Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 10/10/2015, a pag. 2-3, con il titolo "La moschea di Al Aqsa, l'ultimo simbolo che infiamma la rivolta dei delusi da Abu Mazen", l'analisi di Bernardo Valli; dal SOLE 24 ORE, a pag. 12, con il titolo "Venerdì di scontri a Gaza, Hamas invoca l'Intifada", il commento di Ugo Tramballi.
LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "La moschea di Al Aqsa, l'ultimo simbolo che infiamma la rivolta dei delusi da Abu Mazen"
Bernardo Valli cerca di spiegare i motivi delle violenze di questi giorni, ma il risultato è un articolo carico di disinformazione, come al solito in funzione anti-israeliana.
1) Lo status del Monte del Tempio, dove sorgono le moschee, non è in discussione. Eppure Valli insinua dubbi, riportando acriticamente la versione massimalista palestinese, nient'altro che bieca propaganda.
2) Il giornalista rimpiange il fatto che, per gli arabi palestinesi, l'indipendenza del Monte del Tempio sotto uno 'Stato di Palestina' è ormai un miraggio. Non scrive, però, che se è così (e già questo è assai dubbio, perché il Waqf, l'ente che gestisce il luogo è arabo-giordano) gli arabi palestinesi devono incolpare soltanto se stessi, poiché in svariate occasioni Israele ha fatto vaste offerte territoriali per la nascita di uno Stato palestinese, e sono stati proprio gli arabi palestinesi ad aver sempre rifiutato.
3) Per Valli le parole di Abu Mazen all'Onu sono staete "audaci" e quella del boss palestinese che è succeduto ad Arafat è una "dignitosa figura".
4) Il motivo di tutti i mali non può che essere rintracciato negli "insediamenti", che secondo Valli avallano l'idea - in realtà coltivata solo da frange estremiste molto minoritarie - di un "Grande Israele".
5) Il pezzo termina con un appello alla ragione "in Terra Santa". Ecco, ci mancava soltanto questo per colmare la misura, ma pur di non nominare Israele Valli è disposto a tutto.
Ecco l'articolo:
Bernardo Valli
Abu Mazen: una "dignitosa figura" secondo Valli
ABRAMO vi preparò il sacrificio del figlio Isacco. Gesù vi frequentava il Tempio ebraico (il secondo). Maometto vi spiccò il volo verso il cielo. La Spianata delle moschee per i musulmani o il Monte del Tempio per gli ebrei è, a Gerusalemme, uno spazio popolato di avvenimenti salienti per le tre religioni monoteiste. Al tempo stesso è un luogo che suscita aspre contese. Su una parete, in molte case palestinesi, c’è un manifesto o una fotografia della Spianata sulla quale sorgono le moschee di Al Aqsa e di Omar. In particolare l’immagine della moschea di Al Aqsa ha un valore non soltanto religioso. È il prezioso frammento di un’identità frustrata che nella Palestina occupata è rimasto un estremo e irrinunciabile simbolo. Conquistata nel ’67 quell’area tanto carica di storia è stata considerata dagli stessi israeliani un bene religioso islamico ( Waqf) e il suo controllo è stato affidato alle autorità giordane. Le quali, nei momenti di crisi, si astengono dal difficile, ingrato compito.
È quel che minacciano di fare in questi giorni. L’accesso alla Spianata è riservato ai musulmani per le preghiere; mentre gli ebrei recitano le loro nel sottostante Muro del Pianto. Capita spesso, da anni, che per evitare manifestazioni gli israeliani proibiscano ai palestinesi di meno di cinquant’anni (l’età limite è variabile) di raggiungere la Spianata. E accade che gli ebrei ortodossi violino le consegne e vadano a compiere riti o organizzino riunioni nello spazio a loro vietato. Questo appare ai musulmani una provocazione. Nel 2000, il 28 settembre, due mesi dopo il fallimento del vertice di Camp David, negli Stati Uniti, dove si era sperato invano di risolvere il conflitto israelo-palestinese, Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione di destra, raggiunse la Spianata, e il suo gesto fu interpretato come un segno di sfida. Il giorno successivo vi fu una manifestazione musulmana di protesta durante la quale furono uccisi cinque palestinesi, nell’area tra le due moschee, e altri due nella città vecchia.
Cosi è cominciata la seconda Intifada (insurrezione), battezzata “Al Aqsa”. Durò cinque anni e fece circa 4.700 vittime, l’ottanta per cento delle quali palestinesi. Fu molto più sanguinosa della prima Intifada (1987-1993) che contò 1.258 palestinesi e 150 israeliani uccisi, e fu chiamata “dei sassi” o “delle pietre”, perché al contrario di quel che accadde nella seconda gli insorti non usarono armi da fuoco. Siamo adesso alla terza Intifada? Non sono in pochi a pensarlo. Ismail Haniyeh, il capo di Hamas nella Striscia di Gaza, ne è convinto. Ma per ora resta un incubo per la maggioranza degli israeliani come per la maggioranza dei palestinesi. Le aggressioni improvvise con dei pugnali si moltiplicano e ci sono stati sei morti a Gaza nelle ultime ore.
