Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/11/2015, a pag. 34, con il titolo "I musulmani delle nostre città ora ci dicano con chi stanno", l'analisi di Bernard-Henri Lévy; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Parigi e il nuovo nazismo. Cosa lega la difesa della libertà dell'Occidente alla difesa della libertà di Israele", l'analisi di Claudio Cerasa; dalla REPUBBLICA, a pag. 23, con il titolo "Il bersaglio perfetto del culto della morte", l'analisi di Ian McEwan.
Ecco gli articoli:
Guerra a Parigi
CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy: "I musulmani delle nostre città ora ci dicano con chi stanno"
Bernard-Henri Lévy
Ebbene, la guerra. Una guerra di nuovo tipo. Una guerra con e senza frontiere, con e senza Stato; una guerra due volte nuova perché mescola il modello deterritorializzato di Al Qaeda e il vecchio paradigma territoriale al quale l'Isis è tornato. Ma comunque una guerra. Di fronte a una guerra che né gli Stati Uniti né l'Egitto né il Libano né la Turchia né oggi la Francia hanno voluto, una sola domanda è valida: che fare? Come rispondere e vincere, quando questo tipo di guerra vi cade addosso?
Prima legge. Dare un nome. Dire pane al pane, vino al vino. E osare formulare la terribile parola «guerra» che ha la vocazione, quasi la proprietà e, in fondo, la nobiltà e al tempo stesso la debolezza di essere respinta dalle democrazie oltre i limiti delle loro facoltà, dei loro punti di riferimento immaginari, simbolici e reali. Siamo a questo punto. Pensare l'impensabile della guerra. Accettare quell'ossimoro che è l'idea di una Repubblica moderna costretta a combattere per salvarsi. E pensarlo con tanta più pena in quanto nessuna fra le regole stabilite, da Tucidide a Clausewitz ai teorici della guerra, sembra applicarsi a questo Stato fantoccio che porta il conflitto tanto più lontano in quanto i suoi fronti sono incerti e i suoi combattenti hanno il vantaggio strategico di non fare alcuna differenza fra ciò che noi chiamiamo vita e ciò che loro chiamano morte. Le autorità francesi l'hanno capito, al livello più alto. La classe politica, unanime, ha avallato il loro gesto. Restiamo noi, il corpo sociale nel suo insieme e nel suo dettaglio: ciascuno di noi che, ogni volta, è un bersaglio, un fronte, un soldato senza saperlo, un focolaio di resistenza, un punto di mobilitazione e di fragilità biopolitica. E' sconfortante, è atroce, ma è così e occorre urgentemente prenderne atto.
Secondo principio. Il nemico. Chi dice guerra dice nemico. E il nemico bisogna trattarlo non solo come tale, cioè (lezione di Carl Schmitt) come una figura con cui si può, secondo la tattica adottata, giocare d'astuzia, fingere di dialogare, lottare senza parlare, in nessun caso transigere, ma soprattutto (lezione di Sant'Agostino, di San Tommaso e di tutti i teorici della guerra giusta) bisogna dargli il suo nome vero e preciso. Questo nome non è il «terrorismo». Non è una dispersione di «lupi solitari» o di «squilibrati». Quanto all'eterna cultura della giustificazione che ci presenta gli squadroni della morte come gente umiliata, ridotta allo stremo da una società iniqua e costretta dalla miseria a uccidere dei giovani il cui unico crimine è di aver amato il rock, il football o la frescura di una notte autunnale in un bar, è un insulto alla miseria non meno che alle vittime. No. Gli uomini che ce l'hanno con il dolce vivere e con la libertà di comportamento cara alle grandi metropoli, i mascalzoni che odiano lo spirito delle città come — è infatti la stessa cosa — lo spirito delle leggi, del diritto e della gradevole autonomia degli individui liberati dalle vecchie sudditanze, gli incolti cui bisognerebbe contrapporre, se non fossero loro estranee, le così belle parole di Victor Hugo quando gridava, durante i massacri della Comune, che prendersela con Parigi è più che prendersela con la Francia, perché significa distruggere il mondo: costoro conviene chiamarli fascisti. O meglio: islamo-fascisti. Meglio ancora: il frutto di un punto di incrocio che un altro scrittore, Paul Claudel, vede prospettarsi quando il 21 maggio 1935 nel suo Diario scrive, in uno di quei lampi di genio di cui solo i grandissimi hanno il segreto: «Discorso di Hitler? Si sta creando al centro dell'Europa una sorta di islamismo...».
