Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/11/2015, a pag. 17, con il titolo "Italia in prima linea ma è un errore parlare di guerra", l'intervista di Goffredo De Marchis a Paolo Gentiloni.
"E' un errore parlare di guerra", sostiene il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Di che cosa dobbiamo parlare, allora, dopo il massacro di venerdì scorso a Parigi? Forse a Gentiloni sfugge, ma in una guerra mondiale già siamo coinvolti almeno dall'11 settembre 2001. Anche se non la vorremmo, questa guerra c'è: negarne l'esistenza e voltarsi dall'altra parte è il peggior modo, se vogliamo vincerla. Invitiamo Gentiloni a guardare all'esempio di Israele, che combatte questa stessa guerra da 67 anni almeno. Oppure alle dichiarazioni di Churchill, che quando fu scelto dai propri cittadini per guidare la resistenza contro la Germania nazista e i suoi alleati promise loro "lacrime e sangue". Ma alla fine vinse la democrazia.
Winston Churchill
Ecco l'articolo:
Goffredo De Marchis
Paolo Gentiloni
«Non chiamiamola guerra». Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è sull’aereo che lo porta a Bruxelles per il consiglio mensile dei capi della diplomazia europea. All’ordine del giorno c’è l’immigrazione, ma l’agenda cambierà dopo le stragi di Parigi. L’invito del titolare della Farnesina è quello di usare con cautela certe parole. «Noi siamo in prima linea nel contrasto a Daesh, il sedicente stato islamico. Soprattutto in Iraq. Ma l’importante è reagire a queste azioni di guerra senza sentirsi in guerra anche noi. Sarebbe il regalo più grande che possiamo fare ai terroristi».
Cosa significa, ministro? Far finta di niente? «Assolutamente no e l’impegno italiano lo dimostra ampiamente. In Iraq, subito dietro gli americani e l’Iran, siamo il Paese più attivo e presente della coalizione. Lavoriamo su due fronti: fornendo armi e addestramento ai 7 mila peshmerga e, nel governatorato di Anbar, collaborando con le forze irachene regolari. Non voglio dire che sia merito dell’Italia, delle nostre armi e dei nostri addestratori, ma i peshmerga hanno riconquistato il Sinjar e esercitano il controllo sulla strada che porta da Mosul a Raqqa che nell’immaginario del cosiddetto Califfato sono le loro capitali, una in Iraq e l’altra in Siria. Vuol dire che sul piano del contrasto militare stiamo ottenendo dei risultati».
Poi però è arrivato il venerdì di Parigi. «Una tragedia enorme che avrà conseguenze psicologiche ed economiche difficili anche da immaginare. E che in Francia, adesso, giustifica i discorsi sulla guerra. Ma penso che noi non dobbiamo entrare in questa spirale, dobbiamo rimanere aggrappati al nostro modo di vivere, non possiamo darla vinta ai terroristi».
Solo una questione semantica? «Dobbiamo combattere i terroristi sul piano militare, senza entrare però in una dinamica di conflitto. Un Paese che si sente in guerra è un Paese che deve rinunciare a una parte di sé, dovrebbe chiudere subito Schengen per esempio. Ora è più utile invece affrontare questa emergenza assoluta tutti uniti, con una collaborazione delle forze politiche. Il vertice di sabato mi ha colpito. È stata una riunione molto seria, molto produttiva. Ognuno ha espresso le proprie idee, ma confrontandosi con gli altri. Non serve coltivare le paure e non serve alimentare le polemiche».
Quali sono i pericoli per l’Italia? «Dobbiamo essere seri: non esiste un Paese che sia immune dalle minacce dell’Isis e quindi dobbiamo, come tutti i Paesi europei e i Paesi arabi, tenere alto il livello di sicurezza».
Il Giubileo è un bersaglio? «Non credo che in sé il Giubileo rappresenti un maggior elemento di allarme. Daesh fa riferimento a Roma in modo simbolico, ricordando le crociate, più che con l’intenzione di esprimere minacce precise».
Quali sono i prossimi passi della comunità internazionale? «L’impressione è che gli Stati uniti vogliano avvicinarsi a Raqqa sfruttando il momento di difficoltà dell’Isis. Sul terreno di Siria e Kurdistan c’è e funziona quello che loro vogliono chiamare il coordinamento tecnico con i russi».
Con Assad quale atteggiamento va tenuto, qual è la posizione dell’Italia? «Bisogna affidarsi al contributo determinante della Russia per un’uscita di scena di Assad. Non mi stupirei di un’intensificazione dell’azione militare in Iraq e in Siria. Ma se è vero che siamo in prima linea nel contrasto all’Isis soprattutto in Iraq, per quanto riguarda la Siria l’Italia punta in particolare a una soluzione diplomatica. Mi sembra che il dialogo tra la Russia e gli Stati Uniti possa andare in questa direzione».
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