Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/10/2015, a pag. 1-21, con il titolo "Obama il guerriero riluttante", l'analisi di Maurizio Molinari; dal GIORNALE, a pag. 12, con il titolo "Il pacifismo di Obama è ufficialmente in crisi", l'analisi di Paolo Guzzanti.
Ecco gli articoli:
Barack Obama
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Obama il guerriero riluttante"
Maurizio Molinari
Truppe speciali verso Siria e Iraq, prolungamento della missione in Afghanistan e il ritorno in agenda degli interventi di terra. Il presidente americano Obama è obbligato a rivedere la propria strategia militare a causa della natura dei conflitti in corso.
Per comprendere l’entità del ripensamento che tiene banco a Washington bisogna partire da quanto sta avvenendo sui campi di battaglia, da dove si originano fatti che aggrediscono le convinzioni dell’amministrazione. In Siria Obama ha puntato sulla combinazione fra guerra aerea e Cia per sconfiggere Isis e far cadere Assad ma il risultato è il collasso dei gruppi di ribelli addestrati da Langley e la carenza di obiettivi per i raid in quanto i jihadisti vivono sotto le tende e operano a piccoli gruppi. In Iraq è andata peggio perché Isis si è rafforzato, estendendo il controllo dei territori fino a Ramadi, a 100 km da Baghdad. Non sono errori tattici ma strategici: Obama ha scelto di combattere Isis applicando il modello di guerra formulato da John Brennan, attuale capo della Cia, ovvero intelligence hi-tech per individuare il nemico e poi eliminarlo con droni, aerei e, se indispensabile, truppe speciali.
È in questa maniera che nella notte del 1 maggio 2011 è stato eliminato Osama bin Laden, evidenziando il successo della «guerra segreta» ad Al Qaeda iniziata nel 2009. Tale «guerra segreta» è stata teorizzata e realizzata da Brennan per andare incontro all’esigenza di Obama di combattere i terroristi senza più impiegare l’esercito convenzionale, come invece aveva fatto George W. Bush in Iraq ed Afghanistan. È stata una formula vincente contro Al Qaeda ma nei confronti di Isis ha fatto flop perché il nemico è tornato a combattere in maniera convenzionale, che in questa regione significa tribale. Isis occupa città, riscuote tasse, gestisce confini, dispone di tribunali e polizia urbana. Se Al Qaeda l’11 settembre 2001 lanciò una guerra «asimmetrica» contro gli Usa, basata su attentati, Isis oggi controlla un territorio esteso quanto la Gran Bretagna. È un avversario convenzionale ed ha innescato un conflitto tribale con quasi 5000 gruppi armati che si combattono villaggio per villaggio.
L’errore commesso da Obama è stato di combattere contro Isis la guerra precedente, vinta contro Al Qaeda, ignorando chi - al Pentagono ed al Congresso - da tempo gli chiede di adattarsi al nuovo nemico. A ben vedere anche il presidente russo, Vladimir Putin, si scontra con un conflitto più difficile del previsto. I suoi comandi avevano immaginato di usare raid massicci per far avanzare i siriani, sostenuti da iraniani ed Hezbollah, travolgendo i ribelli. Ma a quattro settimane dall’inizio dei raid ben quattro offensive di terra siriane non sono bastate perché i ribelli - sostenuti da Turchia, Arabia Saudita e Qatar - applicano la stessa tattica di Isis usando però armi più moderne, come i missili anti-tank Tow. Avanzare è arduo perché si combatte ovunque, in maniera feroce e senza un linea del fronte. Come fanno le tribù del deserto.
Il volume di informazioni raccolte dalla sala operazioni di Tampa, sede del Comando Centrale Usa, ha convinto il generale Joseph Dunford, capo degli Stati Maggiori Congiunti, che la svolta non è più rinviabile: bisogna combattere a terra. Un veterano della Guerra Fredda come John McCain, ex prigioniero in Vietnam, sostiene che «servono 10 mila marines» per battere Isis. Se i generali del Pentagono hanno convinto il Segretario alla Difesa, Ashton Carter, ad informare il Congresso sulla necessità di «rafforzare lo schieramento a ridosso della prima linea» è perché l’errore del tandem Obama-Brennan sta causando un domino di cocenti sconfitte. Nelle ultime 12 settimane prima la resa dei ribelli Cia, poi l’intervento russo e infine la scelta di Baghdad di aprire ai raid russi hanno disegnato un indebolimento americano in accelerazione, trasformando Putin nel regista regionale. L’Afghanistan rafforza tale lettura perché i taleban nel blitz di Kunduz hanno dimostrato di voler anch’essi controllare aree territoriali: non fuggono nelle caverne, vogliono riprendersi le città. Dunque anche qui servono truppe di terra.
Il presidente si trova così, controvoglia, a pianificare con i generali interventi - più o meno estesi - che non condivide. È uno scenario che lo espone a rischi ed errori. Anche perché i generali del Pentagono diventeranno sempre più loquaci e determinati: per candidarsi a guidare le scelte militari che spetteranno al prossimo presidente degli Stati Uniti.