La scintilla c’è stata. Ma non l’incendio. Ancora una volta la Spianata delle Moschee è al centro della contesa, alimentata da tanti episodi sanguinosi che non hanno, per ora, l’estensione di un’insurrezione. I palestinesi accusano il governo di Gerusalemme di limitare ai musulmani l’accesso al luogo santo, ma soprattutto di non respingere in modo netto le rivendicazioni degli estremisti israeliani. I quali, malgrado la proibizione, scortati dalla polizia armata, raggiungono al mattino presto la Spianata. «La considerano una zona di guerra poiché ci vengono scortati dai mitra», dicono i custodi palestinesi delle moschee. Inoltre molti sono convinti che gli israeliani vogliano distruggere le due moschee, quella di Omar (o Cupola della Roccia), e di Al Aqsa. O che si preparino a costruire tra le moschee una sinagoga, che sarebbe il terzo Tempio, dopo i due distrutti nell’antichità. Le ripetute smentite non sono ascoltate, destano invece sospetto i propositi provocatori degli estremisti israeliani.
Collere e fantasmi si addensano attorno alla moschea di Al Aqsa. Essa sorge sul terzo luogo santo dell’Islam, dopo la Mecca e Medina, e sulla sua immagine appesa alle pareti di molte case si concentrano tanti sentimenti, non essendo l’indipendenza neppure più un miraggio. La bandiera nazionale alle Nazioni Unite, il rango di osservatore della Palestina presso quell’istituzione tanto internazionale quanto impotente, le audaci parole del presidente dell’Autorità nazionale palestinese all’Assemblea generale di New York, come del resto tutte le puntuali dichiarazioni e promesse fatte in numerose capitali del mondo, hanno finito con l’avere scarso valore per i giovani e le giovani (numerose sono le ragazze che partecipano alle manifestazioni), nati dopo il 1993, l’anno degli accordi di Oslo che sembrava fossero il preludio alla nascita di uno Stato palestinese. Quel che è visibile, concreto, è il continuo espandersi degli insediamenti, tra il Mediterraneo e il Giordano, nel nome del Grande Israele.
Abu Mazen, il capo dell’Autorità nazionale palestinese, incarna la delusione. Impopolare tra i suoi, perché rappresenta l’impotenza politica o addirittura la collaborazione, non è preso sul serio neppure dagli israeliani. È una dignitosa figura che non incide sulla realtà. Quindi con scarso credito come leader cui è affidata la missione, per ora impossibile, di creare uno Stato. In queste ore il governo di destra, presieduto da Benyamin Netanyahu, considera con sospetto Abu Mazen, il quale ha condannato le violenze degli israeliani ma non quelle dei palestinesi. E quest’ultimi pensano che i rapporti tra le forze dell’ordine dell’Autorità palestinese e quelle israeliane non siano state congelate, come si dice, ma che in effetti continuino con discrezione.
Nel Medio Oriente costellato di vulcani in eruzione, il conflitto israelo-palestinese sembrava un cratere sonnolento, tutt’altro che spento, ma quieto. Periferico. Le vicine guerre hanno cambiato le alleanze. Israele è affiancata di fatto all’Arabia Saudita, e in generale ai paesi sunniti in lotta contro l’Iran sciita sul campo di battaglia siriano. Dove si incrociano aerei americani e russi. Tutti belligeranti interessati a problemi incandescenti, immediati, e non a crisi croniche e in apparenza e irrisolvibili come quella tra palestinesi e israeliani. Invece la vecchia ferita sanguina ancora, ed è esposta al pericolo di un contagio, in una regione generosa in armi e fanatismi. Mentre in Terra Santa c’è urgente bisogno di ragione.
IL SOLE 24 ORE - Ugo Tramballi: "Venerdì di scontri a Gaza, Hamas invoca l'Intifada"
L'articolo di Ugo Tramballi è vergognoso. Ad esso si applicano i medesimi punti di critica che abbiamo rivolto al pezzo di Valli in questa stessa pagina.
1) In più, secondo Tramballi quella di questi giorni è "la rivolta in Cisgiordania". Non terrorismo, secondo Tramballi, ma semplice - e legittima - "rivolta".
2) Israele uccide, secondo Tramballi, senza motivo. Spara sui "poveri palestinesi". Ama il sangue, insomma.
3) Gaza è stata "rasa al suolo". Tramballi ha bene appreso la lezione di Goebbels: ripetere una menzogna 1000 volte trasforma questa stessa in una verità.
