Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 05/11/2015, a pag. 1-36, con il titolo "La fiction sulla Shoah che divide l'Occidente", la recensione di Bernardo Valli.
Bernardo Valli
La locandina
È arrivato nelle sale, a Budapest e a Parigi, dopo essere stato premiato a Cannes in maggio, “Il figlio di Saul”, film del giovane ungherese László Nemes. E subito suscita critiche passionali e riaccende gli interrogativi sull’opportunità di rievocare l’ Olocausto attraverso fiction spettacolari. Per gli uni un Auschwitz di cartapesta, ricostruito in uno studio sia pure con grande realismo non è una scena da esibire sullo schermo. Al contrario, per gli altri, un regista abile e sensibile, quale è il regista ungherese, può compiere un’impresa esemplare nel raffigurarlo. Ridurre la Shoah a una fiction? Già Steven Spielberg, che aveva affrontato l’Olocausto con La lista di Schindler , basandosi su una vicenda vera, era incorso nei fulmini di Claude Lanzmann, uno dei più autorevoli e severi esperti della tragedia ebraica. Anzitutto autore di Shoah , il celebre documentario- testamento. Ma questa volta Lanzmann, 89 anni, ha difeso la fiction di Nemes. Perché nel suo film non fa vedere la morte degli ebrei, ma la vita di coloro che erano costretti a condurli alla morte. Per lui, per Lanzmann, il regista ungherese non ha voluto dunque mostrare l’impossibile, vale a dire quello che avveniva nelle camere a gas. In Shoah Lanzmann raccoglie testimonianze dirette, non esibisce immagini che possono essere contestate sempre più col tempo.
Un fotogramma del film
La questione è essenziale. Come trasmettere un avvenimento una volta esauritasi la memoria dei contemporanei e moltiplicandosi il numero dei negazionisti? Ci sono tanti modi di vedere la Shoah. Di viverla. È impossibile non ricordare due grandi sopravvissuti allo sterminio. Uno scrittore e un poeta. Primo Levi e Paul Celan. Due opposti sguardi. Levi fa un racconto razionale dell’esperienza personale. Celan scrive versi ermetici, avvolti in una tragica nebbia da cui affiora il senso di colpa per non avere subito la sorte dei suoi. Entrambi si sono suicidati. Il personaggio principale del film, Saul, è un ebreo ungherese, membro del Sonderkommando di Auschwitz nell’autunno del 1944. In quella tarda stagione della guerra, con l’arrivo dei tedeschi, quattrocentomila ebrei, salvati fino allora, vengono uccisi in Ungheria con la decisiva partecipazione alla strage dei collaborazionisti locali. Quelli del Sonderkommando sono prigionieri incaricati dai nazisti di partecipare allo sterminio: devono spogliare i compagni, recuperare e riordinare abiti e oggetti, portare i cadaveri dalla camera a gas al crematorio, e poi disperderne le ceneri. Sanno che dovranno morire a loro volta. Sono testimoni da sopprimere.
Il regista Laszlo Nemes
Il figlio di Saul, che forse non è il vero figlio, ma un giovane sul quale il deportato ha posato uno sguardo paterno, esce dalla camera a gas che respira ancora. È un miracolo cui mette fine un medico nazista. Saul cerca allora di proteggere il cadavere, vuole evitare che finisca nel crematorio, e tenta di sepellirlo secondo il rito ebraico. Salvando il morto Saul salva se stesso, condannato all’orribile sorte di condurre la gente della sua stessa religione al supplizio finale. Nella folla dei prigionieri vorrebbe trovare un rabbino che possa recitare il kaddish. Ma scoppia una rivolta che fa fallire il progetto. La macchina da presa segue la ricerca disperata di Saul puntando ogni tanto l’obiettivo su quel che accade attorno a lui. Sono gli scorci di Auschwitz. Lanzmann considera Il figlio di Saul l’ anti Lista di Schindler . L’opposto. Il film di Spielberg era a suo avviso condannabile perché si arrogava il diritto di mostrare i morti, ossia quel che accadeva nell’indescrivibile intimità dell’orrore.
Claude Lanzmann
Lazlo Nemes non mostra invece la morte, ma appunto la vita di coloro che sono costretti a condurre i correligionari alla morte. Ricorda Jacques Mandelbaum ( Le Monde ) la disputa tra Claude Lanzmann e lo storico Clément Chéroux in occasione di una mostra, promossa da quest’ultimo sulla «Memoria dei campi». Nell’esposizione figuravano quattro fotografie prese clandestinamente da uno del Sonderkommando di Birkenau nell’agosto del ’44, in cui si vedevano file di ebrei ungheresi diretti alle camere a gas. Le immagini e il testo che le accompagnava avvalorava l’indiscutibile prova di quelle immagini. E contrastava con la tesi di Lanzmann sulla impossibilità di raffigurare l’Olocausto e di provarne l’autenticità attraverso immagini, sempre più discutibili col passare del tempo. Per questo nella sua Shoah ci sono soltanto incontestabili testimonianze dirette di sopavvissuti o di contemporanei. Il premio di Cannes è meritato. Le sale ungheresi si riempiono da settimane. E quelle parigine erano ieri affollate per la prima visione. Ma non mancano le proteste. Un quotidiano ( Libération ) si interroga sull’opportunità di fare di Auschwitz uno spettacolo. E non mancano i critici che ritengono eccessivo lo sforzo (“amorale”) di un bravo regista nel rappresentare una delle più grandi degenerazioni della storia. Ma non è facile stabilire i confini da non superare nel rievocare la tragedia umana.
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