Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/11/2015, a pag. 3, con il titolo "Quattro coltellate: ebreo con la kippah aggredito a Milano", la cronaca di Paola D'Amico, Gianni Santucci; con il titolo "Ci sentiamo tutti minacciati", il commento di Paolo Conti; a pag. 1-27, con il titolo "I pregiudizi e l'odio", l'editoriale di Pierluigi Battista.
Ecco gli articoli:
Paola D'Amico, Gianni Santucci: "Quattro coltellate: ebreo con la kippah aggredito a Milano"
Una persona sola, probabilmente un uomo, forse di carnagione chiara e con una capigliatura bionda, il viso parzialmente coperto da un passamontagna: con un imponente spiegamento di forze dell’ordine è caccia all’aggressore che ieri sera, poco prima delle otto e mezza, in viale San Gimignano, periferia sudovest di Milano, stava per uccidere Nathan Graff, 40 anni, di nazionalità israeliana, genero di Hetzkia Levi, uno dei rabbini della comunità ebraica cittadina. Graff è ricoverato all’ospedale Niguarda, con sei ferite da arma bianca: è stato colpito da tre coltellate alla schiena, da una al volto, e da altre due alla gola e a un braccio. Non ci fosse stato un passante intervenuto per difenderlo e gridare, lanciando l’allarme, le conseguenze sarebbero state più gravi, anche se comunque Graff è stato sottoposto a due Tac; uno dei colpi alla schiena è molto profondo mentre quello in faccia rischia di rovinargli il nervo ottico. Viale San Gimignano è in uno dei quartieri più densamente abitati dalla comunità ebraica, che ha chiesto un immediato potenziamento delle misure di sicurezza.
Graff, che si occupa di mense e controlli nel settore alimentare, abita in questa strada. Era arrivato a bordo di un taxi e si era fatto lasciare all’inizio del viale, per percorrere il rimanente tratto a piedi. Indossava la kippah, era «riconoscibile». Oltre al passante che l’ha salvato, ci sono altri due testimoni: una ragazzina e una donna. Delle indagini sull’agguato si occupa la polizia. C’è una telecamera, collocata in una «buona» posizione le cui immagini potrebbero essere determinanti. Se l’aggressore ha agito da solo, nessuno può escludere che ci fosse un complice che lo attendeva in macchina per fargli guadagnare la fuga. Alla moglie, in ospedale, Graff ha raccontato di aver sentito alle spalle i passi di una persona, che ha cominciato a correre per raggiungerlo, e che l’ha accoltellato, sia da dietro sia in viso per poi puntare al collo. Sempre dalla comunità ebraica, senza nascondere la paura e l’angoscia per l’aggressione, escludono categoricamente che Graff abbia dei nemici, sia nella sfera privata che in quella del lavoro; la moglie, raggiunta nei corridoi dell’ospedale, ha ripetuto che è stata «un’aggressione preparata e pianificata, condotta sicuramente da un arabo».
Paolo Conti: "Ci sentiamo tutti minacciati"
Roberto Jarach
«Dobbiamo costatare che l’appello dell’Isis di colpire gli ebrei ovunque si trovino purtroppo sta facendo proseliti». La reazione drammatica viene da Ruth Dureghello, nuova presidente della Comunità ebraica romana. Viene cioè dalla città che, nel 1982, vide il terribile attentato alla Sinagoga di lungotevere Cenci: una matrice molto chiara, il terrorismo palestinese. Furono ferite 37 persone e morì il piccolo Stefano Gaj Taché, al quale ora è dedicato lo slargo davanti al Tempio Maggiore romano. Ma adesso tutti gli occhi sono puntati su Milano e su questo ferimento che sembra la fotocopia di tante immagini che arrivano spesso da Israele. Ancora Ruth Dureghello: «Esprimo tutto lo sgomento della comunità ebraica per il ferimento di Milano. L’uomo fortunatamente non è grave».
Parla anche il suo predecessore, Riccardo Pacifici, a lungo presidente della Comunità romana, la più numerosa tra quelle italiane: «Quando è partita l’intifada dei coltelli avevano promesso di colpire gli ebrei in Israele e in ogni parte del mondo, e lo hanno fatto. Questa è la più grave aggressione avvenuta in Italia dall’attentato del 1982 alla sinagoga di Roma nel quale perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché, di soli due anni». Naturalmente sono reazioni a caldo ma che interpretano il timore diffuso in molti ambienti ebraici italiani. Dice per esempio Roberto Jarach, vicepresidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane: «Eravamo con amici e altri esponenti della comunità quando abbiamo saputo del ferimento. E il primo pensiero è stato: “forse è bene suggerire ai nostri ragazzi di non girare più per le strade con la kippah”».
Ovvero col copricapo usato dai maschi ebrei. Ma subito dopo, dice Jarach, è arrivato un altro pensiero: «No, non dev’essere questa la reazione. Non possiamo ragionare così. Anche perché in Italia non c’è mai stato un timore di questo tipo, anche nei momenti più complicati». Ma è chiaro che il clima, nelle diverse comunità ebraiche italiane, rischia di cambiare sia per le minacce che arrivano dal terrorismo internazionale, come ha detto Ruth Dureghello, sia per l’imprevedibilità dei gesti singoli e isolati, quindi imprevedibili e dunque persino più pericolosi di un progetto organizzato. Dice proprio Jarach: «Ciò che preoccupa è proprio la possibilità di un’imitazione di avvenimenti descritti dai media, soprattutto in televisione. E tutto può essere riproposto qui in Italia, e anche a Milano dove non c’è mai stato un terreno favorevole a gesti organizzati contro la comunità ebraica. Per questo motivo ora dobbiamo ragionare, capire, mantenere i nervi saldi. Non possiamo stare tranquilli, questo è ovvio. Ma non abbiamo alcun elemento concreto per poter affermare che il fenomeno sia in crescita».
