Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 24/10/2015, a pag.15 e 27, due articoli di Lorenzo Cremonesi e Bernard-Henry Lévy sulla situazione siriana.
Lorenzo Cremonesi: " Russi e americani trattano sulla Siria "
Lorenzo Cremonesi
Passo dopo passo, la Russia di Putin tesse la sua tela per tomare al centro della scena mediorientale. Non è certo ancora come ai tempi dell'Urss nella Guerra fredda, tuttavia i colloqui nella capitale austriaca ieri tra il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, l'americano John Kerry e gli omologhi turco e saudita, oltre a quello giordano visto separatamente, sono tornati ad evidenziare la nuova centralità di Mosca nei giochi politici regionali. Primo risultato è l'apertura di un canale di dialogo concreto tra i russi e il mondo arabo sunnita. Lo dimostra la decisione annunciata in serata di creare un «centro di coordinamento militare» russo-giordano ad Amman. «In base ad un accordo tra re Abdallah e il presidente Putin, gli eserciti dei nostri due Paesi hanno stabilito di coordinare le loro azioni, incluse le missioni di aerei militari sul territorio siriano», ha dichiarato Lavrov dopo l'incontro con il giordano Nasser Judeh. Il passo è significativo. Sino ad ora infatti Mosca è stata vista dalla comunità internazionale come grande alleata del fronte sciita. Il legame politico-militare con Teheran (sebbene non incondizionato) e soprattutto il pieno sostegno al regime di Damasco con la scelta alla fine di settembre di bombardare le milizie ribelli al fianco dei soldati siriani sono percepiti in particolare dai Paesi arabo-sunniti come una sfida aperta ai loro interessi. E l'intensificarsi della guerra civile interreligiosa all'interno del mondo islamico, oltre all'incancrenirsi del conflitto in Iraq con Mosca pronta a cooperare con il governo sciita a Bagdad, hanno contribuito a rafforzare tale percezione. Martedì scorso l'incontro a Mosca tra Putin e il presidente siriano Bashar Assad aveva tra l'altro scatenato dure proteste nelle maggiori capitali sunnite. In questo contesto, l'apertura giordana a Mosca potrebbe avviare nuove prospettive di cooperazione. Amman decise di intensificare la sua partecipazione ai bombardamenti sulla Siria assieme alla coalizione a guida Usa dopo il video diffuso da Isis all'inizio di quest'anno in cui sembrava venir bruciato vivo un pilota giordano il cui aereo era caduto nella zona di Raqqa. E adesso i giordani presentano le nuove intese con Mosca come compatibili con il loro coordinamento con Washington. Ieri Lavrov ha invitato sauditi e turchi ad unirsi ai giordani contro Isis. Tutto ciò sembra non preoccupare troppo gli americani. Anzi, a Vienna potrebbero essere state poste le basi per una cooperazione su larga scala. Lo stesso Kerry ha presentato i colloqui di ieri come i primi di una lunga serie, con un nuovo incontro possibile venerdì prossimo, allargato ad altri Paesi, non escluso l'Iran: «L'incontro è stato costruttivo e produttivo. Sono emerse alcune idee che potrebbero cambiare le dinamiche», ha dichiarato prima di partire alla volta di Amman. Ma incognita numero uno, potenzialmente in grado di far fallire qualsiasi intesa, resta il destino di Assad. E su questo le posizioni sono radicalmente diverse. Stati Uniti, Turchia e Arabia Saudita sono granitici nella convinzione che il presidente siriano sia parte integrante del problema Siria e la sua rimozione il prima possibile sia condizione necessaria per qualsiasi soluzione. «Assad costituisce una dinamica incompatibile con la pace», ha commentato Kerry. Al contrario, Lavrov ha ribadito il sostegno di Mosca al presidente siriano e si è dilungato nel definire «voci false» le notizie trapelate negli ultimi giorni per cui l'incontro di Vienna avrebbe tra l'altro cercato formule per un governo di transizione a Damasco. «I nostri partner hanno alcune ossessioni nei confronti del presidente siriano, ma noi confermiamo le nostre posizioni», ha specificato, ricordando che lo stesso Putin aveva scartato come «foriero di gravi crisi» qualsiasi tentativo di rimuovere Assad nelle circostanze attuali.