Il vantaggio dell'atto di nominare? Mettere il cursore dove conviene. Ricordare che con questo tipo di avversario la guerra deve essere senza tregua e senza pietà. Poi, costringere ciascuno, dappertutto, cioè nel mondo arabo-musulmano come nel resto del pianeta, a dire perché combatte, con chi, contro chi. Questo non significa naturalmente che l'Islam abbia, più di altre formazioni discorsive, una qualche affinità con il peggio. E l'urgenza di questa lotta non deve distrarci dalla seconda battaglia, essenziale, anche vitale, che è quella per l'altro Islam, per l'Islam dei Lumi, per l'Islam in cui si riconoscono gli eredi di Massud, di Izetbegovic, del bengalese Mujibur Rahman, dei nazionalisti curdi o di un sultano del Marocco che fece l'eroica scelta di salvare, contro il regime di Vichy, gli ebrei del suo regno.
Ma ciò vuol dire due cose, o piuttosto tre. Innanzitutto, che le terre dell'Islam sono le uniche al mondo dove — poiché si reputa che la tormenta fascista degli anni Trenta non abbia oltrepassato il perimetro dell'Europa — ci si è dispensati dal fare il lavoro di memoria e di lutto che hanno compiuto i tedeschi, i francesi, gli europei in generale, i giapponesi. In seguito, che bisogna far apparire nettamente la separazione decisiva, primordiale, che contrappone le due visioni dell'Islam impegnate in una guerra mortale e che è, tutto considerato, e se si vuole mantenere assolutamente l'uso della formula, la sola guerra di civiltà che valga la pena. Infine, che la linea lungo la quale si affrontano gli affiliati di un Tariq Ramadan e gli amici del grande Abdelhawahb Meddeb, la verifica su ciò che, da un lato, può in effetti alimentare il «Viva la muerte» dei nuovi nichilisti e, dall'altro, del tipo di lavoro ideologico, testuale e spirituale che basterebbe a scongiurare il ritorno o l'entrata dei fantasmi, tutto questo deve essere prioritariamente opera degli stessi musulmani.
Conosco l'obiezione. Sento già i benpensanti gridare che il fatto di invitare bravi cittadini a dissociarsi da un crimine che non hanno commesso significa supporli complici e, dunque, stigmatizzarli. Invece no. Infatti, quel «non in nostro nome» che aspettiamo dai nostri concittadini musulmani era quello degli israeliani che si dissociavano, quindici anni fa, dalla politica in Cisgiordania del loro governo. Era quello delle folle di americani che nel 2003 rifiutavano l'assurda guerra in Iraq. Era il grido, più recentemente, di tutti i britannici, fedeli o semplici lettori del Corano, i quali si addossarono la responsabilità di proclamare che esiste un altro Islam — dolce, misericordioso, amante di tolleranza e di pace — rispetto a quello nel cui nome si poteva pugnalare un militare in mezzo a una strada. E' un bel grido. È un bel gesto. Ma soprattutto è il gesto semplice, di una buona guerra, che consiste nell'isolare il nemico, staccarlo dalle sue retrovie e far sì che non si senta più come un pesce nell'acqua in una comunità di cui, in realtà, egli è la vergogna. Infatti, chi dice guerra dice ancora, inevitabilmente, identificazione, emarginazione e, se possibile, neutralizzazione di quella parte del campo avverso che opera sul suolo nazionale.
