Damasco importa energia dall’Isis e in cambio, oltre al denaro, offre consulenza tecnica per gli impianti e benzina di qualità. Non certo per amicizia ma per necessità. Come per altre attività, anche sul petrolio lo Stato Islamico impone tasse e pedaggi. Pochi i rischi, alti gli introiti. Il racket imbratta molti, fa emergere delle complicità imbarazzanti, mette in difficoltà un Paese dell’Alleanza atlantica come la Turchia ma diventa scandalo quando fa comodo. Contorni ambigui di una crisi dove non ci sono santi.

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