Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/09/2015, a pag.52, con il titolo "Etgar Keret", l'intervista allo scrittore israeliano di Marco Mathieu.
Etgar Keret
Tel Aviv- L'appuntamento è all'inizio del pomeriggio. E all’incrocio dei nostri voli. Tra Varsavia, Copenhagen, Roma. E Tel Aviv. Perché è qui, nell’area arrivi dell’aeroporto Ben Gurion spazzata dall’aria condizionata, che ci viene incontro a passi brevi e veloci un sorriso a forma di scrittore. Etgar Keret, anni quarantotto compiuti da un mese, camicia, jeans, zainetto e una reputazione addirittura da “genio della letteratura contemporanea” — secondo il New York Times — conquistata con lo stile incisivo e ironico dei suoi libri, tradotti in trentuno lingue e pubblicati in trentacinque paesi. Cinque raccolte di racconti, ma anche film, sceneggiature. E quest’anno il successo di un volume che somiglia a un romanzo ( Sette anni di felicità , in Italia per Feltrinelli) dedicato alla sua famiglia. «Ho dovuto convincere molti tra i miei editori in giro per il mondo, chiedevano perché volessi evadere dal mio stile dei racconti brevi. Ma ero convinto di doverlo scrivere e ora ne sono felice». Terminal 3: gli annunci dei voli si susseguono e riportano le nostre parole all’incrocio tra arrivi e partenze. «A un festival mi hanno chiesto perché, se amo tanto la mia famiglia, la lascio a casa così spesso per viaggiare», sorride lo scrittore israeliano più popolare dopo la “triade” Grossman-Yehoshua-Oz. Pensieri che si formano e diventano parole, mentre attraversiamo bagagli e persone in attesa. «È un paradosso lo so. Ma il viaggio fa parte di me, della nostra cultura: pensa alla figura dell’ebreo errante. Il nostro essere cosmopoliti viene dalla tradizione ebraica. E andare in altri posti per poi tornare a casa aiuta a non far ristagnare il tuo punto di vista. Vale ovunque, ma secondo me vale soprattutto qui, in Israele». Paese dove notoriamente gli scrittori mantengono un ruolo importante, intellettuali e artisti riconosciuti come tali. Keret annuisce, poi stoppa l’imminente domanda con un gesto della mano. «Per me essere artista significa essere empatico e avere opinioni che non necessitano del consenso. Qui per tradizione gli scrittori possono, anzi debbono scrivere le proprie opinioni con editoriali sui media. Ma...». Eccolo, il momento di incertezza, la riflessione necessaria prima di proseguire. Usciamo e troviamo almeno dieci gradi in più e quella luce che è solo qui. «La capacità di comprensione della società israeliana è diminuita, aumentano l’intolleranza e gli estremismi. E questo ha avuto un effetto sulla libertà degli artisti ». Gli chiediamo di personalizzare il concetto. «Io non credo di essere molto politicizzato, nulla nella mia identità e nella mia formazione lo è. E devo confessare che quando scrivo un editoriale ormai è come se già sapessi che mi prenderò un cazzotto in faccia. Perché sui social network ti attaccano in modo estremamente diretto, violento. Con minacce molto esplicite. A me è già successo. E così talvolta finisce che rinuncio. Se guardo a Grossman e agli altri, penso invece che loro siano nati esattamente per assumere quel ruolo sociale. Io no. Quello che io voglio fare è scrivere storie, non mi piace essere insultato soltanto per aver espresso un’opinione». Un soldato è uscito a fumare e ora siede di fronte a noi, una coppia si affretta trascinando trolley e bambini, dalla porta arrivano soffi di aria condizionata che si perdono nel calore diffuso. «Quando scrivo fiction mi sento bene, come se volassi, galleggiando nell’aria. Quando mi chiedono un editoriale invece, è come se dovessi lavare i piatti o portare fuori la spazzatura: a chi piace fare quelle cose? E comunque di sicuro non è ciò che penso debba essere considerata l’arte». Rientriamo e cerchiamo un tavolo libero al bar più