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La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
13.11.2015 Gli adepti di mullah Krekar in Italia: 'Prenderemo Roma, moriremo felici per Allah'
Cronaca di Maurizio Molinari, commenti di Giovanni Bianconi, Giuliano Foschini, Fabio Tonacci

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Giovanni Bianconi - Giuliano Foschini; Fabio Tonacci
Titolo: «L'ossessione del mullah Krekar è conquistare la fiducia del Califfo - 'Noi siamo senza donne, moriremo felici per Allah' - 'Prenderemo anche Roma, siamo destinati al martirio'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/11/2015, a pag. 3, con il titolo "L'ossessione del mullah Krekar è conquistare la fiducia del Califfo", la cronaca di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 2, con il titolo "Noi siamo senza donne, moriremo felici per Allah", il commento di Giovanni Bianconi; dalla REPUBBLICA, a pag. 2, con il titolo "Prenderemo anche Roma, siamo destinati al martirio", il commento di Giuliano Foschini, Fabio Tonacci.

Ecco gli articoli:

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Mullah Krekar

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "L'ossessione del mullah Krekar è conquistare la fiducia del Califfo"

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Maurizio Molinari

Fautore dello Stato Islamico in Kurdistan, teorizzatore dell’alleanza fra curdi e sunniti, leader dei salafiti scandinavi, sostenitore dei killer di «Charlie Hebdo» e convinto di poter sedurre il Califfo con un network di cellule europee: il mullah Krekar, nato come Najmuddin Faraj Ahmad, è il protagonista di un quarto di secolo di ideologia jihadista in più Continenti.

L’aspirazione
Krekar immagina lo Stato Islamico 23 anni prima dell’Isis di Abu Bakr al-Baghdadi. È il 1991, all’indomani della sconfitta di Saddam nella Prima Guerra del Golfo il Kurdistan iracheno conquista una propria autonomia e Krekar, classe 1956, vuole crearvi un Emirato salafita fondendo curdi e sunniti. È un progetto ostile al nazionalismo curdo di Barzani e Talabani: Krekar non vuole il Kurdistan indipendente bensì i curdi sunniti protagonisti della Jihad. Per lui l’Islam salafita conta più dell’etnia curda. La convivenza con i leader dei peshmerga è impossibile ed emigra in Norvegia, puntando a contagiare con la sua versione della Jihad la Diaspora curda in Europa. È un’operazione ambiziosa, da cui ottiene risorse finanziarie e umane grazie alle quali nel 2001 fa nascere nel Kurdistan iracheno «Ansar al-Islam», composto di circa 300 veterani dei mujaheddin afghani, che giura fedeltà ad Al Qaeda di Osama bin Laden. Nelle poche regioni curde che controlla instaura un mini-Stato Islamico antesignano di Isis: vige la sharia più rigida, la musica è proibita, le bambine non possono studiare, i sacrari sufi vengono distrutti, per i nemici c’è la decapitazione e gli apostati possono scegliere fra conversione o morte. Saddam non li attacca bensì li sfrutta, per indebolire il Kurdistan ribelle. Nulla da sorprendersi se quando George W. Bush dà inizio a «Iraq Freedom», nel marzo 2003, «Ansar al-Islam» è fra i primi obiettivi.

L’attacco americano
Il Pentagono di Donald Rumsfeld lo considera l’«anello di congiunzione fra Saddam e Al Qaeda». Forze speciali Usa e peshmerga rovesciano un diluvio di fuoco su basi e militanti di «Ansar al-Islam» - scoprendo che possedeva anche un impianto di armi chimiche - ma è una disfatta militare da cui Krekar esce indenne, forte del rifugio norvegese dove nel frattempo si è sposato e ha avuto tre figli, tutti scandinavi. Ad Oslo diventa il volto della «Jihad norvegese» - come lo descrivono le tv locali - dispensa lodi alle stragi di Abu Musab al-Zarqawi in Iraq e ai killer di «Charlie Hebdo» a Parigi, arrivando a minacciare leader politici locali ed intellettuali curdi come Mariwan Halabjaee reo di aver scritto «Sesso, Sharia e Donne nell’Islam». Più volte arrestato, processato, detenuto e scarcerato, il mullah Krekar spinge i musulmani norvegesi a «diventare un partito unico» puntando al potere ad Oslo e al contempo vede nel Califfato di al-Baghdadi l’approdo naturale: è per riuscire ad accattivarsi il «Principe dei Credenti» che crea una rete di cellule curde jihadiste fino all’Italia. Ora è in manette e forse dentro di sé pensa soprattutto di essersi guadagnato la fiducia di al-Baghdadi.

CORRIERE della SERA - Giovanni Bianconi: "Noi siamo senza donne, moriremo felici per Allah"

L'ideologia che condiziona la mente islamica, la morte e non la vita è alla base di tutto. E per onorare Allah gli apostati devono essere uccisi, gli assassini onorati come martiri. Altro che analisi su moderati ed estremisti, per capire l'islam studiare attentamente le parole di Krekar.


