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Il Giornale - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
10.10.2015 E' guerra: gli attentati contro israeliani si moltiplicano, scontri anche al confine con Gaza
Analisi di Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari, Guido Andruetto intervista Aaron Appelfeld

Testata:Il Giornale - La Stampa - La Repubblica
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Guido Andruetto
Titolo: «L'intifada dei palestinesi diventa guerra di religione - Battaglia a Gaza, sette palestinesi uccisi negli scontri - 'La sola possibilità contro la violenza è tornare al dialogo'»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 10/10/2015, a pag. 13, con il titolo "L'intifada dei palestinesi diventa guerra di religione", l'analisi di Fiamma Nirenstein; dalla STAMPA, a pag. 16, con il titolo "Battaglia a Gaza, sette palestinesi uccisi negli scontri", l'analisi di Maurizio Molinari; dalla REPUBBLICA, a pag. 4, con il titolo "La sola possibilità contro la violenza è tornare al dialogo", l'intervista di Guido Andruetto a Aaron Appelfeld.

Ecco gli articoli:

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Terroristi palestinesi

IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein:  "L'intifada dei palestinesi diventa guerra di religione"

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Fiamma Nirenstein

Sull'onda di una bugia, ovvero che la Moschea di Al Aqsa sia in pericolo e che Israele voglia distruggere lo status quo, cresce la violenza in Israele. È una bugia che rende alla leadership di Fatah: il mondo islamico tutto deve volgersi, nonostante la grande confusione imperversante in Siria, verso lo stanco conflitto israelo palestinese; ma è anche una bugia pericolosa, che accende la miccia del fanatismo religioso e porta lo scontro sempre più lontano da ogni soluzione politica.

Gli accoltellamenti, dopo che in una settimana sono stati colpiti, da lame e pietre, fra morti e feriti, decine di persone, sono stati tre: a Gerusalemme è stato ferito un ragazzo di 14 anni, ad Afula, nel nord, ha colpito un'araba israeliana, a Kyriat Arba è stato assalito un soldato di guardia. Un giovane squilibrato ebreo, ha ferito a sua volta, nel città di Dimona, tre arabi in una sua pazza vendetta che è stata subito condannata da Netanyahu. E sul bordo di Gaza, mentre Ismail Haniyeh dichiarava la partecipazione di Hamas agli scontri, l'esercito ha ucciso sei palestinesi mentre, con una manifestazione di 400, cercavano di entrare in Israele. Abu Mazen cerca di raffreddare l'aria, consapevole di quanto un'esplosione possa danneggiare anche la sua posizione, e Netanyahu proibisce ai ministri e ai membri del Parlamento di salire alla Spianata delle Moschee.

Sembra impossibile quanto sangue la storia possa versare in questa piccola bellissima città. La gente per strada ora sa che chiunque può nascondere un coltello. Di nuovo torna il silenzio per le strade dei momenti in cui, con la seconda intifada, i terroristi suicidi svuotavano gli autobus e i caffè. Tuttavia oggi come ieri i cittadini di Gerusalemme sono decisi a non mollare. Ogni volta che un terrorista attacca, anche la gente si fa sotto. Il sindaco di Gerusalemme ha detto «chi ha un'arma se la porti dietro». È una confessione di impotenza, e questo dà la misura dell'angoscia nella capitale. Alcune famiglie si tengono a casa i bambini; chi deve andare a fare la spesa o a lavorare si affretta verso l'obiettivo. In auto, le pietre sono assassine, e chi viaggia lo sa. Analizzare bene questa situazione per batterla è indispensabile. Si tratta di decidere se è gestibile politicamente, oppure agire con forza come fece Ariel Sharon con l'operazione «Scudo di Difesa».

Al momento il governo spera che le cose si acquietino. Netanyahu mantiene la mano tesa verso colloqui con i palestinesi; apre a sinistra per un governo di unità nazionale. Alla sua destra, si chiede un pugno più duro. Il fatto è che l'incitamento palestinese fa appello a sommi principi religiosi, sui quali non si discute, si invoca Allah e si combatte. È la fede in pericolo, è la fede che deve vincere, proprio come per Hamas, o per l'Isis, o per l'Iran degli Ayatollah. Jamal Muhaisen del Comitato Centrale di Fatah scrive su Al hayat al Jadida «la presenza dei settler è illegale e quindi ogni azione contro di loro è legittima» e Mahmoud Ismail del Comitato Esecutivo dell'Olp scrive che l'uccisione di Naama e Eitam Henkin di fronte ai loro quattri bambini «è un dovere nazionale». Rispetto ai tempi dell'Intifada è diverso il profilo sociale del terrorista: oggi egli non appartiene necessariamente a un'organizzazione come Hamas o la Jihad islamica o a derivati di Fatah. Il nuovo terrorista ha fra i 17 e 23 anni ed è semplicemente convinto che gli ebrei abbiano deciso di distruggere o di occupare la Moschea di Al Aqsa.