È quel che fa Churchill mettendo in prigione, quando la Gran Bretagna entra in guerra, oltre duemila persone, talvolta molto vicine a lui, come un suo cugino, numero due del partito fascista inglese, Geo Pitt-Rivers, che egli considera nemici interni. Ed è, fatte le debite proporzioni, quello che bisogna decidersi a fare bloccando, per esempio, i predicatori di odio; sorvegliando ancora più da vicino le migliaia di individui schedati «S», cioè sospetti di jihadismo; o convincendo i social network americani a non lasciare che gli appelli all'omicidio kamikaze prosperino all'ombra del primo emendamento. Il gesto è delicato. È sempre sull'orlo della legislazione d'eccezione. Per questo è essenziale non cedere né sul diritto né sul dovere di ospitalità che si impone, più che mai, di fronte allondata di rifugiati siriani in fuga, giustamente, dal terrore islamo-fascista. Continuare a ricevere i migranti e nello stesso tempo rendere inoffensivo il più gran numero di cellule pronte a uccidere... Accogliere a braccia aperte chi fugge dall'Isis e contemporaneamente essere implacabili con quelli fra loro che traessero vantaggio dalla nostra fedeltà ai nostri principi per infiltrarsi in terra di missione e commettervi i loro misfatti... Non è contraddittorio. È l'unico modo, innanzitutto, per non offrire al nemico la vittoria che si aspetta, cioè di vederci rinunciare al modo di vivere insieme, aperto, generoso, che caratterizza le nostre democrazie. Ed è, lo ripeto, il modo di procedere inerente a ogni guerra giusta che consiste nel non lasciare amalgamare ciò che ha vocazione ad essere diviso; e nella circostanza mostrare alla grande maggioranza dei musulmani di Francia che non solo sono nostri alleati, ma fratelli concittadini.
Poi, l'essenziale. La vera fonte di questo orrore dilagante. Lo Stato islamico che occupa un terzo abbondante della Siria e dell'Iraq e che offre agli artificieri dei possibili, futuri teatri Bataclan le retrovie, i centri di comando, i campi di addestramento. È come un tempo a Sarajevo, come all'epoca in cui i sedicenti esperti agitavano lo spettro di centinaia di migliaia di soldati che si sarebbero dovuti impiegare sul terreno per impedire la pulizia etnica, mentre in realtà basteranno, giunto il momento, poche forze speciali e qualche attacco aereo: sono convinto che le orde dell'Isis siano molto più coraggiose quando si tratta di far saltare il cervello a giovani parigini inermi rispetto a quando bisogna affrontare veri soldati della libertà; e penso dunque che la comunità internazionale si trovi di fronte a una minaccia che, se lo vuole, ha tutti i mezzi per fermare. Perché non lo fa? Perché dosare tanto meschinamente il nostro aiuto agli alleati curdi? E quale è la strana guerra che l'America di Barack Obama per ora non sembra voler davvero vincere? Lo ignoro. Ma so che la chiave del problema è qui. E che l'alternativa è chiara: no boots on their ground equivale a more blood on our ground.
(Traduzione di Daniela Maggioni)
IL FOGLIO - Claudio Cerasa: "Parigi e il nuovo nazismo. Cosa lega la difesa della libertà dell'Occidente alla difesa della libertà di Israele"
Claudio Cerasa
C’è un filo per nulla sottile e anzi piuttosto robusto che collega i fotogrammi del terrore proiettati in mondovisione dal terrorismo islamico e le immagini delle minacce che colpiscono ogni giorno un paese come Israele, simbolo genuino della lotta tra le libere democrazie e i totalitarismi nascenti. Quel filo non è legato alla storia del Bataclan che sarebbe stato preso d’assalto per il suo essere non solo un’allegoria perfetta di una spensieratezza dell’occidente colpita a morte nella sua intimità ma anche per essere un luogo sensibile a causa della sua vicinanza al mondo ebraico (i proprietari del Bataclan sono ebrei e già nel 2011 i servizi segreti francesi, come riportato ieri da Le Point, avevano disinnescato un progetto di attentato organizzato dal Jaish al-Islam contro il Bataclan e i suoi proprietari ebrei).
