Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/11/2015, a pag. 34, con il titolo "Glucksmann, mente e cuore", l'analisi di Bernard-Henri Lévy; con il titolo "Ostinazione e passioni di un' 'anima bella' ", il commento di Stefano Montefiori.
Sul MANIFESTO e sull' UNITA' di oggi non c'è spazio per alcun articolo su André Glucksmann. Sono gli unici tra i quotidiani nazionali italiani a non pubblicare niente: un silenzio che dovrebbe sollevare domande. Forse i giornali di sinistra tacciono su Glucksmann perché lo considerano un "traditore"?
Ecco gli articoli:
André Glucksmann
Bernard-Henri Lévy: "Glucksmann, mente e cuore "
Bernard-Henri Lévy
Da ieri mattina, nella mia testa, tutti i Glucksmann che ho conosciuto si affollano e mi convocano in zone della memoria che non pensavo dover rivisitare così presto. C’è l’uomo giovane e bello che arringa operai e studenti, forse una decina: la scena si svolge a Parigi, in rue du Bourg-Tibourg, nel 1969 o nel 1970, in un appartamento prestato da un «compagno progressista» per questo incontro «clandestino» organizzato da una cellula della Sinistra proletaria. C’è il Glucksmann stratega e accorto che rivedo mentre va all’assalto di un’aula del liceo Louis-le-Grand per ridisegnare, col gesso, sulla lavagna dove ancora resistono alcuni caratteri di greco antico, le grandi linee dell’Offensiva del Têt e delle raccomandazioni che rivolge, molto seriamente, attraverso noi liceali, al generale vietnamita Giap. C’è il Glucksmann dei beati tempi in cui si poteva ancora credere che la cuoca ha necessariamente ragione contro il mangiauomini (dal titolo del suo libro La cuoca e il mangiauomini , L’erba voglio, 1977, ndt ) e che l’occhio del popolo vede sempre nel modo giusto. C’è il Glucksmann che faceva un po’ paura a Raymond Aron, tanto la sua conoscenza di Clausewitz era al tempo stesso perfetta e implacabile, esauriente ma fatta per cambiare il mondo.
Ricordo un pranzo, nel 1978, in un piccolo ristorante della rue du Dragon che somigliava al vagone di un treno: c’era un signore molto anziano e molto cortese il quale, rendendosi conto dell’uso rivoluzionario che del suo insegnamento stava facendo il migliore dei suoi studenti, sembrava preso dallo stesso sacro terrore di Gide quando incontra per la prima volta Bernard Lazare e si accorge che qualcosa poteva essere posto al di sopra della letteratura. C’è il Glucksmann che incantava Michel Foucault, il quale scorgeva, nei furori di André, l’esatta traduzione del suo assioma secondo cui all’inizio non c’è il potere, ma lo spirito di resistenza: il sorriso di Foucault; la gioia di Foucault. E un altro pranzo, più o meno nello stesso periodo, quando, mentre Glucksmann associava Sartre e Solženitsyn, lo spirito della Resistenza francese e quello dei refrattari del Gulag, l’autore di Sorvegliare e punire scrisse su un angolo della tavola la bozza dell’articolo sul saggio di André I padroni del pensiero (Garzanti, 1977) che con il titolo La grande colère des choses avrebbe consegnato alla rivista che si chiamava ancora «Le Nouvel Observateur». C’è il Glucksmann che ha smesso di credere alla rivoluzione, ma non ha mai smesso di andare in collera. Una collera che in lui era come una seconda natura e imprimeva a ogni sua minima dichiarazione lo stesso tono di anatema e di rabbia. C’è il Glucksmann stratega e quello indignato, che andavano di pari passo; in lui c’era come un duplice respiro che passava dal cuore al cervello e viceversa.
