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La Stampa-La Repubblica-Il Foglio Rassegna Stampa
17.10.2014 Incendiata la Tomba di Giuseppe a Nablus
Cronache e commenti: Maurizio Molinari, Fabio Scuto, Daniel Pipes, Wall Street Journal

Testata:La Stampa-La Repubblica-Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari-Fabio Scuto-Arturo Zampaglione-Editoriale Foglio
Titolo: «L'intifada colpisce i luoghi sacri, in fiamme la Tomba di Giuseppe-»


L'incendio della Tomba di Giuseppe a Nablus

Continua in Israele la Violenza palestinista, Riprendiamo oggi, 17/10/2015 articoli dalla STAMPA di Maurizio Molinari, la cronaca dell'incendio della Tomba di Giuseppe a Nabulus e una intervista a un medico arabo-Israeliano, la cui lettura raccomandiamo a chi straparla di apartheid. Da REPUBBLICA una cronaca di Fabio Scuto, preceduta da un nostro commento e una intervista di Arturo Zampaglione a Daniel Pipes, licidamente realista come sempre. Dal FOGLIO un editoriale, tratto dal Wall Street Journal.

La Stampa-Maurizio Molinari-"L'intifada colpisce i luoghi sacri, in fiamme la Tomba di Giuseppe"

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Maurizio Molinari

Centinaia di giovani palestinesi incendiano la Tomba di Giuseppe a Nablus nel primo attacco contro un luogo sacro dall’inizio dell’Intifada dei coltelli. L’assalto avviene quando un imprecisato numero di bottiglie Molotov vengono lanciate dentro l’edificio in pietra dove si ritiene sia sepolto il patriarca biblico Giuseppe. A prendere fuoco è la sezione dove pregano le donne ebree durante le visite mensili, condotte sotto scorta militare israeliana, in base agli accordi di pace di Oslo del 1993 conseguenti al trasferimento di Nablus sotto sovranità palestinese. Al momento dell’attacco il luogo sacro - venerato da ebrei, cristiani, musulmani e samaritani - è senza sorveglianza. I danni causati sono ingenti e a verificarli sono le forze palestinesi quando intervengono sparando in aria per allontanare la folla e aprono la strada ai pompieri che domano le fiamme.
I timori e la condanna
Non ci sono rivendicazioni e il presidente palestinese Abu Mazen lo condanna come «atto irresponsabile e illegale che offende la nostra religione e la nostra cultura» assicurando che sarà un’inchiesta ad accertare «i colpevoli». La reazione di Abu Mazen tradisce il timore di Ramallah che gruppi salafiti islamici possano riuscire a dirottare a loro favore le violenze palestinesi. È uno scenario avvalorato dalla scelta di Hamas di rivendicare la guida della rivolta dei coltelli. Mahmoud Al-Zahar, fra i leader più influenti a Gaza, sfrutta la preghiera del venerdì per un sermone in cui afferma: «L’Intifada è iniziata, non sappiamo quando finirà, speriamo sconfigga gli occupanti, la guerra contro di loro è scritta nel Corano, non viene solo da Gaza ma da tutta la Palestina ». Dore Gold, direttore generale del ministero degli Esteri di Israele, definisce l’attacco alla Tomba di Giuseppe «un’azione che ci ricorda quelle dei più estremisti gruppi islamici, dall’Afghanistan alla Libia» dove i jihadisti distruggono i luoghi sacri di altre fedi considerandoli «blasfemi». L’esercito di Gerusalemme, con il portavoce Peter Lerner, assicura che «i responsabili di questo atto ignobile saranno portati davanti alla giustizia» e gli israeliani «eseguiranno il restauro» prendendo precauzioni «affinché la sicurezza venga garantita».
Obama: basta violenza
Ciò spiega perché alcuni deputati dei partiti di destra chiedano al premier Benjamin Netanyahu di «rimandare i soldati a proteggere la Tomba di Giuseppe visto che i palestinesi non mantengono gli impegni presi». A rafforzare il ruolo di Hamas arriva l’appello al «Giorno della Rabbia» con la diffusione in anticipo della mappa degli scontri, che poi quasi ovunque si verificano causando la morte di quattro palestinesi e il ferimento di altri 20. I conflitti duri sono a Betlemme, Gaza e Hebron, dove un palestinese armato di coltello si traveste da reporter per colpire un soldato israeliano, ora in gravi condizioni. A New York il Consiglio di Sicurezza Onu discute le violenze e l’ambasciatore palestinese chiede l’invio di una forza Onu sulla Spianata delle moschee per «proteggere i nostri civili» la risposta israeliana è «ci opporremo con tutte le forze». Netanyahu chiede agli Usa una dichiarazione formale per attestare che lo status quo sulla Spinata non è stato modificato «al fine di combattere l’incitamento all’odio». Anche di questo Netanyahu e Kerry parleranno mercoledì a Berlino, in attesa di Abu Mazen. Al quale, come a Netanyahu, è arrivato dalla Casa Bianca ieri l’appello a «fermare le violenze».

