Riprendiamo dal CORRERE della SERA del 10/10/2015, a pag. 15, con il titolo "L'Europa sta perdendo terreno. L'Italia? Va meglio ma pesa poco", l'intervista di Massimo Gaggi ad Alberto Cribiore.
Quello che colpisce, nell'intervista, è una domanda del giornalista. Eccola: "Mai avuto problemi a Wall Street dove dominano wasp e finanza ebraica?"
Eccoci tornati al complotto demo-pluto-giudaico-massonico. E sulle pagine del Corriere della Sera.
Ecco l'articolo:
Massimo Gaggi
Il "complotto ebraico"
«L’immagine dell’Italia è in ripresa, qui negli Stati Uniti, grazie a Matteo Renzi che dà un’impressione di stabilità, la sensazione di un Paese governato. E grazie a Pier Carlo Padoan, un ministro che si è guadagnato il rispetto internazionale per la sua competenza e la sua integrità. Ma il peso del nostro Paese, così come quello della Ue, sono inevitabilmente ridotti nel mondo globalizzato e dopo una crisi, quella del 2008, partita dagli Usa ma che ha lasciato indietro soprattutto l’Europa».
Arrivato in America 40 anni fa come finanziere dell’Ifi, la finanziaria della famiglia Agnelli (oggi Exor), Alberto Cribiore, da sette anni vicepresidente esecutivo di Citi (il gruppo di Citibank), è il banchiere italiano di maggior peso che opera all’estero. Notissimo a Wall Street (è stato partner di Clayton & Dubilier e, per un breve periodo, ha anche avuto la presidenza di Merrill Lynch), Cribiore è sconosciuto al grande pubblico anche perché allergico alle interviste: pensa, come Cuccia, che la riservatezza sia parte integrante della credibilità di un banchiere. Fa un’eccezione in occasione del Columbus Day, perché è stato nominato Grand Marshal della parata che si svolgerà lunedì sulla Fifth Avenue, la più importante manifestazione italiana d’America.
E’ una scelta che la rende orgoglioso, ma essere italiani in America non è sempre stato facile. Oggi lo è? «Che io sia onorato è ovvio, quasi banale: in passato questo ruolo è stato svolto da Luciano Pavarotti e Frank Sinatra, dal banchiere Joe Perella e dal giudice costituzionale Samuel Alito. Per il resto, lascerei perdere gli stereotipi sugli italiani: a volte sono solo delle scuse per un risultato mancato. Ci sono i pregiudizi, certo, ma avere a fianco una vasta comunità italoamericana molto integrata che ama l’Italia e la sua cultura ti dà anche un grande vantaggio competitivo. Un vantaggio che l’Italia non ha saputo sfruttare in pieno».
Mai avuto problemi a Wall Street dove dominano wasp e finanza ebraica? «In ogni cosa c’è un meno e un più, ma il saldo per me è stato positivo, non cerco scuse. Dipende molto da come reagisci. Un esempio: un giorno in un consiglio d’amministrazione di molti anni fa un altro membro del board dice: “Alberto è la persona più brillante che io abbia mai incontrato, ma non capisco una parola di quello che dice”. Non era certo un complimento, potevo fare l’offeso. Invece gli ho risposto: “Grazie. Se sono così brillante, forse vale la pena di concentrarsi di più per capirmi”. E l’ho spuntata. L’America ha una cosa bella: l’individuo può anche avere un pregiudizio, ma il sistema è costruito in modo da premiare il lavoro e il merito. Ci sono meno interessi protetti, meno posizioni di controllo, è tutto più contendibile».
E’ per questo che l’Europa è rimasta indietro? Un problema culturale? «Sicuramente gli Stati Uniti hanno, molto più dell’Europa, una mentalità orientata alla crescita. La cultura dei giochi a somma zero, assai diffusa dalle nostre parti, qui non attecchisce. L’idea che se io vinco c’è qualcuno che deve perdere. Qui si cerca di allargare la torta, di crearne una in più. Ma ci sono anche dei dati di fatto storici di cui tener conto. E, poi, l’impatto della crisi del 2008».
Beh, prima del crollo del muro di Berlino l’Europa e l’Italia contavano di più: dal punto di vista economico non esistevano né l’Asia né l’Est europeo. «Certo. L’Italia ha beneficiato ed è stata allo stesso tempo vittima dell’unificazione Ue e della fine della Guerra Fredda. Avevamo grande importanza strategica: anche per questo la Chase Manhattan, e anche Citibank, erano massicciamente presenti nella Penisola. Con la nascita dell’Europa integrata esigenze e interessi sono cambiati. Poi c’è il problema, tutto italiano, della perdita delle multinazionali. Un tempo in America c’erano Montedison, Ferruzzi e altri grandi gruppi. Ora abbiamo aziende brillanti, vivacissime, da Prada a Cucinelli, ma è difficile arrivare ad avere lo stesso peso».
Vale anche per la finanza? «Certo. Pensi a Comit: possedeva la più grande banca sudamericana, Sudameris, e il 30% di Lehman (con italiani nel board) quando Lehman era sana, un leader finanziario mondiale. Oggi Intesa è una banca che va benissimo, la migliore, ma non ha lo stesso peso internazionale».
Eppure è uscita meglio degli altri dalla crisi del 2008. «Non fraintenda: Intesa è ottima. Gli investitori internazionali che scelgono di puntare sull’Italia comprano Intesa o Generali o Enel. Magari domani compreranno le Poste. Sono tutte le banche europee che hanno perso terreno. Piaccia o no, oggi finanza mondiale è dominata da 5 o 6 istituzioni Usa. Dopo la crisi, Wall Street è passata attraverso una fase catartica, si è ripulita ed è ripartita. L’Europa, un po’ per mancanza di volontà politica, un po’ per l’atteggiamento della Bce pre-Draghi, non solo non ha sostenuto più di tanto l’economia e il sistema finanziario, ma ha accettato che ogni Paese alzasse steccati. Fine del credito interbancario: era stato fatto l’euro per creare un’area finanziaria comune e invece siamo tornati ai sistemi nazionali, ognuno con la sua ciminiera».
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