Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 12/10/2015, a pag. 4, con il titolo "Pamuk: 'Noi ostaggi della paura, ora temo una nuova guerra civile' ", l'intervista di Marco Ansaldo a Orhan Pamuk.
Marco Ansaldo, Orhan Pamuk
Morti e feriti per le strade di Ankara
«A Istanbul la vita negli ultimi due mesi è diventata impossibile. Gli amici continuano a dirti: non scendere a prendere la metro, non andare a Piazza Taksim, non frequentare posti affollati. Di questo passo, non si potrebbe fare nulla. La sindrome da bomba sta accerchiando le nostre vite. Ma tutta la gente in Turchia, e anche gli intellettuali, come me, non vogliono nient’altro che la pace. Solo pochi mesi fa tutto questo sembrava acquisito, ma la guerra scoppiata contro i curdi ha causato solo un ritorno alla paura. La paura, sì, nelle facce della gente, nei loro cuori, nelle nostre teste: questo purtroppo è il sentimento che governa oggi la Turchi». Telefona da New York, Orhan Pamuk, dove qualche giorno fa, come ogni anno, ha cominciato il suo corso alla Columbia University. Vuole dire la sua dopo il massacro alla stazione di Ankara. È lontano, ma la sua testa è naturalmente alla città a cui ha dedicato il libro con cui ha vinto il Nobel per la Letteratura. «Frequento la comunità turca qui a New York – dice a Repubblica – ho tanti amici, e tutti quelli che fra ieri e oggi ho incontrato si mettono tutti a piangere».
Quando ha saputo della strage? «Ieri appena sveglio. Mi hanno chiamato dalla Turchia, ho acceso la tv e ho visto le immagini, le fotografie, è una cosa spaventosa. Il mio paese non merita questo».
E che cosa ha pensato subito? «Ho avuto una reazione di istinto: questa notizia ci spezza il cuore. Ma poi ho reagito dicendomi: tutti i turchi liberali, i democratici, i secolaristi, tutti costoro oggi sono con i curdi e simpatizzano per loro. Perché questo popolo vuole la pace».
La stazione di Ankara, dove è avvenuto il massacro, significa qualcosa per lei? «Per me la stazione di Ankara significa Kemal Atatürk (il fondatore della Turchia laica, ndr )… Veniva fotografato lì tutte le volte che partiva negli anni Venti e Trenta».
Questo Paese in passato ha vissuto quattro golpe. Lei non ha paura di un ritorno alla guerra civile come avvenne fra gli anni Sessanta e gli Ottanta? «Certo che lo temo. Soprattutto negli anni Settanta le strade della mia città hanno vissuto un vero e proprio conflitto fra la gente di destra e quella di sinistra. Chi oggi ha più di 35 anni ha ancora un ricordo purtroppo orribile di quel periodo e non vuole vederlo mai più».
Ma adesso, nel 2015, che cosa è successo. Perché questo ritorno al confronto fra turchi e curdi? «Fino a solo tre mesi fa questo paese ha vissuto un periodo di relativa pace. E il Presidente Tayyip Erdogan era riuscito a intavolare un negoziato con il Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, ndr) dopo i lunghi decenni di guerra fra esercito e guerriglieri. E, in un primo momento, questo tentativo è andato bene».
Poi che cosa ha fatto deragliare questo progetto? «La sconfitta di Erdogan nelle elezioni di giugno (il suo partito è passato dal 49,9% al 40,9%, ndr ). Non era riuscito a convincere i curdi, i quali non si sono fidati di dargli i voti per arrivare al suo progetto di Repubblica presidenziale. Così, per ironia, ha perso proprio i voti dei curdi, che nelle urne gli sono mancati in maniera decisiva».
E come si è arrivati poi alla guerra con il Pkk? «La sconfitta elettorale ha fatto arrabbiare Erdogan. Lui puntava a rifare un esecutivo monocolore, composto dal suo solo partito (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, conservatore e di ispirazione islamica, ndr ), non voleva una coalizione di governo. Così è stato deciso di tornare nuovamente a votare il 1 novembre prossimo. Però non soddisfatti di come vanno le cose, governo ed esercito hanno stabilito di ricominciare la guerra contro il movimento curdo».
Ma in Turchia c’è comunque chi appoggia Erdogan. «Ma è la nazione intera oggi a capire il suo calcolo. Prima, non ha voluto far parte della coalizione internazionale che combatte il Califfato Islamico. Poi, ha accettato di fare quello che gli chiedevano gli americani: però, insieme al Califfato, si è messo a bombardare i curdi».
E la gente per le strade, negli uffici, nelle scuole, come ha reagito? «È rimasta sorpresa, scioccata. Ha scoperto che da un paese in pace si è trovata all’improvviso in un paese in guerra sia contro il Califfato islamico sia contro il Pkk».
Raccontare tutto questo per i giornalisti è diventato difficile qui. C’è chi è stato addirittura arrestato per un tweet critico contro il presidente, come l’altro ieri il direttore del quotidiano “Zaman”, Bulent Kenes… «E quanti bravi giornalisti vedo oggi licenziati, nei giornali di opposizione. Voglio dire: gli Stati Uniti a volte fanno delle guerre orribili, ma nessuno qui si sogna di toccare la libertà di espressione».
Ma lei pensa che le prossime elezioni del 1 novembre possano cambiare questa situazione di paura che circola in Turchia? «Io spero proprio di sì. Io sto con i liberali e i democratici che sono arrabbiati con Erdogan».
Lei, Pamuk, ama profondamente il suo Paese, che ha descritto tante volte, in capolavori come “Istanbul” oppure “Neve”. Oggi non è preoccupato per la Turchia? «Sì, lo sono. Perché so che alla fine il partito di Erdogan vuole governare a tutti i costi da solo. Invece io spero vivamente che si arrivi a una coalizione di governo. Erdogan adesso non otterrà né la simpatia, né l’appoggio, da parte dei curdi. Sono preoccupato. E lo sono per il modo crescentemente autoritario in cui il presidente governa il paese. Adesso le posizioni si sono purtroppo polarizzate. Lui non vuole condividere il potere. Anzi, vuole controllare l’intera Turchia».
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