Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/10/2015, a pag.1-30, con il titolo "Difendere Israele sarà reato ?", l'editoriale di Angelo Panebianco.
Angelo Panebianco merita un sincero plauso per il suo editoriale uscito in prima pagina sul Corriere di oggi. Invitiamo i lettori a farlo anche direttamente, la sua e-mail è: angelo.panebianco@unibo.it
Angelo Panebianco
Quando verrà superata quell’invisibile barriera al di là della quale difendere Israele diventerà un reato? Quando arriverà il momento, qui in Europa, in cui affermare che Israele è un’isola di civiltà circondata da regimi liberticidi (in tutte le possibili varianti: dal più soft paternalismo autoritario al più feroce totalitarismo religioso) basterà per farsi trascinare in un tribunale sotto l’accusa di incitamento all’odio razziale?
La leggenda nera su Israele (Israele Stato criminale, nazista, eccetera) si diffonde, praticamente inarrestabile, in Europa. Il Parlamento europeo ha appena votato, a larga maggioranza, a favore della identificazione delle merci provenienti dai territori palestinesi sotto controllo israeliano contribuendo così a rafforzare la spinta già in atto in molti Paesi al boicottaggio dei prodotti israeliani.
Da molto tempo ormai, assistiamo a sempre più frequenti gesti di inimicizia nei confronti delle università israeliane da parte di ricercatori europei. La diffusione e il radicamento della leggenda nera su Israele va di pari passo con la forte crescita, da diversi anni a questa parte, degli episodi di antisemitismo. Le due cose sono collegate.
Nelle manifestazioni del 2014 in Francia e in Germania contro l’intervento militare israeliano a Gaza c’era chi gridava «morte agli ebrei» senza che gli altri si sentissero in dovere di allontanarlo dal corteo. E non andrebbe dimenticato che l’attentato del gennaio scorso contro il settimanale satirico Charlie Hebdo è stato accompagnato da un altro sanguinoso attentato contro un negozio di alimentari gestito e frequentato da ebrei. Diffusione della leggenda nera e ripresa dell’antisemitismo sono spiegabili.
Prendiamo il caso della Gran Bretagna dove (insieme ai Paesi scandinavi) la campagna anti israeliana ha fin qui conseguito i maggiori successi.
Come conferma anche il fatto che alla guida del Partito laburista sia stato appena eletto un tale, Jeremy Corbyn, che definisce «amici» Hamas e Hezbollah, chiarendo così anche il suo pensiero a proposito di quella che i suddetti amici chiamano «l’entità sionista».
I generosi finanziamenti dei governi arabi alle istituzioni educative britanniche hanno certamente moltissimo a che fare con la mobilitazione degli intellettuali di quel Paese contro Israele.
La pressione combinata della comunità islamica britannica e dei finanziatori mediorientali spiega bene perché la società britannica sia oggi all’avanguardia nella campagna anti israeliana e perché, contestualmente, l’ostilità per gli ebrei sia in forte crescita.
Gli intellettuali influenzano i media, i media influenzano la pubblica opinione, la quale, a sua volta, influenza la politica. Proprio se si guarda al ruolo degli intellettuali si capisce anche perché laddove (come in Italia) le istituzioni educative restano al riparo dai finanziamenti politicamente orientati provenienti dal mondo arabo, non c’è nessuna garanzia che fenomeni come quelli che si verificano in Gran Bretagna possano essere arginati ancora per molto.
Prendiamo la vicenda dell’invito — che, si spera, venga ora definitivamente ritirato — del Salone del libro di Torino all’Arabia Saudita. Paolo Mieli ( sul Corriere del 30 settembre) ha ricordato quale regime sia in realtà quello saudita. E benissimo hanno fatto il sindaco Fassino e il presidente della Regione Chiamparino, facendo leva sulla condanna a morte di un dissidente, a pronunciarsi contro la presenza saudita a Torino.
Resta il fatto che l’invito c’era stato. Resta che, prima del pronunciamento di Fassino e Chiamparino, soltanto i radicali avevano fatto una meritoria campagna contro quella presenza.
Resta che le manifestazioni di dissenso da parte di intellettuali erano state pochissime. Come mai? Come è stato possibile invitare in quello che dovrebbe essere uno dei templi della libertà di pensiero, nel silenzio e nella connivenza di tanti, un campione dell’integralismo religioso, la principale centrale di diffusione nel mondo della versione più oscurantista dell’Islam (quella wahabita)?
Una cosa è dire che con i sauditi è ancora indispensabile trattare sia per ragioni economiche (petrolio) che geopolitiche (equilibri mediorientali). Una cosa assai diversa è proporli come i plausibili partner di incontri e dibattiti culturali. È evidente che non lo sono. Così come non lo sono — detto così, per inciso, allo scopo di prevenire altri futuri inviti — i nemici dei sauditi, gli iraniani.
Nonostante ciò che si è detto e sentito in Occidente dopo l’accordo sul nucleare, gli iraniani non sono diversi: sembra accertato che i «riformisti» che fanno capo al presidente Hassan Rouhani siano altrettanto zelanti dei conservatori quando si tratta di sopprimere dissidenti e minoranze in nome della religione.
La verità è che l’invito ai sauditi aveva un senso. Era una scommessa sul disinteresse di tanti intellettuali italiani per le condizioni che permettono l’esercizio della libertà.
C’è una connessione con la leggenda nera su Israele. È probabile, infatti, che molti di coloro che non hanno avuto nulla da eccepire sui sauditi a Torino siano anche, contemporaneamente, severi critici di Israele. È la solita storia, la stessa dei tempi del fascismo o della Guerra fredda. Una parte cospicua degli intellettuali non sa rinunciare al vizio antico di preferire le società illiberali.
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