Rivedo noi due, una sera di maggio del 1977, mentre percorrevamo la rue Cognac Jay, a Parigi, verso gli studi televisivi di Bernard Pivot: c’era la nostra editrice Françoise Verny, un Maurice Clavel stanco, titubante, e sul punto di passargli il testimone; sono convinto che fu allora, camminando, che gli venne in mente la famosa formula che, prima di fare il giro del mondo, fece soffiare un inaudito vento di rivolta sul tranquillo set della trasmissione letteraria di riferimento: «Le tribune del programma comune sono vuote». C’è il Glucksmann fedele ai suoi genitori immigrati, che attraversano l’Europa in fiamme, devastata dai nazisti: ho sempre pensato che si trovasse lì la sua linea di fedeltà e di vita. C’è il Glucksmann intransigente sui diritti degli umili non meno che sul disgustoso riflesso dell’orgoglio che gli faceva orrore nella gente potente e saccente: mai un’oncia di populismo, ma la scelta di quel piccolo che nell’uomo è secondo lui la vera grandezza.
Si dice, di alcuni scrittori, che inventano un cliché; ho avuto l’impressione, un giorno del 1995, che lui stesse inventando un popolo: infatti chi, all’epoca, a parte i lettori di Tolstoj, aveva sentito parlare del popolo ceceno e della nuova stagione infernale in cui stava precipitando? Non aveva forse la strana abitudine, del resto, di ringraziarvi quando scrivevate «ceceno» in un articolo o di mandare un telegramma quando citavate Solženitsyn? Lo rivedo, in un anfiteatro di Città del Messico, mentre spiegava a una folla di studenti ancora castristi che era Castro che bisognava scambiare contro Pinochet: la folla brontola, gli insulti piovono; proiettili arrivano fin sul podio ed ecco che ha l’idea di proporre l’instaurazione di un «soviet nella sala» con tempo di parola uguale e alternato per loro e per noi; in prima fila, sua moglie Fanfan, che non so bene se bevesse le sue parole o gliele suggerisse.
Sento ancora chi lo derideva perché si occupava troppo dei ceceni, dei bosniaci, dei libici, degli ucraini, dei georgiani e di altri odierni dannati della terra; e lo rivedo quando osservava con tristezza e perplessità quelli fra i suoi pari che sembravano in effetti ritenere che il mondo girasse attorno alle nostre elezioni regionali e cantonali, all’identità francese minacciata o al cosmo ridotto alle frontiere della provincia gallica. C’è il Glucksmann che aveva ragione e il Glucksmann cui accadeva anche, con lo stesso fervore e lo stesso sentimento di essere nel vero, di sbagliarsi. La grande differenza rispetto ad altri, a molti altri, è che lui lo diceva, andava fino in fondo allo smarrimento di un attimo, e aveva la religione dell’errore pensato, meditato, rivoltato: ricordo la nostra conversazione, nel gennaio del 2007, in cui mi annunciava la sua decisione di sostenere Nicolas Sarkozy; e quella di alcuni anni dopo, quando la causa dei Rom e di altre persone umili gli fece cambiare opinione.
C’è il Glucksmann che nessuna contrarietà, nessuna sconfitta, nessuna verità cosiddetta rivelata dai sedicenti esperti ha mai dissuaso dal rimanere fedele al suo modo di pensare il mondo. Ho sotto gli occhi il magnifico testo che mi affidò un giorno in cui avevamo progettato, l’anno scorso, di andare insieme nella piazza Maidan, a Kiev: «Mi chiamo André Glucksmann, dicono che io sia un filosofo; solo la malattia mi impedisce di essere fra voi; ma vi ho donato il meglio di me, mio figlio Raphaël, che è rimasto al vostro fianco, sulle vostre barricate, e che attualmente è da voi, vicino a voi, per accompagnarvi nel vostro straordinario cammino verso l’indipendenza, la libertà, la democrazia».