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Giovanni Bianconi

Ibrahim Jamal è un cittadino iracheno di 34 anni, transitato dall'Inghilterra e sbarcato in Italia con permesso di soggiorno rilasciato nel 2008, soprannominato «Hitler» dai suoi amici perché teneva le foto del Führer appese al muro della sua stanza. Nel 2012 si trovava in Germania quando, intercettato dai carabinieri del Ros che indagavano sulla presunta cellula terroristica di matrice islamica, salutava gli amici prima della partenza. Era il 10 aprile 2012: «Rebwar gli chiede se tornerà o se sta andando per sempre — riassumono gli investigatori —, lui dice che il fato lo sa. Poi Rebwar chiede se prenderà parte di una squadra di calcio e lui dice Inshallah». A parte l'invocazione «alla volontà di Dio», secondo gli inquirenti il riferimento al pallone è un modo per dire «andare a combattere all'estero». Tanto che — spiegano — quando parla del gruppo uno dei capi «lo chiama Barcellona, e i giocatori di calcio sono i jihadisti». Metafora confermata da un'altra conversazione tra Rebwar e Rahman Nauroz Abdoul, entrambi coinvolti nell'operazione di ieri.

Rebwar: «Hai visto le fotografie di Hitler?». Nauroz: «No per Allah, quali?». Rebwar: «Con un kalashnikov sulle montagne in Kurdistan, l'ha postata su Facebook». Nauroz: «Io cerco moglie ma non trovo niente». Rebwar: «Allah ci ama, per questo non ci ha offerto nessuna donna, cosi da permetterci da andare a giocare a calcio». In un'intercettazione di due anni più tardi, aprile 2014, lo stesso Nauroz è ancora più esplicito su questo accostamento tra mancato matrimonio e disponibilità al sacrificio della propria vita per realizzare un attentato: «Non vado bene per niente eccetto che per il martirio, perché non ho né una moglie né figli. Non ho un lavoro. Cosa dovrei fare qui? È meglio andare là o farmi saltare in aria? Tu credi negli attentati suicidi?», domanda a Kamil Jalal Fatah, stretto collaboratore del mullah Krekar, detenuto in Norvegia. E quello risponde: «È una metodologia chiara se credi in essa». Oltre che autocandidato al «martirio», Nauroz è considerato il principale reclutatore della cellula individuata dalle indagini. Fra le persone arruolate e «radicalizzate» da lui c'è un altro iracheno di 36 anni, Saman Jalal Hasan.

Nell'appartamento di Nauroz i carabinieri l'hanno intercettato mentre, a fine 2011, dice frasi del tipo: «Non avrò pace fino a che non ucciderò qualche ebreo; è buono morire per Allah; qualsiasi cosa io faccia per Allah è come se non avessi fatto abbastanza; quando verrò ammazzato i miei figli saranno fieri; sarà bello quando Mullah Omar verrà a trovarci tra le montagne». I progetti di attentati riguardavano soprattutto la Norvegia e i rappresentanti diplomatici di quel Paese, da colpire in Europa o altrove per ottenere la liberazione del mullah Krekar. «Se gli succede qualcosa ci sono alcuni uomini che possono far diventare la Norvegia come il Libano, e ci saranno delle esplosioni», racconta nel 2012 Nauroz. La stessa persona che l'anno successivo, a fine 2013, organizza e paga la trasferta in Siria (e ritorno) di un kosovaro convertito alla causa, il ventisettenne Eldin Hodza.

A Capodanno Hodza sbarca in Turchia: a parte i pedinamenti in Italia e le intercettazioni, un rilevatore piazzato dai carabinieri sul suo bagaglio ne segnala lo scalo all'aeroporto di Istanbul. Dalla Siria, dove giunge in seguito, il kosovaro manda messaggi attraverso Facebook in cui ribadisce «la sua aderenza a un gruppo operativo, l'assoluto convincimento ideologico e i suoi propositi jihadisti spinti sino al "supremo sacrificio"». Rientrato in Italia su ordine di uno «sceicco» dopo «un omicidio tra "fratelli"», Hodza viene intercettato ancora, e il 6 aprile scorso con il cugino Ersan «commenta in modo critico il discorso di un imam che auspica la presa di Roma in maniera non cruenta». Parole che ricordano quelle che Nauroz ascolta nel 2014 da canti e poesie in cui si dice: «Combatteremo finché faremo il richiamo per le preghiere e pregheremo a Roma, questa è la promessa di Dio»; e Nauroz ripete; «Pregheremo a Roma».

LA REPUBBLICA - Giuliano Foschini; Fabio Tonacci: "Prenderemo anche Roma, siamo destinati al martirio"

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Fabio Tonacci, Giuliano Foschini

«Con la volontà di Dio non ci fermiamo e combatteremo finché faremo il richiamo per le preghiere e pregheremo a Roma, questa è la promessa di Dio, Dio non rompe mai la sua promessa. Pregheremo a Roma». Alla fine è in Italia che voleva arrivare il gruppo del Mullah Krekar: a Roma, per pregare Allah. C’è anche questo nei deliri jihadisti della struttura terroristica, raccontati nelle 1217 pagine firmate dal gip di Roma, Valerio Savio. Propositi di attentati. Ma anche un sofisticato movimento di uomini, di denaro e di armi verso la Siria e tutti i territori della Guerra Santa.