Abu Mazen fomentando questo punto di vista ha pompato l'ampia ala ultrareligiosa islamista eccitata anche dal richiamo di ciò che accade nel Medio Oriente circostante. Questo fa sì che ogni appello a soluzione in cui ci si incontra, si tratta, si prevedono due stati per due popoli, sia ben pallido di fronte all'imperativo di sconfiggere i nemici dell'Islam. L'affermazione fantasiosa che gli ebrei salgano in frotte alla Spianata (l'anno passato in realtà contro quattro milioni di ingressi islamici ce ne sono stati 200mila di turisti cristiani e 12mila di ebrei) per impossessarsene e che si debba difenderlo è una tromba di guerra per tutto il mondo islamico e una fonte di intrattabile aggressività per i palestinesi. D'altra parte, il fatto che i giovani implicati negli assassinii non vengano armati con tritolo o altri potenti mezzi tipici di un'organizzazione, lascia sperare nella loro riassorbibilità. Le prossime ore diranno il vero.

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Battaglia a Gaza, sette palestinesi uccisi negli scontri"

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Maurizio Molinari

Hamas spinge centinaia di palestinesi a dare l’assalto al confine con Israele per guadagnare sul campo la guida dell’«Intifada per Gerusalemme», come la definisce il suo leader Ismail Haniyeh.

Il giorno della rabbia
La scelta di Hamas di inserirsi nella serie di attacchi palestinesi con Israele che dura da tre settimane viene annunciata al mattino dai portavoce a Gaza: «È il Giorno della Rabbia». Terminate le preghiere del venerdì, due colonne di giovani palestinesi marciano verso Israele. La prima punta verso Nahal Oz, a Nord della rete metallica che segna la frontiera. Si avvicinano al confine, lanciano molotov, sassi e pneumatici infiammati. L’intenzione è sfondare la rete, penetrare in Israele. È un nuovo tipo di attacco.

La nuova tattica
I servizi di sicurezza israeliani si aspettavano qualcosa di simile sul Golan, da parte di gruppi jihadisti legati allo Stato Islamico. Ma la sfida della «marea umana» arriva da Gaza. La risposta sono i tiri dei cecchini, per fermare i «capi della colonna» come spiegano fonti militari. Hamas spinge la folla ad andare avanti. Il bilancio è di almeno 7 morti - tutti fra i 15 e 20 anni - e 60 feriti ma oltre una dozzina di loro, spiega il ministro della Sanità a Gaza, Shadi Hussam Dawla, «versano in gravi condizioni perché hanno ferite al collo o alla testa».

La seconda colonna di «shabab» palestinesi marcia verso Erez, il maggiore posto di confine, ma si ferma prima dello scontro con i militari. Fonti palestinesi a Gaza spiegano che si è trattato nel complesso di «circa 400 persone» che sono partite da Sajaiya, l’area urbana a Nord di Gaza che fu teatro della più violenza battaglia fra Hamas e israeliani nel conflitto dell’estate 2014. È una maniera per sottolineare continuità fra allora e oggi. Sono le parole di Haniyeh a indicare le intenzioni di Hamas: «È l’Intifada per Gerusalemme, ogni palestinese deve battersi per liberare la nostra terra». Haniyeh parla da leader di tutti i palestinesi: «Sono 20 anni che tentiamo inutilmente di negoziare, è arrivato il momento di rafforzare l’Intifada».

Il fronte della West Bank
Quanto avviene a ridosso di Nahal Oz spinge centinaia di palestinesi della West Bank a dare battaglia contro i soldati: scontri duri avvengono a Hebron, Betlemme e davanti all’insediamento di Beit El ovvero poco oltre il perimetro di Ramallah. Un ufficiale israeliano parla delle «violenze più intense da molti mesi». Il timore dell’Autorità nazionale palestinese è che Hamas si imponga nella West Bank. Per questo il presidente Abu Mazen dà ordine ai servizi di sicurezza di «cooperare con gli israeliani per porre fine alle violenze» e auspica «proteste popolari pacifiche». Ma l’impatto è scarso e Saeb Erakat, segretario generale dell’Olp e braccio destro di Abu Mazen, cambia approccio e tuona: «Israele si è macchiata di un massacro orribile contro il popolo palestinese».