Ed ho le immagini di lui, dolorose, con Mikhail Khodorkovsky appena uscito dal Gulag di Putin. Non lo vedevo da molto tempo: l’ho trovato fragile, emaciato, un po’ triste; camminava a piccoli passi, non usciva quasi più da casa, ma era bello, sempre bellissimo e, soprattutto, erano intatte la sua rivolta, la sua collera fredda contro i nuovi «moschettieri» (i vassalli di Mosca) della destra europea, e la vergogna che ci ispirano. C’è il Glucksmann con cui m’è capitato di litigare, ma quello non fu mai, come dicevano i nostri maestri, che un altro modo di vivere insieme. C’è il Glucksmann unico nel mettere alla gogna uomini o donne che assomigliavano, un poco, a quello che egli era stato e che pensava di aver congedato: ma ne siamo così sicuri? E la veemenza non era uno dei mezzi per essere fedele a se stesso? Di tutte queste immagini, non so quale mi commuova maggiormente. Quando un uomo muore, non sappiamo mai quale sia la parte che svanisce, come la parte degli angeli, e quale sia quella che rimane e fa di lui il nostro contemporaneo decisivo.
(traduzione di Daniela Maggioni)
Stefano Montefiori: "Ostinazione e passioni di un' 'anima bella' "
Stefano Montefiori, Raphael Glucksmann
A dare la notizia della morte di André Glucksmann è stato il figlio Raphaël, su Facebook. «Il mio primo e migliore amico non c’è più. Ho avuto la fortuna incredibile di conoscere, ridere, dibattere, viaggiare, giocare, fare tutto e niente con un uomo così buono e formidabile. Ecco, mio padre è morto ieri sera». In Francia l’emozione è grande per la scomparsa del filosofo 78enne. Il presidente della Repubblica François Hollande ha salutato il grande intellettuale «che portava in lui tutti i drammi del XX secolo» e che «figlio di rifugiati negli anni Trenta, ha messo la sua formazione al servizio dell’impegno pubblico per la libertà». Daniel Cohn-Bendit ricorda quando l’allora presidente Valéry Giscard d’Estaing invitò Glucksmann all’Eliseo mentre lui si trovava in Germania e aveva il divieto di entrare in Francia. Il filosofo scrisse una lettera aperta su «Le Monde» per dire al presidente che non sarebbe andato a pranzare all’Eliseo finché non fosse stato tolto il divieto contro l’amico, protagonista con lui del Maggio Sessantotto.
«André è una persona gentile e dolce — ha aggiunto Cohn-Bendit a “Libération” —. Non si litiga con lui, si discute. Mi aspettavo la sua morte, era molto debole, non ne poteva più. Ma quando l’ho saputo è stato uno choc. Ho detto a mia moglie: “Ecco, non si potrà più discutere. Manca un anello nella catena del dibattito. Questo anello non ci sarà mai più. E questo mi rende profondamente triste”». In Voltaire contre-attaque , il suo ultimo libro pubblicato nel settembre 2014, sorta di testamento filosofico, Glucksmann si scagliava contro l’abitudine ormai diffusa che consiste nel tacciare di ipocrisia e scollamento dalla realtà quanti ancora — come faceva lui — si ostinano a difendere i diritti dell’uomo, tutti accusati di essere sognatori, «anime belle» irresponsabili, magari da scomunicare sbrigativamente come «radical chic» qualora siano schierati a sinistra. Glucksmann non è mai stato irreggimentato, non ha mai ceduto alla pigrizia del conformismo intellettuale. Ha cominciato a criticare la sinistra negli anni Settanta, quando da nouveau philosophe con Bernard-Henri Lévy denunciò gli orrori dell’Unione Sovietica, considerandoli non una cattiva applicazione di una ideologia nobile, ma l’espressione tragicamente conseguente del marxismo. Nell’ottobre di un anno fa, Glucksmann aveva concesso al «Corriere della Sera» , il giornale con il quale collaborava da oltre trent’anni, una delle sue ultime interviste, nella quale criticava la chiusura verso i migranti e l’ossessione per l’identità nazionale della Francia. Il suo eroe era il figlio Raphaël, prima pronto a difendere le ragioni dell’apertura al mondo e del cosmopolitismo a Tbilisi e a Kiev, come consigliere dei presidenti georgiano e ucraino, e poi autore di un fortunato «manuale di lotta contro i reazionari». Per André, Raphaël era «il meglio di me».
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