IL GIORNALE - Paolo Guzzanti: "Il pacifismo di Obama è ufficialmente in crisi"
Paolo Guzzanti
A Barack Obama è stato assegnato il premio Nobel per la Pace. Non è uno scherzo
L'America (più assenteista che pacifista) guidata dal premio Nobel per la pace Barack Obama si trova di fatto coinvolta in ben quattro teatri di possibile guerra (tre con la Russia e uno con la Cina) ciascuno dei quali è potenzialmente pericoloso quanto lo furono nel secolo scorso le revolverate dell'anarchico Gavrilo Princip che uccisero l'arciduca Ferdinando d'Austria e sua moglie intrappolati in un vicolo cieco di Sarajevo. Questi coinvolgimenti americani sono in parte dettati dai fatti, ed è il caso della Siria, e in parte scatenati da una reazione dei comandi militari (è il caso dello scenario est-europeo) e della marina militare sul piede di guerra in due oceani. Obama non può sottrarsi alla mischia e il suo proclamato pacifismo è in crisi. Il primo teatro di guerra è ovviamente quello siriano-iracheno: Obama è deciso a portare soldati in carne e ossa là dove li aveva inviati l'odiato George W. Bush, cavandosela con la battuta secondo cui non sbarcheranno «boots on the ground» (truppa con scarponi militari) ma sneakers, agili scarpe da truppe speciali fra cui i Seals e la Delta Force che scalpitano da tempo per entrare nella mischia.
Il secondo scenario di guerra è quello cinese, dopo che il cacciatorpediniere USS Lassen è andato deliberatamente a mostrare cannoni e bandiera a dodici miglia nautiche dalle basi militari poggiate su isole artificiali. La furia degli ammiragli cinesi è esplicita: se dovesse ripetersi, spariamo. Il punto politico della questione è che il presidente ha deciso a sangue freddo di sfidare Pechino in nome del diritto di libera navigazione che nella tradizione anglosassone vale come casus belli. Il terzo scenario è ancora marittimo, nell'oceano Atlantico dove lo spionaggio della marina americana ha dato l'allarme a causa della inusuale presenza di navi russe lungo i tracciati dei cavi sottomarini che uniscono l'America all'Europa e che portano tutti i dati via Internet, flussi finanziari e commerciali. Il taglio di quei cavi costituirebbe una catastrofe per Europa e Stati Uniti. A detta della Cia, alcune navi russe possono sganciare due piccoli sottomarini armati di cesoie.
Questa situazione ha fatto saltare i nervi alla Norvegia che si trova al terminal di molti cavi e che è ossessionata dalla minaccia russa. E qui arriviamo allo scenario più pericoloso anche se meno rumoroso: quello dell'Est e Nord Europa. Obama, si è pentito di aver fatto ritirare quasi tutti i soldati americani schierati durante la guerra fredda (trecentomila uomini fino al 2000, oggi ridotti a meno di trentamila) e cerca di costituire una armata fantasma con cui intimorire i russi in caso di nuove crisi come quella ucraina. Portare nuovi uomini e mezzi dall'America costerebbe troppo e il Congresso non autorizzerebbe mai spese del genere in un anno elettorale. E così gli elicotteri Black Hawks che servirebbero in Germania sono negli hangar di Fort Stewart in Georgia. Nel Congresso e nell'opinione pubblica americana è poi sempre più forte il sentimento antieuropeo di chi non vede perché «grassi e ricchi Paesi europei non possono pagarsi la difesa di cui hanno bisogno senza mettere le mani nelle tasche del contribuente americano». A Hohenfels in Germania il generale Ben Hodges, comandante delle truppe americane in Europa dichiara al New York Times: «Devo farmi prestare gli elicotteri dagli inglesi, la difesa aerea dagli ungheresi, i ponti dai tedeschi».
La nuova dottrina della Casa Bianca è dunque convulsa e scatenata su molti tavoli dopo l'impressionante exploit di Putin in Medio Oriente. Il comandante Hodges dice che le prossime partite militari si giocano sulla velocità: «Chi arriva primo, vince. I secondi o si ritirano o devono passare al gioco pesante». Come se non bastasse, fonti della destra repubblicana sostengono che i russi stanno portando in Siria dei battaglioni cubani, proprio mentre fra l'Avana e Washington si celebra la luna di miele della ritrovata amicizia. C'è chi prevede battaglie fra istruttori americani e truppe d'assalto cubane e sarebbe un grosso guaio. Gli Stati Uniti sono dunque pervasi da nervosismi e ripensamenti, psicologicamente sopraffatti dalle azioni militari russe e divisi fra isolazionisti e interventisti. I secondi guadagnando terreno proprio mentre Obama passa da una dottrina di pace ad ogni costo a quella molto più rischiosa della guerra possibile.
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