Bernard-Herny Lévy: " Perchè non ci possiamo fidare del metodo Putin per risolvere il rebus Siria "
Bernard-Henry Lévy
Non esiste, certo, una buona soluzione in Siria. Più esattamente, non esiste più una buona soluz'one, da quel sabato nero di fine agosto del 2013, quando l'opposizione moderata ancora reggeva, quando lo Stato Islamico non era ancora uscito dal limbo e quando Barack Obama, con uno stupefacente voltafaccia, rinunciò, in extremis, a bloccare la macchina da guerra di Damasco che aveva appena superato la linea rossa, da egli stesso fissata, dell'utilizzo di armi chimiche. Tuttavia, nell'inferno delle cattive soluzioni, ce n'è persino una peggiore, forse la peggiore di tutte: è quella di Vladimir Putin. I caccia russi Sukhoi hanno preso di mira, per prima cosa, le regioni di Idleb, Homs e Hama, zone in cui — secondo tutti gli osservatori indipendenti, «jihadwatchers» e altri, che lanciano allarmi scrutando filmati messi on line dalle stesse autorità russe — lo Stato Islamico non si è impiantato. Ciò vuol dire che il loro obiettivo, perlomeno in un primo tempo, non erano gli jihadisti ma l'insieme dell'opposizione, compresa quella democratica, al regime di Bashar al-Assad. Lo scopo appena velato di questo intervento non è di contribuire alla dotta contro il terrorismo» che la comunicazione politica del Cremlino invoca, ma di rimettere in sesto, costi quel che costi, il regime che lo ha generato. Più precisamente, lo scopo è di salvare, dopo averla sostenuta impiegando grandi sforzi, una dittatura che la diplomazia americana e quella francese ritengono, a ragione, responsabile non solo del rafforzamento dell'Isis, che era l'ultima carta di Assad per apparire agli occhi del mondo come un minor male e come un baluardo, ma della morte di 260.000 uomini, donne, bambini vittime della sua follia criminale. Si dirà che il passato è passato e che, tenuto conto del disastro generale, l'intervento russo avrà almeno il merito di fermare la catastrofe? No. Infatti, visto che l'offensiva viene portata avanti «alla Putin», cioè secondo i metodi sperimentati durante le due guerre in Cece-nia, ovvero senza preoccuparsi delle procedure e delle precauzioni in uso negli eserciti occidentali, la prima conseguenza dell'intervento sarà di aumentare il numero di morti civili, non di diminuirli. Il mondo è rimasto giustamente scosso davanti alla spaventosa bavure americana sull'ospedale di Kunduz, in Afghanistan. Quanti Kunduz siriani dovremo deplorare dovuti ad attacchi sconsiderati dell'aviazione russa? Quante nuove carneficine, se si continua a privilegiare le bombe a caduta libera rispetto ai missili guidati? Quanto ai profughi, come si può credere anche per un solo istante che il metodo Putin sia capace di attenuare la loro tragedia? Spingendo decine di migliaia di nuovi civili a fuggire dai suoi attacchi indiscriminati, spianando il terreno agli squadroni della morte di un regime che negli ultimi mesi dava segni di stanchezza, demolendo, infine, le ultime speranze che si potevano nutrire sulla creazione, a sud della Giordania e a nord della Turchia, di zone santuarizzate o di zone- tampone degne di questo nome, Putin aggrava ancora la crisi e butta sulle strade d'Europa gli ultimi oppositori che, finora, avevano resistito. Dico «le strade d'Europa»: infatti la Russia, non essendo né la Germania né la Francia, si premurerà, oltre che di terrorizzarli, di chiudere loro le proprie frontiere. Una informazione, divulgata dai mass media russi ma curiosamente poco diffusa in Occidente: mentre posizionava aerei, elicotteri da combattimento e forze speciali, Putin ancorava l'incrociatore lanciamissili Moskva, con le sue decine di missili antiaerei, nel porto di Latalda. Lo Stato Islamico si sarebbe forse dotato, a nostra insaputa, di una flotta aerea cui bisognerebbe impedire di nuocere? Evidentemente no! Di qui a concludere che per il Cremlino sarebbe un bersaglio legittimo ogni aereo chiamato a sorvolare un territorio che esso considera ormai proprio, non c'è che un passo. E dato che questi aerei, per definizione, possono solo volare sotto la bandiera di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Turchia o di altri Stati membri della coalizione, non è difficile immaginare il tipo di escalation in cui questo ragionamento potrebbe trascinare il mondo. Per fortuna, non siamo a questo punto. Ieri a Vienna i capi delle diplomazie americana e russa, John Kerry e Sergei Lavrov, si sono incontrati per tenere aperto un canale di dialogo. Ma non si pretenda di presentarci una operazione che, fino a oggi, mira soltanto a dare alla Russia il controllo del cielo siriano e ad assicurare, al suolo, i suoi interessi di grande po *** tenza, come un rafforzamento della coalizione anti-Isis. m itin non è solo un pompiere piromane, è un imperialista all'antica. Se prendiamo il caso dell'Ucraina: lo spiegamento di forze siriano ha anche il fine di farne dimenticare lo smembramento; poi dei Paesi baltici, della Polonia, della Finlandia o, ormai, della Turchia, dove i Mig russi continuano a testare le frontiere aeree insieme alla solidità del legame con la Nato, constatiamo che Putin è entrato in una strategia di aggressione soft il cui scopo principale, lo dico da mesi, è l'indebolimento dell'Europa. Mi auguro che gli europei se ne preoccupino prima che sia troppo tardi. Mi auguro che, per esempio in Francia, non si ceda al canto delle sirene di un appeasement che, dal Front national all'estrema sinistra, sta diventando il segnale di adesione a un Partito dalle frontiere invisibili, ma in fin dei conti abbastanza coerenti, che bisogna decidersi a chiamare il Partito Putin.
(Trad. Daniela Maggioni)
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