La Stampa-Maurizio Molinari: " Il chirurgo arabo: Nel mio reparto vittime e carnefici sono solo pazienti"

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Ahamed Eid, Ospedale Haddassah

Nella terapia intensiva c’è Naor, 13 anni, vittima a Pisgat Zeev delle coltellate del coetaneo palestinese Ahmed Manasra. Poco più avanti, fra i feriti in fase di recupero, c’è Yosef, 21 anni, a cui sempre Manasra ha causato tre profonde ferite. In fondo al corridoio c’è un divano nero dove per 48 ore di seguito si è seduto Walid Zreina, fratello della donna palestinese di 31 anni di Gerico che gridando «Allah hu-Akhbar» ha fatto esplodere la bomba che aveva nella propria auto ad un posto di blocco davanti all’insediamento ebraico di Maalein Adumim. La kamikaze palestinese ed il bambino israeliano di Pisgav Zeev sono stati operati nella stessa sala operatoria, dallo stesso team di medici che affiancano Ahmed Eid. Nel suo studio, al terzo piano dell’ospedale, Eid ha le lauree in Medicina e Matematica ottenute all’Università Ebraica di Gerusalemme appese a fianco alle immagini del villaggio arabo della Galilea da cui proviene.
Doppia identità
L’identità araba e quella israeliana si sovrappongono nella sua storia personale e professionale - è stato il primo chirurgo ad effettuare un trapianto di fegato nello Stato ebraico - e si sente a proprio agio all’Hadassah «perché in questo ospedale israeliano il 60 per cento dei pazienti ed il 20 per cento di dottori e infermieri sono arabi».Basta guardarsi intorno per accorgersene. Ci sono ambulanze della Mezzaluna Rossa e del Magen David Adom fianco a fianco davanti al pronto soccorso, ebrei ortodossi e donne arabe con i rispettivi figli nella sala giochi, pazienti arabi assistiti da dottori ebrei e viceversa. Ilanit Tal, direttrice delle infermiere di chirurgia, vive nell’insediamento ebraico di Maalei Adumim, in Cisgiordania, ed ha un team di 30 persone, cinque delle quali arabe musulmane della Galilea. Due di loro, Ruba di 24 anni e Rabia di 28 anni a causa dell’Intifada dei coltelli le hanno confessato di aver paura di prendere gli autobus e l’Hadassah gli ha trovato un posto dove dormire nei pressi dell’ospedale. «Arabi e israeliani, ebrei, musulmani e cristiani - dice Ahmed Eid - qui siamo tutti accomunati dalla missione di salvare vite, controlliamo le nostre opinioni e cooperiamo per aiutare il prossimo, senza chiederci chi è, cosa ha fatto o chi lo ha ferito». Sono due i fattori che, per Eid, distinguono l’Hadassah. Il primo è geografico: «Si trova assai vicino ai quartieri arabi di Gerusalemme come agli insediamenti ebraici in Cisgiordania e dunque i nostri pazienti vengono dagli estremi opposti del conflitto israelo-palestinese ». E il secondo ha a che vedere con una scelta personale: «Chiunque lavora qui ha idee molto diverse sul conflitto ma le esprime in casa, con gli amici, senza farle entrare in ospedale». L’esperienza
Il risultato è che Ahmed Eid somma esperienza e conoscenza delle ferite riportate tanto dalle vittime che dagli attentatori. Ecco come le descrive: «Una coltellata è molto più seria di quanto appare perché comporta nella vittima grandi perdite di sangue, shock in tutto il corpo e trafigge l’organismo causando danni potenziali in più luoghi», mentre i colpi sparati dagli agenti a distanza ravvicinata «possono uccidere se non si interviene in fretta». Uscendo dal suo studio, si prova la sensazione che esista un Medio Oriente diverso, dove i singoli riescono a dominare gli istinti per far prevalere l’interesse collettivo. «In fin dei conti, è solo una questione di volontà », parola di chirurgo.

La Repubblica-Fabio Scuto: " Guerriglia palestinese, in fiamme a Nablus la Tomba di Giuseppe, scontri a Gaza, 4 morti


Fabio Scuto

Fabio Scuto è sempre cauto nell'uso della parola "terrorista". Da come racconta lui le vicende chi attacca e chi si defende sono sullo stesso piano. In questo pezzo racconta i fatti senza commenti personali, come fa di solito, ma non basta, il lettore non ne ricava gli strumenti per capire chi sono i veri violenti.

