Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/10/2015, a pag. 11, con il titolo "I bambini non escono più da soli, non ci fidiamo gli uni degli altri", l'intervista di Davide Frattini a Khaled Diab; dalla REPUBBLICA, a pag. 4, con il titolo "Per il mio popolo scendere in strada è l'unica soluzione", l'intervista di Francesca Caferri a Suad Amiry.
Riportiamo le posizioni palestinesi contro Israele (Khaled Diab) e quelle estremiste che incitano al terrorismo (Fuad Amiry). Solo in questo modo i lettori possono farsi un'idea complessiva delle vicende di questi giorni.
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Davide Frattini: "I bambini non escono più da soli, non ci fidiamo gli uni degli altri"
Davide Frattini, Khaled Diab
Le immagini lo mostrano con la camicia azzurra che indossa per andare in ufficio e il fucile mitragliatore a tracolla. Il sindaco Nir Barkat ha servito sei anni nella Brigata paracadutisti (quella che ha avuto come primo comandante Ariel Sharon), ne fa sfoggio in campagna elettorale e lo esibisce adesso che la sua città sembra tornata in guerra. Pattuglia le strade la notte, invita gli abitanti ebrei a fare lo stesso.
«Chi possiede un’arma deve sempre portarla con sé — ha commentato — per fortuna in questo Paese ci sono molti militari e riservisti ben addestrati». L’appello di Barkat spaventa lo scrittore Khaled Diab, di origini egiziane, che ha vissuto tra l’Europa e il Medio Oriente e da un paio d’anni abita a Gerusalemme. Lo spaventa la chiamata alle armi perché gli sembra «pericoloso populismo». Ammette che la paura è cresciuta: «Mio figlio ha sei anni, frequenta la scuola francese e il preside ha vietato a tutti i bambini, anche a quelli più grandi, di tornare a casa da soli. Durante l’intervallo non possono più uscire». Blindati come gli accessi alla Città Vecchia dove la polizia ha installato i metal detector nella speranza di fermare i possibili attentatori palestinesi, gli ultimi attacchi sono stati tutti perpetrati con i coltelli.
«Nella Città Vecchia non andiamo più — spiega Diab — perché il rischio di rimanere coinvolti negli scontri è troppo alto». Come ha raccontato sul Corriere , per la sua famiglia il pericolo è doppio: «E se un estremista ebreo ci sente parlare arabo? E se un estremista palestinese ci piglia per ebrei, un padre di carnagione scura e il suo figlio biondo?». È «dall’estate dell’odio che il senso di sicurezza e il residuo di fiducia reciproca sono stati azzerati». Le violenze vanno avanti da oltre un anno, dal rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani, dall’omicidio per vendetta di un adolescente palestinese, dai sessanta giorni di guerra con Hamas a Gaza.
«Gli analisti si chiedono se battezzarla terza intifada. Di certo è una rivolta che non si placa, anche se per ora non sembra essere organizzata da leader. Un elemento nuovo rispetto al passato è rappresentato dalle rappresaglie dei coloni ebrei che si fanno le leggi da soli». Nel suo libro «Intimate Enemies» ricorda e cataloga le passioni comuni dei palestinesi e degli israeliani ma «le due società hanno visto uno spostamento dal nazionalismo secolare e di sinistra verso il populismo di destra, con forti connotazioni religiose».
«Il presidente Abu Mazen cerca di barcamenarsi. Usa una retorica molto bellicosa sulla questione della moschea Al Aqsa. Lo fa per zittire le critiche interne, quelle di chi lo considera troppo debole o lo accusa di essere un dittatore che non ha mai indetto le nuove elezioni. Deve anche contrastare la concorrenza di Hamas: pure gli islamisti sfruttano la Spianata per lotte politiche tra i palestinesi, vogliono dimostrare che Abu Mazen non è in grado di proteggere i luoghi sacri». David Rosenberg sul quotidiano israeliano Haaretz attribuisce parte della rabbia araba alla stagnazione economica: la crescita in Cisgiordania è zero, le prospettive di un rilancio ancora peggiori. «I ragazzi si sentono oppressi, trovare una casa è impossibile, mancano gli appartamenti o sono troppo cari perché Israele non concede i permessi per costruire. La disoccupazione è alta soprattutto tra i giovani, così la frustrazione li spinge a scendere in strada».
LA REPUBBLICA - Francesca Caferri: "Per il mio popolo scendere in strada è l'unica soluzione"
Suad Amiry
Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.
Signora Amiry, siamo di fronte alla terza Intifada? «Negli ultimi due anni la situazione dei palestinesi è peggiorata, la vita quotidiana è diventata sempre più difficile. In questi mesi Gerusalemme è stata di fatto isolata: per noi andare a pregare è complicatissimo mentre i coloni ebrei sono riusciti ad entrare anche nella moschea di Al Aqsa. Le politiche di Israele hanno di fatto spinto i giovani per la strada: non c’è stata altra speranza. Questo è il vero problema, non cercare la giusta definizione per quello che sta succedendo».
Anche i politici palestinesi però hanno commesso clamorosi errori… «Certo. Abu Mazen ha tentato in tutti i modi di salvare il dialogo e per fare questo si è piegato al punto di perdere la faccia con i suoi, soprattutto con i più giovani. Gli israeliani non troveranno mai più un leader così moderato come il presidente Abu Mazen, eppure neanche con lui sono riusciti a sedersi intorno a un tavolo. Il risultato è l’arrivo sulla scena di una nuova generazione, che per mettere fine a questa situazione va in strada. Sono stata nel team dei negoziatori palestinesi e posso dire con certezza che quelli come me, che per anni hanno predicato la necessità di riconoscere lo Stato di Israele, oggi appaiono ridicoli agli occhi della maggior parte della gente dei Territori e della Striscia di Gaza. Noi chiedevamo rispetto, ma Netanyahu si è messo in tasca le nostre parole. Per anni Abu Mazen ha fatto arrestare chi scendeva in strada contro Israele: abbiamo fatto i protettori dei nostri occupanti. Ed ecco il risultato».
Sta dicendo che non c’è più speranza per l’eterno conflitto israelo-palestinese? «No, non dico questo. Certo che c’è speranza: i ragazzi non sarebbero in strada se non avessero speranza. La speranza è che finisca l’occupazione. Questa situazione così ingiusta non può andare avanti per sempre. Vogliamo la pace, vogliamo una soluzione: ma bisogna essere in due per avere queste cose. Quello che non vogliamo, che non possiamo accettare, è continuare a vivere in uno stato di apartheid».
Cosa vede nel futuro? «Le dico cosa vedo nel presente, qui in America, il paese dove ho studiato negli anni ’70 e dove per anni l’opinione pubblica è stata in modo compatto dalla parte di Israele. Oggi anche qui un numero crescente di persone iniziano a capire come vivono i palestinesi. La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla. L’apartheid finì quando il mondo disse basta, quando l’embargo economico diventò forte e mise alle strette il governo. Io mi auguro che presto accada lo stesso per noi».
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