STRUTTURA PIRAMIDALE Il gruppo, ricostruiscono i carabinieri del Ros, aveva due obiettivi: uno a breve termine, con la Jihad in Siria. E uno a lungo: portare la guerra Santa in Kurdistan. Per farlo avevano organizzato un’organizzazione segreta divisa in cellule (5 persone), ali (5 cellule), corpi (4 ali), famiglie (3 corpi) clan (3 famiglie) e tribù (3 clan). «Vi è — si legge negli atti — una rigorosa compartimentazione delle informazioni, riservando al solo mullah o ai soggetti direttamente coinvolti la conoscibilità di elementi operativi e di programmi ». Oltre alla gerarchia, l’associazione ha una particolare compartimentazione («precisa individuazione di ruoli e incarichi »), con cellule territoriali. Una di queste si trova proprio in Italia e, come le altre nasce tramite la piattaforma informatica Paltalk. Che ha due chat room su cui fanno «proselitismo per raggiungere nuovi adepti in Europa e Medio Oriente dove la diaspora ha ricollocato gli esuli curdi».

L’UOMO CHIAMATO HITLER Ed è in una riunione nella room riservata “Kurdistan paimangay mawardy” che il 4 aprile del 2012 nasce il gruppo italiano. A guidarlo sono Nauroz, Omar Sharazuy, Kawa e Kanimasi, quattro delle persone arrestate ieri. Con loro ce ne sono altri cinque, tra cui Amal Ibrahim, detto Hitler, soprannome dovuto alle «condotte univocamente finalizzate alla radicalizzazione di musulmani, cui sottoponeva materiale audio video di estrema brutalità, in maniera strumentale per sviluppare sentimenti antioccidentali ed antisemiti». Il compito principale della cellula italiana era quella di reclutare jihadisti da inviare in Siria per la guerra Santa. Sono almeno dieci, hanno accertato le indagini, gli uomini che partono dall’Italia: passano da Merano, Roma, Bari, Venezia. E sono diretti in Siria, visto anche l’avvicinamento del gruppo all’Is. «È buono morire per Allah, qualsiasi cosa io faccia per Allah è come se non avessi fatto abbastanza»; «Quando verrò ammazzato i miei figli saranno fieri»; «Non avrò pace fino a che non ucciderò ebrei e americani», spiegava Neuroz ai suoi adepti che si dicevano pronti «a ubbidire a qualsiasi azione che fossi pronto a ordinarmi ».

LE AZIONI Molte delle energie vengono spese nel progettare un attentato in Norvegia, per liberare il mullah Krekar che è stato arrestato nel 2012. «Per questi che hanno bruciato il Corano, almeno cento persone sono pronte in Europa a fare giustizia» diceva in carcere il Mullah. «La soluzione — pensava Neuroz — è attaccare un’ambasciata a Bagdad o nel Sud e in Iran, anche nei Paesi arabi ma non in Europa… non torneranno mai in Norvegia finché vivranno… Se accade qualcosa a Krekar ci sono uomini che possono far diventare la Norvegia come il Libano». L’operazione fu fermata ma quella del martirio veniva vista come l’unica «soluzione possibile». «L’attacco suicida è una metodologia chiara», «e non si tornerà all’Islam se non sarà sparso del sangue». Per farlo era necessario però allargare il campo anche all’Occidente. E non a caso, alla vigilia di Natale dello scorso anno, Nauroz parla con i suoi della «legittimità dell’uso della forza come unica via possibile per creare uno Stato ed abbattere quelli esistenti, con gli utenti connessi che auspicano la conquista di Roma e la liberazione di Istanbul dagli “infedeli” da parte dello Stato Islamico». «Non ci fermiamo e combatteremo finché faremo il richiamo per le preghiere e pregheremo a Roma, questa è la promessa di Dio, Dio non rompe mai la sua promessa».

I FINANZIAMENTI Accanto ai deliri, l’organizzazione lasciava poco al caso. Gli strumenti informatici erano di alta qualità. Le comunicazioni non viaggiavano quasi mai su linea telefonica ma soltanto su Skype e altre chat cifrate. Al telefono spesso chiamano il loro gruppo «Barcellona», intesa come la squadra di calcio. Mentre i «giocatori » sono i jihadisti. Ma come si finanziavano? Un canale di approvvigionamento è sicuramente il traffico dei migranti: risulta dalle intercettazioni telefoniche che gestivano decine e decine di persone, organizzando i viaggi verso il Nord Europa. Il gruppo aveva accesso diretto alla cassa comune (Bayt al-Mal), nella disponibilità del mullah Krekar ci sono almeno 400mila dollari. Servivano per comprare armi («10mila euro per quel fucile»). Ed erano loro a gestire direttamente i sovvenzionamenti per i jihadisti e le famiglie dei martiri. Come Makwan. «Ha chiesto di avere il denaro perché presto partirà». Per non tornare mai.

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