L’alba del “venerdì della rabbia” palestinese proclamato da Hamas e dalla Jihad islamica non era ancora sorta che già le fiamme avevano divorato gran parte della Tomba di Giuseppe di Nablus, il santuario venerato dagli ebrei e in misura minore anche dai musulmani. Soffocata tra le casupole del turbolento campo profughi di Baata, la tomba è bruciata come una pira per le molotov lanciate da un centinaio di palestinesi. Un rogo che alza il livello del confronto fra palestinesi e israeliani e disegna coi suoi fumi lo spettro di uno scontro che da politico sta diventando rapidamente confessionale, alimentato soprattutto dalla contesa sulla Spianata delle Moschee.
Ma è anche una sfida aperta all’Anp e al suo presidente Abu Mazen, sempre più in difficoltà per una piazza che non gli riconosce quasi più nessuna autorità. Perché la Tomba di Giuseppe di Nablus è nella zona A e dal 2000 è sotto il controllo palestinese. Sono stati i poliziotti palestinesi a sparare in aria, allontanare gli “incendiari” e avvisare i pompieri ma ormai il danno – gravissimo – era fatto.
La tomba è da decenni un punto d’attrito ricorrente in Cisgiordania e aveva già subito diverse devastazioni, nel 1996, nel 2000 e ancora nel 2002. Nablus con gli accordi di Oslo nel 1993 ha ottenuto lo status di città autonoma palestinese ma la Tomba è rimasta al suo interno come un’enclave aperta al culto ebraico.
Dal 2007 i gruppi di ebrei religiosi e haredim hanno iniziato a visitare il luogo santo una volta al mese, scortati dall’esercito israeliano e in accordo con la sicurezza dell’Anp. Le visite avvenivano la notte per evitare la reazione della popolazione locale.
Il presidente palestinese Abu Mazen è corso subito a condannare il rogo di Nablus come un gesto «irresponsabile» e ha ordinato un’inchiesta e l’immediata riparazione dei danni. Ma è evidente che la sua credibilità si sta lentamente sgretolando.
Immediate le reazioni in Israele. «Questo è il risultato dell’incitamento palestinese alla violenza », ha tuonato il ministro dell’Agricoltura Uri Ariel. «L’incendio dimostra che solo Israele è in grado di proteggere i luoghi santi di tutte le religioni», dice Dore Gold, direttore generale del ministero degli Esteri, che rivendica un ruolo maggiore per lo Stato ebraico. Proprio questa è l’accusa lanciata dall’Anp, che di fronte a un boom di visite di ebrei ultraortodossi sulla Spianata teme una modifica dello status quo da parte del governo di Benjamin Netanyahu. Al momento gli ebrei possono accedere alla Spianata ma non possono pregarvi. Il resto della giornata è stato un crescere di tensioni, la guerriglia urbana ha devastato Nablus dopo il rogo e in serata un giovane è morto negli scontri con i soldati israeliani. La città è “sigillata” dall’Idf, non si entra e non si esce. Gerusalemme per un giorno è stata risparmiata dalle violenze. A metà mattina al posto di controllo dell’esercito di Kyriat Arba, l’insediamento alle porte di Hebron teatro di diversi attacchi in queste settimane, si avvicina un giovane. Indossa il fratino giallo che lo identifica come un fotoreporter. E’ con questo stratagemma che riesce ad avvicinarsi a un militare e lo ferisce con un coltello: subito un suo commilitone uccide il “lupo solitario”. Uno sviluppo preoccupante che mette in pericolo tutti i media che lavorano in Israele e Cisgiordania, ed è fonte di preoccupazione anche per le forze di sicurezza israeliane: difficile distinguere il vero reporter dal falso in mezzo alla guerriglia urbana. E’ nel pomeriggio che si accende il “fronte sud”, quello di Gaza. Al termine della preghiera, sollecitati da un discorso del leader Ismail Haniyeh diffuso dalla radio di Hamas, giovani palestinesi hanno di nuovo tentato di sfondare la rete che delimita il confine della Striscia. Sterpaglie e copertoni in fiamme, molotov da una parte. Proiettili di gomma, veri e lacrimogeni dall’altra. Due i morti e trenta i feriti di questa battaglia dall’esito scontato ma nella quale ossessivamente Hamas insiste alla ricerca di una reazione internazionale.
Difficile capire da che parte la diplomazia internazionale potrà mettere i suoi buoni uffici per allentare questa crisi. La possibilità di un incontro a tre - John Kerry, Netanyahu e Abu Mazen – è fallita. Il segretario di Stato Usa vedrà Netanyahu ma mercoledì prossimo a Berlino durante la visita in Germania del premier israeliano. Abu Mazen e l’Anp si affidano alle Nazioni Unite dove Giordania e Paesi arabi sollecitano una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza. La Francia ha depositato una bozza di risoluzione che sollecita l’invio di osservatori internazionali sulla Spianata. Un’ipotesi che il nuovo ambasciatore israeliano al Palazzo di Vetro Danny Danon ha immediatamente bocciato. Da Washington intanto arriva l’appello di Barack Obama ai due leader perchè lavorino a fermare le violenze.

