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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
03.11.2015 Iran: storie di artisti perseguitati dal regime
Commento di Francesco Battistini, Alessandra Baduel intervista il regista Kaywan Karimi

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Francesco Battistini - Alessandra Baduel
Titolo: «L'Iran ama la poesia ma castiga i poeti - Io, condannato per un film a Teheran, rischio 223 frustate»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/11/2015, a pag. 29, con il titolo "L'Iran ama la poesia ma castiga i poeti", il commento di Francesco Battistini; dalla REPUBBLICA, a pag. 21, con il titolo "Io, condannato per un film a Teheran, rischio 223 frustate", l'intervista di Alessandra Baduel al regista iraniano Keywan Karimi.

Ecco gli articoli:

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CORRIERE della SERA - Francesco Battistini:  "L'Iran ama la poesia ma castiga i poeti"

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Francesco Battistini

«Due silenzi fanno una voce». Profetica o predestinata, come accade ai poeti, Fatemeh componeva versi immaginando appena le conseguenze. Anni fa scriveva Corri per i ragazzi dell’Onda Verde, quelli che correndo per le strade di Teheran s’illudevano d’arrivare a un Iran meno reprimente e deprimente, e forse non sapeva che la corsa prima o poi sarebbe finita. Coi suoi 31 anni e i capelli verdi sotto il velo, Fatemeh Ekhtesari è stata ridotta all’immobilità e al silenzio. Lei assieme a Mehdi Mousavi, 44 anni. Due poeti. Inquisiti per avere stretto la mano a persone dell’altro sesso, durante un festival in Svezia. Incolpati d’aver offeso la religione, non è ben chiaro come, e messo in pericolo la sicurezza dello Stato. Incarcerati. Isolati. Alla fine condannati. Novantanove frustate a testa (già eseguite), come i 99 nomi di Allah che avrebbero insultato. Vent’anni di galera in due (già esecutivi), undici e mezzo a lui e nove a lei. I loro due silenzi sono diventati davvero una voce. Quella di altri 116 poeti di tutto il mondo che hanno detto sì all’appello del Pen American Center e scritto una lettera aperta alla Guida suprema Ali Khamenei: l’uomo che non risponde mai a una domanda dei giornalisti, figurarsi a una petizione degli scrittori.

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Fatemeh Ekhtesari

Prima firma Ali Kazim, indiano d’origine come Salman Rushdie. Ultima Matvei Yankelevich, poeta di Brooklyn. I 116 ci contano e chiedono la grazia per Fatemeh e Mehdi, ma senza rivolgersi al capo dello Stato. No, loro parlano da colleghi a collega: «Come poeta e studioso di poesia, ci appelliamo a lei…». Si sa che il versetto, possibilmente elegiaco e non satanico, è un vizietto che molti autocrati praticano. Il giovane Khomeini ne scriveva addirittura d’erotici (poi rinnegati) e i persiani hanno da sempre una venerazione per il Poeta purchessia, dall’immenso Ferdowsi in giù. La Guida suprema componeva in seminario, «mia madre mi leggeva Hafez», e oggi si vanta di conoscere almeno duemila auto-ri, d’amare i russi e i francesi, di convocare gli aedi a palazzo per ascoltarli recitare…

È probabile che Khamenei non apprezzi granché una collega che scrive di doglie e d’aborti, una che ispira i rapper del dissenso con la sua Discussione femminista prima di cuocere le patate. Idem per le liriche sociali di Mehdi Mousavi e il suo Movimento di resistenza dalla mia scrivania. Ma se la poesia è eversiva perfino nella più innocua delle rime, dicono i 116, «il semplice atto di scriverne non può essere considerato un crimine». Scendendo dal Parnaso a Teheran, però: non è che la poesia c’entri granché, in questa storia. Le frustate sono solo la prosa dolente dei duri di regime contro qualsiasi dissenso. Contro il presidente Rouhani e le sue aperture agli Usa. Contro le concessioni sul nucleare. L’aria sta cambiando in Iran e il vecchio imperatore non s’accontenta più dell’uccellino in gabbia. Lo vuole proprio muto. I due silenzi siano pure una voce, ma nel deserto.

LA REPUBBLICA - Alessandra Baduel: "Io, condannato per un film a Teheran, rischio 223 frustate"

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Keywan Karimi

«Non riesco a capire: ho fatto tutto chiedendo i permessi alle autorità». Cita Kafka, Keywan Karimi: lo hanno condannato a sei anni di carcere e 223 frustate e ora attende il risultato dell’appello. Le imputazioni di propaganda contro il governo e “insulto al sacro” riguardano apparentemente l’ultimo lavoro del giovane documentarista curdo iraniano, l’inedito Writing on the City , su ciò che, fra scritte e murales, è passato sui muri di Teheran dalla rivoluzione khomeinista a quella verde. Mentre partiva la mobilitazione per salvarlo, con anche una petizione di eurodeputati, altre condanne hanno colpito i poeti Fatemeh Ekhtesari e Mehdi Mousavi - e ieri sono stati arrestati i giornalisti Isa Saharkhiz ed Ehsan Mazandarani. A soli trent’anni, Karimi è stato premiato in vari festival internazionali, anche per The Adventure of a Married Couple , nato da un racconto di Italo Calvino. Arrestato nel 2013 e liberato su cauzione, è stato all’estero, ma ora risponde da Teheran. «Sono tornato: voglio vivere qui, amo questo paese. E ho sperato, anzi spero ancora, che con l’accordo sul nucleare tante cose possano cambiare».

Karimi, cosa è successo? «Preparando Writing on the City , nel 2012, ho fatto lunghe ricerche per il materiale d’archivio, chiedendo sempre i permessi, come li ho chiesti per le scene dal vivo a Teheran. Li ho anche portati ai giudici. Sapevano bene cosa stavo facendo. Il documentario non è neppure uscito, c’è solo il trailer».

Qual è l’obiettivo? «Raccontare ai giovani la storia iraniana: loro non ne sanno nulla, i libri e la tv descrivono una storia rielaborata. C’è un’abitudine a modificare la storia. Ma ora forse in Iran cambierà anche questo».

L’accusa di “insulto al sacro” cosa può riguardare? «Forse solo una foto che avevo nel computer, in cui bacio mia cugina sulla guancia».

Come nasce la sua passione? «Con me. Sono di Baneh, città dell’area curda al confine con l’Iraq. Mio padre ha un negozio di abiti, mio fratello è fotografo. Ho studiato comunicazione e sociologia a Teheran poi ho fatto vari workshop all’estero: India, Germania, Thailandia, Russia. Io sono un sociologo, un critico del potere, un socialista e poi anche un documentarista. Nel 2005 ho filmato il dramma del terremoto. Poi Broken Border , sul contrabbando di benzina dall’Iran all’Iraq, ha vinto vari premi. Il mio obiettivo è sempre lo stesso: dare voce alla gente che non ne ha. E ora continuo a pensare che ci sia un grosso fraintendimento, non vedo nulla che mi incolpi».

Nel trailer ci sono immagini della polizia che colpisce gli studenti nel 2009, forse si tratta di quello? «Ma non le ho girate io. Mi hanno accusato di essere stato presente, invece non c’ero. Ho appunto usato materiale d’archivio. E non sono contro il mio paese. Certo, sono critico, ma voglio costruire, non distruggere. Solo, spero che in Iran, dopo il patto sul nucleare, arrivino anche migliori condizioni per gli artisti, le donne, la libertà d’espressione».

Dov’è ora il documentario? «All’estero. Mi auguro che verrà pubblicato anche se io dovessi finire in carcere».

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