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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
20.10.2015 L'orgoglio dei parenti dei terroristi assassini di ebrei: 'Nostro figlio un martire'
Commenti di Maurizio Molinari, Fabio Scuto

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Fabio Scuto
Titolo: «'Israele, non basta un muro per fermare la nostra rivolta' - 'Così ci difensiamo': gli israeliani in coda per comprare pistole»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/10/2015, a pag. 12, con il titolo "Israele, non basta un muro per fermare la nostra rivolta", il commento doi Maurizio Molinari; dalla REPUBBLICA, a pag. 17, con il titolo " 'Così ci difensiamo': gli israeliani in coda per comprare pistole", il commento di Fabio Scuto.

Ecco gli articoli:

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Possono ferirci, terrorizzarci, deprimerci, offenderci, ma non potranno sconfiggerci perché siamo a casa. Mai più.

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Israele, non basta un muro per fermare la nostra rivolta"

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Maurizio Molinari

«La gente di Jabel Mukabber conosce il nemico, non teme il martirio e vuole la Palestina indipendente, per questo mio figlio è diventato uno shahid». A parlare è Mohammed Aliyan, 60 anni, avvocato, padre di Baha che una settimana fa è stato ucciso nell’attacco ai passeggeri dell’autobus di linea 78 nel vicino quartiere ebraico di Armon HaNaziv.
Mohammed siede nella tenda del lutto assieme ai parenti di una famiglia che include anche gli Abu Jamal, genitori e zii di Alaa Daud, 32 anni, divenuto «shadid» - martire - nello stesso giorno di Baha, 23 anni, dopo aver ucciso a colpi di machete due israeliani nel quartiere di Gheula. «Erano entrambi figli di Jabel Mukabber - spiega Mohammed, riferendosi al posto dove vive da sempre - un quartiere che ha dato e darà molti martiri alla Palestina perché siamo i più vicini geograficamente agli israeliani, hanno costruito le loro case sulle nostre terre e appena facciamo una protesta pacifica ci sparano addosso, ma non ci pieghiamo, siamo gente forte». Nelle sue parole c’è l’orgoglio di una famiglia dalle origini beduine che aveva in Baha il suo «giovane leader» perché «amava lo studio, organizzava attività per i giovani, aveva aperto una libreria per il quartiere, era appassionato di letteratura straniera, viveva su Facebook e sognava una nazione democratica». In politica, aggiunge Mohammed, «mio figlio era nazionalista e religioso ma non estremista, pregava come fanno tutti i musulmani».

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Un parente del terrorista di Jabel Mukabber mostra con orgoglio la foto di Abu Jamal e di un cugino responsabile, un anno fa, del sanguinoso attentato alla sinagoga di Har Nof, a Gerusalemme


Il giorno prima dell’attacco al bus di linea, che ha causato un morto e 16 feriti israeliani, «aveva visto in tv le immagini di soldati che profanavano la moschea di Al Aqsa e di un bambino ucciso dai militari». Baha non disse nulla al padre quando, martedì 13 ottobre, uscì di casa «come faceva ogni mattina». Mohammed ha saputo dalla radio che «era diventato un shahid»: «In quell’istante mi si è chiusa la gola, ho pianto e al tempo stesso gioito per ciò che aveva fatto».


Nella tenda del lutto
Attorno a lui, sotto il tendone verde, i più giovani offrono tè e caffè ai visitatori. Sulle pareti drappi con i colori palestinesi si alternano alle immagini di Baha Aliyan e Alaa Daud Abu Jamal, sovrapponendo lutto e militanza. «I nostri due giovani appartenevano a una generazione a cui gli accordi di Oslo non piacciono, aspirano ad avere leader palestinesi nuovi, più forti e determinati di quelli attuali», assicura Mohammed, definendosi «padre di uno shahid». Davanti alla parole di Sheik Qaradawi, leader religioso dei Fratelli Musulmani, sulla «Jihad per Gerusalemme» e all’auspicio di Hamas per «una rivolta popolare che diventi militare», Mohammed prevede: «La rivolta continuerà, forse avrà delle soste ma non si fermerà negli anni a venire, con ogni tipo di armi» e dunque «se Israele vuole sicurezza deve ritirarsi, da Gerusalemme e dalla West Bank».
La decisione della polizia israeliana di posizionare un muro di cemento per dividere Jabel Mukkaber da Armon HaNaztiv -sebbene congelata dal governo Netanyahu - la giudica «una dimostrazione di stupidità». Ecco perché: «Gli israeliani pensano che infliggendoci punizioni collettive diminuirà il sostegno alla rivolta ma è vero il contrario, cresce la rabbia delle famiglie e aumenteranno i martiri». Quando parla, parenti e amici lo ascoltano mostrando rispetto. Vedono nelle sue parole il proseguimento del sacrificio del figlio. E Mohammed parla del futuro di Gerusalemme: «Se il mondo ci abbandonerà fra 20 anni questa città sarà del tutto giudaizzata, se i palestinesi continueranno a battersi otterranno la nostra terra perché il diritto alla resistenza contro l’occupazione è sancito dalla legge internazionale».