Jarach annuncia che la Comunità ebraica si metterà presto in contatto con Sergio Pallavicini, imam e vicepresidente del Coreis, la Comunità Religiosa Islamica Italiana: «Con il suo aiuto speriamo di capire se ci siano elementi di particolare preoccupazione e se lui abbia, per le notizie a sua disposizione, la possibilità di capire il vero contesto di un gesto del genere. Certi gesti sono chiaramente il frutto di alcuni imam senza scrupoli che continuano a predicare la violenza e l’odio contro Israele». La comunità ebraica italiana, che conta circa 35.000 persone (ovvero circa lo 0,06% della popolazione italiana), è chiaramente sotto pressione. Anche perché è impossibile non pensare all’Isis, alle continue minacce del grande terrorismo internazionale. Soprattutto colpisce che tutto questo sia avvenuto a Milano, una città dove tradizionalmente la comunità locale ha sempre vissuto tranquillamente, dal dopoguerra a oggi.
Pierluigi Battista: "I pregiudizi e l'odio"
Pierluigi Battista
Un ebreo colpito da sei coltellate da un uomo incappucciato in periferia a Milano, davanti a una pizzeria kosher, è una notizia che sgomenta e allarma, anche in mancanza di particolari più circostanziati. Quella che viene definita l’«Intifada dei coltelli», del resto, non prevede nella sua carica di odio distinzioni, distinguo: si colpisce l’ebreo come incarnazione del «sionista», dovunque si trovi, per la sola colpa di esistere. In Europa, del resto, sono stati colpiti supermercati kosher, scuole ebraiche, sinagoghe, luoghi di ritrovo, singoli ebrei braccati e assaliti per strada. In Italia, che pure ha conosciuto nel 1982 l’attentato di fronte al Tempio Maggiore di Roma in cui perse la vita un bambino di due anni, speravamo che l’ombra lunga del terrore antiebraico non avrebbe insanguinato le nostre città. È ancora tutto da verificare quello che è accaduto ieri sera a Milano, la dinamica dell’aggressione, l’identità dell’attentatore, lo spunto da cui è partito l’agguato.
Ma la comunità ebraica, e non solo quella di Milano, vive una sindrome terribile di paura. E l’Italia deve preoccuparsi, prendere atto che non esistono zone franche, soppesare le parole, capire che l’odio antiebraico, camuffato da odio antisionista, ha già provocato in Europa lutti atroci in questi ultimi anni. Un segnale, terribile, da non sottovalutare . T utto questo avviene alla vigilia della visita in Italia del presidente iraniano Rouhani. Ogni accostamento con i fatti di Milano, beninteso, sarebbe arbitrario: chi lo sostenesse con leggerezza apparirebbe vittima di una furia propagandistica davvero irresponsabile. Eppure è da una parola carica di angoscia, «odio», che occorre partire per una riflessione che sia capace anche di inquadrare l’agguato all’ebreo accoltellato davanti a un ristorante kosher. Infatti il presidente iraniano Rouhani, nell’intervista esclusiva che ha concesso a Viviana Mazza e Paolo Valentino per il Corriere della Sera , ha detto, testualmente, di «amare l’ebraismo» e di rispettare le «religioni monoteiste».
Un’apertura importante e significativa, quando anche in Europa gli ebrei vengono uccisi dai combattenti fondamentalisti dell’islamismo politico. Un’apertura tanto più importante perché può dare un segnale molto forte nella visita del presidente iraniano in Italia. Tuttavia c’è un «però» che raggela gli animi e torna a demonizzare l’esistenza stessa dello Stato di Israele proprio quando cittadini ebrei e israeliani sono colpiti dall’odio degli accoltellatori, dai militanti del terrore che non fanno distinzione tra «ebrei» e «sionisti». Il presidente iraniano dice di capire «l’odio» non per gli ebrei ma per lo Stato di Israele. Ma non si possono rispettare gli ebrei e odiare il fatto che gli ebrei abbiano un loro Stato: lo Stato di Israele è lo Stato degli ebrei, che la comunità internazionale ha sancito con una risoluzione dell’Onu. Ecco perché le parole di Rouhani, che pure sembrerebbero prendere le distanze dal pregiudizio antiebraico, ricadono nello stesso pregiudizio che ha sempre impedito e continuerà ad impedire la possibilità di una soluzione pacifica dei conflitti nel Medio Oriente.
Quando Arafat e Rabin si sono stretti la mano con Clinton che faceva da paciere, il riconoscimento reciproco sembrava sul punto di offrire una soluzione storica a una guerra interminabile. Perché il riconoscimento della legittimità dello Stato di Israele è la precondizione della pace, ed è la premessa necessaria affinché anche lo Stato di Israele non possa che imboccare la strada maestra dei «due popoli, due Stati». L’alternativa è un «odio» imperituro, l’antiebraismo che si camuffa con l’antisionismo, una guerra che non avrà mai fine. E i fatti come quello di Milano, che aprono interrogativi angosciosi e impongono a tutti di soppesare le parole e di cancellarne per sempre una: «odio».
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