La Repubblica-Arturo Zampaglione: " Questa violenza non darà risultati"

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Arturo Zampaglione

Le domande del giornalista sono tutte schierate dalla parte palestinista, ma i lettori di Repubblica-almeno-leggono l'opinione di Pipes.

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Daniel Pipes

 NEW YORK . Accoltellamenti, incendi, sassaiole, sparatorie e soprattutto tanti morti: Daniel Pipes che cosa c’è dietro a questa ondata di violenze in Israele? «Non c’è nulla di nuovo. Ormai da decenni i palestinesi seguono le stesse tattiche, ma senza alcun risultato: perché sono sbagliate, oltre a essere criminali».
Autore di decine di saggi e direttore del Middle East Forum, un think tank conservatore, Pipes non è mai stato tenero nei confronti dei palestinesi e tanto meno del presidente Abu Mazen, che definisce un «mostruoso bugiardo ».
Parlando con Repubblica spiega come i falchi americani vedono questa crisi.
Non pensa che le tattiche palestinesi cui si riferisce siano il prodotto della disperazione di un popolo?
«E’ l’inverso: la disperazione nasce dai ripetuti insuccessi di tattiche sbagliate».
Quali sarebbero a suo avviso le tattiche “giuste”?
«Se i palestinesi volessero veramente un loro stato indipendente, come dicono, dovrebbero lavorare assieme a Israele, non puntare alla sua distruzione».
Vede un collegamento tra l’escalation russa in Siria e queste “giornate della rabbia”? «L’attenzione mondiale è tutta rivolta all’Is e alla Siria: i palestinesi stanno approfittando della distrazione internazionale».
Ma John Kerry non è distratto e sta per tornare nella regione. Che cosa otterrà?
«Niente, è solo un presuntuoso. Da quando è stato segretario di Stato non ha portato ad alcun risultato concreto».

Il Foglio-Editoriale: " Le lame di Gerusalemme"

 Per ogni capitolo della storia della violenza palestinese contro gli israeliani, c’è un’immagine emblematica”, scriveva ieri il Wall Street Journal in un editoriale. Dopo l’assalto alle Olimpiadi di Monaco nel 1972, fu l’uomo armato con passamontagna. Nella Prima Intifada degli anni 80, i giovani che tiravano pietre. Nella Seconda Intifada nei primi anni 2000, gli attentatori suicidi. Secondo alcuni osservatori, ora è ancora presto per parlare di “Terza Intifada”, ma “l’immagine dell’epoca è già decisa: il terrorista che brandisce un coltello”. Così nelle ultime settimane sono stati attaccati oltre 50 cittadini israeliani, di cui 8 uccisi. “Questo è terrorismo nella sua forma più precisa e repellente – secondo il quotidiano americano – Un pericolo potenziale per chiunque esca dalla propria casa”. Un fenomeno difficile da contrastare per il governo di Gerusalemme. A meno di non andare alla fonte della propaganda istigatrice, sia religiosa sia politica. Il Wsj infatti ricorda gli slogan dei religiosi di Gaza contro il nemico sionista trasmessi a reti unificate, ma anche le responsabilità del presidente dell’Autorità palestinese, Abu Mazen, “che ha diffuso la voce secondo cui Israele starebbe per mutare lo status quo religioso del Monte del Tempio a Gerusalemme, sito della Cupola della Roccia e della moschea al Aqsa, nonostante le smentite israeliane”. Abu Mazen ha poi sparso la voce di un’esecuzione a sangue freddo di un giovane attentatore palestinese da parte degli israeliani, falso anche questo. Il tutto con la benedizione dell’occidente che continua a finanziarlo (solo l’America nel 2015 ha dato 441 milioni di dollari all’Autorità palestinese) “nell’illusione che Abu Mazen sia un partner affidabile per Israele alla ricerca della pace”. Anche per questo il governo di Netanyahu, conclude il Wsj, non dovrebbe ascoltare i critici che gli chiedono di fare concessioni sulla presunta “occupazione”. Una risposta dura e in profondità, è ciò che serve. “Quanto prima i palestinesi capiranno che gli israeliani non si piegano di fronte a coltelli e terrorismo, tanto prima gli accoltellamenti termineranno”.

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