Il filo a cui facciamo riferimento è più solido. Ed è lo stesso filo messo in rilievo la scorsa settimana su questo giornale quando abbiamo scelto di dar vita a un comitato di solidarietà per boicottare i boicottatori di Israele, comprando prodotti made in Israel. Oggi più che mai, la difesa di Israele, in tutte le sue forme, è una battaglia cruciale perché esiste una precisa simmetria tra quanto sono lontani il cuore e il cervello dell’occidente rispetto all’unica democrazia del Medio Oriente e quanto sono lontani il cuore e il cervello dell’Occidente rispetto al tema della minaccia portata ogni giorno alla democrazia dai fondamentalismi di ogni tipo – in primis, quello islamico. Non ci stancheremo mai di ripetere che difendere la libertà di Israele significa difendere la libertà dell’Occidente (e non è un caso che gli ebrei vengano presi di mira anche per essere intrinsecamente simbolo di democrazia e di libertà) e non ci stancheremo mai di ricordare che il terrorismo che avvicina il suo coltello a un ebreo colpevole di essere ebreo è lo stesso terrorismo che avvicina le sue cinture esplosive a un Occidentale colpevole di essere occidentale (a Parigi, a inizio anno, subito dopo l’attacco a Charlie Hebdo, i terroristi scelsero di attaccare anche un negozio kosher di Parigi, senza altra motivazione se non quella di dover punire l’essere ebrei).
“A coloro che in Europa e nel mondo assegnano voti e ci danno consigli – sostiene con una buona dose di ragione il tostissimo Naftali Bennett, attuale ministro dell’Economia del governo Netanyahu – ricordo che questo terrorismo che ci colpisce non è soltanto un attacco a Israele ma è un attacco allo stile di vita che riteniamo libero e democratico. Noi forse siamo in prima linea ma non cadete in errore: questa guerra sta scoppiando anche nei vostri paesi. E fate attenzione a non trovarvi, quando sarà, dalla parte sbagliata della Storia”. Il nostro appello nasce per questo. Nasce perché i coltelli e i boicottaggi sono due facce di una violenza speculare che da mesi è tornata a colpire il simbolo di una democrazia in lotta contro il terrorismo in tutte le forme possibili e immaginabili. Nasce perché ormai il desiderio di punire Israele – che nasce dallo stesso grembo di un’Europa imbelle e a volte anche imbecille che trova la forza per boicottare Israele ma non trova la forza e il coraggio di rispondere alle minacce islamiste con qualcosa di più efficace che un paio di droni caduti dal cielo e un paio di bandiere francesi condivise su Facebook – non è un fatto isolato legato solo all’etichettatura voluta dalla commissione Europea ma è un fenomeno diffuso che si irradia in più forme.
L’intifada dei coltelli, dovrebbe essere chiaro, è una lama che quando colpisce un ebreo non colpisce soltanto il suo corpo ma colpisce, con un affondo ancora più forte, il ventre molle di un Occidente incapace di trovare le parole giuste e le azioni giuste per reagire di fronte a un terrorismo che giorno dopo giorno si rafforza anche grazie al fatto che coloro che dovrebbero combattere la minaccia islamista non accettano il principio che per distruggere i tagliagole bisogna tagliare le loro gole prima che siano loro a tagliare le nostre. Alla luce di quello che abbiamo descritto, dunque, ha una valenza ancora più poderosa il punto che segnaliamo: in un momento storico come questo – in cui Israele si trova all’avanguardia nella lotta contro il terrore ma contemporaneamente si trova anche intrappolata in un contesto in cui deve combattere non solo con l’intifada dei coltelli, con i suoi vicini di casa che sognano la sua cancellazione dalle cartine geografiche e con un accordo nucleare che porterà probabilmente gli ayatollah a dotarsi di un’arma atomica – l’Europa ha scelto di marchiare i prodotti del popolo ebraico riesumando il marchio della Stella Gialla contro l’unica democrazia del Medio Oriente.
Compiendo un’azione che non accadeva dai tempi di Hitler e scegliendo di mandare un messaggio preciso verso l’unica società del Medio Oriente dove, come ha ricordato su queste colonne il nostro Giulio Meotti, gli arabi leggono una stampa libera, manifestano quando vogliono, mandano i propri rappresentanti in parlamento e godono degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Il nostro appello nasce anche per questo. Nasce per chiamare le cose con il loro nome. Nasce perché tacere di fronte a un simile orrore significa essere compici di un delitto.