LA REPUBBLICA - Fabio Scuto: " 'Così ci difensiamo': gli israeliani in coda per comprare pistole"

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Fabio Scuto

Davanti alla LBH, una delle più fornite armerie di Tel Aviv, le macchine sono parcheggiate in doppia e in terza fila. Proprietari e addetti di questo negozio aperto nel 1949 faticano a gestire la lunga fila di clienti che si assiepano sulle vetrine interne, ingrombre di quasi ogni tipo di arma da fuoco. Di fronte all’ondata di attentati di queste ultime due settimane e il senso di insicurezza che ne deriva, molti israeliani hanno deciso di armarsi. Gli uffici che rilasciano le licenze sono sommersi dalle richieste ma sono anche state “allentate” dal ministro dell’Interno Gilad Erdan le disposizioni che consentono di portare un’arma: è sufficiente essere stati congedati col grado di sergente o aver fatto parte dei corpi speciali dell’esercito per ottenere la licenza. Condizioni non estreme in un paese dove la leva è obbligatoria e si resta nella Riserva fino ai 48 anni.

Le richieste di armi, conferma il gestore della LBH, «sono aumentate di quattro volte» e altri prodotti di “sicurezza” come gli spray al peperoncino sono andati esauriti anche nei magazzini in una manciata di giorni. Non tutti sono in fila per comprare un’arma. C’è chi deve rinnovare la prova di tiro al poligono che è obbligatoria ogni tre anni per una licenza dimenticata magari nel cassetto da dieci anni e chi ha soltanto bisogno di una nuova scorta di munizioni. Le richieste di utilizzare il poligono di tiro della LBH «sono aumentate del 50%, per giubbotti anti- proiettile e spray vari siamo oltre il 100%», spiega Yariv Ben-Yehuda, che è uno dei proprietari del negozio, «le nostre vendite di armi da fuoco sono aumentate del 30%».

Le “Smith&Wesson” e le “Glock” sono tra i modelli più richiesti, ma anche la “Jericho” prodotta in Israele ha i suoi estimatori. I prezzi non sono proibitivi, si va dai 2.000 ai 4.000 shekel — da 400 a 800 euro — per una scatola da 50 munizioni bastano 120 shekel (24 euro). «Abbiamo esteso l’orario del poligono di tiro», spiega Shaul Derby direttore del negozio, «il personale è nel negozia fino a sera inoltrata per gestire tutte le richieste». «Se c’è un accoltellamento o una sparatoria, un civile armato se è ben allenato può cambiare il corso degli eventi, fare la differenza fra un attacco dove ci sono dei feriti e uno in cui ci sono diversi morti», spiega ancora Derby, «ma se non ha la mano ferma e non è allenato, può fare solo danni».

In coda ci sono uomini con i capelli bianchi. Uno è un chirurgo ultracinquantenne di Ramat Hasharon. «Da anni volevo il porto d’armi, ma non l’avevo ancora fatto, è l’attuale situazione che mi ha fatto decidere», spiega il dottore, «se qualcuno vuole ucciderti, uccidilo prima, accade così in tutto il mondo». La legge israeliana stabiliva che oltre alle forze di sicurezza, soltanto i civili che abitano in zone a rischio, oltre la Linea Verde in Cisgiordania o a Gerusalemme, e coloro che lavorano come security per negozi, hotel, erano autorizzati a portare un’arma da fuoco. Circa 260.000 licenze su una popolazione di 8,5 milioni di abitanti, non erano molte. Ma da due settimane, da quando l’Intifada dei coltelli ha fatto la sua tragica comparsa, la richiesta di porto d’armi è schizzata in alto «di decine di volte» conferma un portavoce del Ministero degli Interni. Con gli uffici governativi sopraffatti dalle richieste in molti vanno direttamente nei negozi d’armi per capire se hanno i nuovi requisiti richiesti e compilare l’apposito modulo, che si scarica anche via internet dal sito del Ministero.

Gli israeliani sembrano aver ben compreso gli appelli a «stare in allerta». Del resto è stato il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat — ex delle Forze speciali — ad invitare i gerosolimitani a girare armati mentre si faceva riprendere dalle tv locali con il fucile mitragliatore in mano. Oltre la Linea Verde la maggioranza dei coloni — sia uomini che donne — ha un’arma alla cintura o nella borsa ogni volta che varca i cancelli del proprio insediamento. Ma gli appelli all’autodifesa suscitano anche inquietudine. L’avvocatessa Smadar Ben Natan che guida una coalizione di gruppi contro l’uso delle armi che si chiama “Niente armi sul tavolo della cucina” fa notare che con le nuove disposizioni raddoppieranno rapidamente il numero di pistole e mitra in circolazione. «A lungo termine», conclude l’avvocatessa, «è evidente che se ci sono più armi c’è più pericolo di errore e meno sicurezza». Nelle armerie le richieste sono quadruplicate: “Se qualcuno vuole ucciderti, uccidilo prima Funziona così in tutto il mondo”.

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