4) "In questa storia non è nemmeno difficile individuare l’occupante e l’occupato. Privi del controllo politico riguardo al loro futuro, ai palestinesi non è rimasto che prendere dalla parte del manico il coltello vero e proprio". Qui Tramballi giustifica il terrorismo palestinese, lo considera una reazione legittima, anzi, l'unica reazione possibile. E' la parte peggiore dell'articolo.
Un pezzo di pura propaganda.
Ecco l'articolo:
Ugo Tramballi
È stato uno di quei venerdì da Intifada, anche se gli esperti non sanno come definire questa nuova rivolta araba. Morti, feriti, accoltellamenti, sparatorie e manifestazioni nelle zone palestinesi e dentro Israele, in luoghi diversi e lontani fra loro. L’episodio più grave è accaduto al confine tra la Striscia di Gaza e Israele. Circa 200 palestinesi si sono avvicinati ai reticolati per sostenere la rivolta in Cisgiordania. Dopo alcuni colpi di avvertimento, gli israeliani hanno sparato sui manifestanti uccidendo 6 palestinesi e ferendone una sessantina. Ismail Haniyeh, il primo ministro di Hamas a Gaza, incita alla mobilitazione generale, tentando di cavalcare la rivolta, esplosa dal basso come nelle due precedenti intifade.
Anche questa volta sia l’Autorità palestinese della Cisgiordania che quella di Hamas nella Striscia di Gaza, sono stati colti di sorpresa. In nome di uno Stato per i palestinesi e della sopravvivenza di Israele - anche se l’uno e l’altro sono spesso stati solo un pretesto - sono state combattute molte guerre mediorientali. Una generazione dopo l’altra, eserciti, milizie, organizzazioni terroristiche, diplomazie, potenze regionali e globali si sono confrontate, raramente trovandosi d’accordo. Ma il conflitto fra israeliani e palestinesi è sempre stato una guerra fra due popoli: due risorgimenti nazionali, due gruppi etnici e religiosi. Ed è a questo che la Terra Santa è tornata, alla faida. Perché quando i risorgimenti e le sette non trovano uno sbocco politico, non resta che la faida: gente normale palestinese accoltella gente normale israeliana, e viceversa. Nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme, in mezzo alla gente, alla fermata di un autobus, nell’ora della preghiera; a Tel Aviv nella sua modernità tecnologica spiritualmente così lontana dal conflitto ma geograficamente così vicina; perfino nel Negev dove un israeliano ha compiuto la sua vendetta tribale accoltellando quattro arabi: anche se due di loro non erano palestinesi ma beduini, cittadini d’Israele.
Ogni angolo di strada può essere un piccolo campo di battaglia, ogni passante che non appartenga alla stessa setta può essere il nemico. Giovedì sera la conferenza stampa indetta da Bibi Netanyahu, il primo ministro, sembrava un consiglio di guerra: accanto a lui c’erano uomini dell’intelligence e militari. Posti di blocco, operazioni e arresti preventivi nei territori palestinesi, agenti infiltrati nel campi profughi, distruzione di case palestinesi. Il menù era quello tradizionale, la risposta militare quasi sempre data alla necessità di sicurezza. In un Paese di uomini e donne in armi, il sindaco di Gerusalemme ha invitato i suoi concittadini a girare sempre armati. Perfino Netanyahu ha ammesso che a questa faida che lui ha chiamato terrorismo, le risposte militari sono limitate e dal risultato incerto. A meno che non si rada al suolo la Cisgiordania – a Gaza è stato fatto ma non ha smesso di essere un problema – non c’è modo di fermare i “cani sciolti” che colpiscono chiunque e ovunque.
Forse anche il primo ministro israeliano incomincia a capire che il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, pur con tutti i suoi limiti, è un interlocutore. Dopo averlo ignorato e delegittimato per anni, le proteste giovanili palestinesi e le aggressioni di queste settimane dimostrano che oltre Abu Mazen c’è solo un crescente radicalismo palestinese. Il terrorismo qaidista e del califfato non è ancora arrivato in Israele e Palestina, ma cresce tutto attorno. Se non gli uomini e le armi, le idee radicali penetrano oltre le frontiere più munite. Il muro elevato dagli israeliani ferma i kamikaze imbottiti di tritolo, ma non c’è casa che non abbia un oggetto contundente, non esiste cucina senza coltelli. È una banale e prevedibile legge del contrappasso. Gli israeliani hanno il coltello politico dalla parte del manico: loro hanno sempre determinato il destino dei palestinesi, fissato calendari e contenuti del negoziato di pace quando c’era; hanno sempre avuto la forza d’imporre le loro priorità, ignorando quelle palestinesi. Tutto si può dire di questo conflitto secolare, nel quale ognuna delle parti ha avuto il tempo di accumulare colpe. Ma in questa storia non è nemmeno difficile individuare l’occupante e l’occupato. Privi del controllo politico riguardo al loro futuro, ai palestinesi non è rimasto che prendere dalla parte del manico il coltello vero e proprio. Non serve per vincere le guerre ma testimonia una disperazione senza limiti.
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