Chi ama Israele ama la democrazia. Chi ama la democrazia combatte contro i totalitarismi di ogni genere. E chi oggi vuole affamare il popolo del boicottaggio deve comprare quei prodotti proibiti per boicottare i boicottatori. Sarebbe facile dire che esiste un solo nemico di Israele, un nuovo piccolo Hitler facilmente identificabile. I nemici di Israele purtroppo sono tanti. Sono nascosti ovunque. Nelle cancellerie, nelle ong, tra gli intellettuali, tra i paesi integralisti che confinano con Israele e che vedono nella presenza di una democrazia funzionante una minaccia inaccettabile. E per questo continueremo a raccogliere firme – ne abbiamo ricevute migliaia, ne continuiamo a ricevere centinaia ogni giorno, tutte bipartisan – e proveremo in tutti i modi a smuovere le coscienze e a organizzare campagne di sensibilizzazione per spiegare che il boicottaggio è la punta di un iceberg che nel silenzio assoluto toglie ogni giorno uno spicchio di libertà al popolo simbolo della libertà. E in un momento in cui all’orizzonte si intravede la nascita di un nuovo nazismo, quello islamico, bisogna dire con forza che per evitare nuove stellette di Davide e non farsi trovare dalla parte sbagliata della storia bisogna boicottare i boicottatori di Israele. Chi firma?
LA REPUBBLICA - Ian McEwan: "Il bersaglio perfetto del culto della morte"
Ian McEwan
Il culto della morte ha scelto bene la sua città — Parigi, capitale laica del mondo, metropoli tra le più ospitali, eterogenee e affascinanti mai concepite. Il culto della morte ha scelto i suoi bersagli in questa città con accuratezza macabra e che si condanna da sola — tutto ciò che esecravano si trovava proprio lì davanti ai loro occhi in quella lieta serata di venerdì: uomini e donne tranquillamente insieme, vino, libero pensiero, risate, tolleranza, musica scatenata e satirica — rock and blues. I seguaci del culto della morte sono arrivati armati di feroce nichilismo e di un odio che va al di là della nostra comprensione. Come corazza di protezione una cintura esplosiva, la loro idea di nascondiglio definitivo un aldilà virtuoso, dove la polizia non può arrivare. (Il paradiso dei jihadisti si sta rivelando una delle peggiori idee mai concepite dal genere umano; massacrare e bruciare in questa vita, l’eterno riposo in mezzo alla pacchianeria in quella successiva).
Parigi, frastornata e sommessa, si è svegliata e ha riflettuto sulle sue mutate circostanze. Quelli tra noi che l’altra sera erano fuori in città non hanno potuto che stupirsi dei capricci del caso, che lascia noi vivi e morti gli altri. Quando è iniziata la carneficina, mia moglie e io ci trovavamo in una veneranda istituzione parigina, lo stereotipo della bella vita senza pretese fin dal 1845. In quell’affascinante ristorante del Sesto arrondissement, ci si siede a tavole gremite di persone, in compagnia di estranei benintenzionati, visitatori e residenti locali in amichevole fusione. Con i nostri pouilly- fumé e filets d’hareng saremmo stati bersagli buoni come qualsiasi altro. Il culto della morte ha preferito l’Undicesimo e il Decimo arrondissement, appena un chilometro e mezzo più in là, e non ci siamo accorti di niente. Oggi sappiamo. Quali sono adesso le mutate circostanze? La sicurezza sarà inasprita e Parigi dovrà diventare un po’ meno affascinante. La tensione cruciale tra sicurezza e libertà resterà una sfida. Le pallottole e le bombe del culto della morte torneranno, qui o da qualche altra parte, possiamo esserne certi. Gli abitanti di Londra, New York e Berlino vi prestano grande e inquieta attenzione. A gennaio eravamo tutti Charlie Hebdo. Oggi siamo tutti parigini e in un momento così cupo questo, quanto meno, è motivo d’orgoglio.
Traduzione di Anna Bissanti
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