defilato. Sandwich, yogurt, insalate e, sì, anche caffè. Un americano e un espresso, grazie. Keret sorride, poi alza lo sguardo oltre le vetrate del terminal per raccontarci di Tel Aviv. «Amo la mia città, un’isola nel mare d’intolleranza che sta ricoprendo Israele, ma quando hai un figlio ti interroghi sulle prospettive. E non riesco a essere molto ottimista. Credo che abitare a Tel Aviv sia un privilegio, ma è come avere un biglietto di prima classe su un volo destinato a schiantarsi…». Ride con l’espressione seria negli occhi, mentre racconta quel che accade a pochi chilometri da qui, dove in una strada tranquilla del centro, a pochi minuti di cammino dalla spiaggia e al primo dei due piani di una palazzina semplice, dentro un appartamento di due stanze, salotto, cucina, bagno e balcone, ha costruito la sua famiglia e quel suo modo speciale di scrivere. «A Tel Aviv ci sono cose che non mi piacciono ma prevale la consapevolezza che sia una fortuna poter stare bene tra le persone, anche quelle che non la pensano come te, senza violenza ». Non basta, c’è dell’altro in quella che l’archistar Libeskind definisce «una metropoli in miniatura». «Molti si sono trasferiti per realizzare i loro sogni: se fai musica vieni a Tel Aviv e troverai un batterista, se fai film è qui che incontrerai sceneggiatori e operatori, lo stesso vale per il teatro. Ecco perché tutto è molto visionario in questa città». I suoi occhi si illuminano come quando la bocca ha appena composto i suoni delle parole di una dichiarazione d’amore, in qualsiasi lingua. La stessa espressione dedicata al figlio Lev, nove anni, che torna spesso tra le sue risposte, così come sulle sue pagine. «Stare con lui è come andare a scuola e imparare, la sua curiosità potrebbe sembrare provocazione...». Esempi? «Siamo stati in Europa: abbiamo affittato un’auto, attraversato paesi e confini. È stata una vacanza molto bella. Tornati a casa Lev ha chiesto di ripetere l’esperienza qui, in Medio Oriente. Ma noi in Siria o Libano non possiamo andarci, e superare la frontiera con la Giordania è possibile ma sconsigliato perché pericoloso. Così ho dovuto provare a spiegargli l’assurdità in cui viviamo. Da quando è nato ci sono già state due guerre ed è mio compito insegnargli che non è così che dovrebbe funzionare il mondo». Si ferma, guarda intorno. Sembra quasi visualizzare i blocchi di cemento e il filo spinato, le armi e i muri, quando dice, anzi chiede: «Come spieghi a tuo figlio i check-point? Oppure, cosa gli rispondi quando lui ti chiede: “ Papà perché a Tel Aviv incontriamo gente di tutto il mondo, turisti italiani e giapponesi, francesi e australiani, ma nemmeno un signore palestinese?”». Il silenzio è interrotto dal fruscio delle voci di passeggeri intorno a noi. Avviandoci verso le partenze, al piano di sopra, tra scale mobili e controlli, gli chiediamo cosa è cambiato nella narrazione familiare dei Keret. «Mio padre arrivò qui e visse il sogno di una nazione di ebrei dove saremmo stati salvi, ultima tappa del viaggio dopo l’orrore dell’Olocausto. Mi ha insegnato la speranza e la certezza di avere dei diritti e un senso di sicurezza. Ma quando parlo con Lev oggi non c’è quasi più nulla di quel che mi ha tramandato mio padre». Ci fermiamo di fronte all’ultimo varco, in mezzo ai viaggiatori in coda con il passaporto in mano. «Quando viaggio sono geloso di quel che vedo nelle altre società, incontro persone che hanno attività tramandate per generazioni e sanno che continueranno a esistere. Certo c’è la crisi economica, ma se la caveranno, andranno avanti quasi impermeabili alla Storia. Invece qui devi sempre avere un piano B, immaginarti capace di fare altro, trasformarti. Magari partire». La voce al microfono è perentoria, non c’è più tempo. «Ultima chiamata per il volo...».
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