Con sassi e coltelli
Gli attacchi singoli continuano in più località israeliane. A Gerusalemme uno studente di 15 anni viene accoltellato e pochi minuti dopo la stessa sorte tocca un agente di Kiryat Arba, l’insediamento vicino a Hebron, dove l’aggressore viene ucciso. Ad Afula è una palestinese a tentare di accoltellare una guardia, prima di essere colpita, mentre i sassi investono l’auto su cui viaggiano moglie e tre figli di Yossi Dagan, leader degli insediamenti, che feriti vengono ricoverati in ospedale.

Il movimento islamico
Da Nazareth, in Galilea, parla il leader del Movimento islamico, Sheik Raad Salah, accusato da Israele di fomentare le violenze degli arabo-israeliani. «Resisteremo con la forza a qualsiasi misura contro di noi, anche se ci mettono fuori legge» fa sapere, ottenendo «solidarietà» dai parlamentari arabo-israeliani.

LA REPUBBLICA - Guido Andruetto: "La sola possibilità contro la violenza è tornare al dialogo"

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Aaron Appelfeld

«Purtroppo quello che sta accadendo non è nulla di nuovo, sono fatti drammatici che si ripetono ciclicamente ogni due o tre anni. Se mi si chiede qual è il mio giudizio su questa nuova ondata di violenza, io per prima cosa dico che non è nuova: è qualcosa che ci accompagna da troppo tempo». Non si sente volare una mosca nella casa di Aharon Appelfeld a Gerusalemme. Niente tv o radio in sottofondo, nessun computer collegato, il cellulare è spento dal mattino. Il vecchio fax l’ha acceso solo per spedire all’editore italiano Guanda alcune note sul suo prossimo libro, Tre lezioni sulla Shoah. Eppure l’eco dei drammatici scontri che stanno insanguinando la striscia di Gaza ed Israele, è arrivata nella stanza piena di libri.

Appelfeld, che cosa la preoccupa di più del clima di queste ore? «Sono allarmato per questa recrudescenza di atti violenti, che a me sembrano destinati a reiterarsi a oltranza, ma mi sento anche di dire che le cose possono comunque migliorare, che c’è lo spazio per cambiare la situazione. Sono ottimista nonostante quello che sta succedendo».

Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha invocato altri scontri per liberare Gerusalemme. Quali segnali di continuità nota con le precedenti rivolte? «Non penso che si debba parlare di un ritorno dell’Intifada. E’ una visione errata. Le insurrezioni cui stiamo assistendo in queste ore non hanno certamente la spinta che aveva l’Intifada. Il fuoco di oggi non è forte come lo era in passato».

E’ convinto quindi che sia più facile domarlo? «Esattamente, si può riuscire a controllare la situazione. Ed è quello che mi auguro accada al più presto. Credo che il premier israeliano Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen potrebbero dare un contributo fondamentale, insieme, per spegnere o quantomeno per cercare di moderare l’entità di questo ennesimo focolaio di violenza».

Qual è la sua reazione di fronte all’uccisione di ragazzi palestinesi e agli attacchi contro cittadini israeliani? «È una violenza che mi addolora profondamente. Mi fa male constatare che non viviamo in pace. E sono sconcertato anche perchè quei giovani non tiravano bombe ma pietre. Le pietre possono essere pericolose ma restano pietre. Non sono bombe».

Quale via di uscita vede, allora? «Dobbiamo trovare dentro di noi, la forza e la volontà per il cambiamento e per migliorare le nostre vite».

Da dove si dovrebbe cominciare? «Mi piace pensare che si debba volare alto. Il mio sogno è la pace, bisogna aspirare ad essa, lavorando perché le scuole siano un luogo in cui stare insieme, perché si possa pregare insieme pur avendo fedi differenti, perché si possa vivere insieme serenamente. Tutti hanno bisogno di queste cose».

Israeliani e palestinesi, però, non le sembrano sempre più lontani? «Non bisogna perdere la speranza di recuperare il dialogo. Nonostante tutto dobbiamo sforzarci per alimentarlo in tutte le forme possibili».

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