Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 18/09/2015, a pag. I, con il titolo "Come ha fatto Obama ad arrivare in mutande da Putin", l'analisi di Carlo Panella; con il titolo "Mosca ha già fatto il primo passo per allargare la sua coalizione", l'analisi di Paola Peduzzi.
Ecco gli articoli:
Vladimir Putin, Barack Obama
Carlo Panella: "Come ha fatto Obama ad arrivare in mutande da Putin"
Carlo Panella
Barack Obama ha conseguito un incredibile e triste primato: se deciderà di incontrare Vladimir Putin a New York, sarà il primo presidente americano della storia a presentarsi a un vertice con un leader del Cremlino in palese, totale svantaggio militare – e ancor più politico – sul fondamentale quadrante della crisi siriana. La situazione paradossale è la conseguenza della strategia obamiana di appeasement con l’Iran. Infatti Putin ha un alleato siriano, Bashar el Assad, che ha ribadito quale unico “dominus” possibile di un processo di transizione, e ha i “boots on the ground”, quantomeno a Latakia.
Obama invece non ha nessun alleato siriano, non ha nessun “partito amerikano” in Siria, ed è nella scabrosa posizione di chi ha due alleati, la Turchia e l’Arabia Saudita che gestiscono con spregiudicatezza i loro “partiti siriani”, inclusa al Nusra-al Qaida. La debolezza è talmente irreale che lo stesso Assad si può permettere oggi di irridere sprezzantemente Obama: “Sappiamo che la Turchia sostiene il Fronte al Nusra e lo Stato islamico, fornendo loro armi, denaro e volontari. Ed è risaputo che la Turchia ha rapporti stretti con l’occidente.
Recep Tayyip Erdogan e il suo primo ministro, Ahmet Davutoglu, non possono fare una sola mossa senza coordinarsi innanzitutto con gli Stati Uniti e poi con gli altri paesi occidentali”. Inchiodato nella palese contraddizione di primo leader del baricentro della Nato, che non è in grado – per proprie deficienze – di impedire che la Turchia, paese Nato, aiuti al Nusra-al Qaida (sul punto Assad ha ragione), Obama sarà costretto a chiedere a Putin di intercedere sull’Iran perché interceda su Assad perché infine si metta da parte. Cosa che né Putin né l’Iran faranno mai. Soprattutto perché – una volta diventato proconsole di Mosca nella regione di Latakia e Tartous – nessuno sarà in grado di detronizzarlo, anche se perde Damasco. Inoltre, la fallimentare strategia obamiana in medio oriente ha permesso a Putin di sostituire a tal punto il Cremlino alla Casa Bianca in un paese strategico come l’Egitto, che la settimana scorsa il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha deciso di riallacciare le relazioni diplomatiche con la Siria. E’ la legittimazione di Bashar el Assad, un suo rafforzamento nella prossima, convulsa fase, da parte del più grande e prestigioso stato arabo – il sigillo del definitivo distacco del Cairo da quella sintonia con la Casa Bianca iniziata da Anwar al Sadat nel 1972, quando cacciò i consiglieri russi che ora ritornano in massa.
Bashar al Assad e i suoi protettori
Obama dunque, se mai incontrerà Putin, si troverà come mai nessun presidente americano in una posizione subordinata, impotente, priva di alternative perché non ha forze militari, alleati, né strategia sulla Siria. Una posizione subordinata che è la prima, dirompente conseguenza dell’accordo Stati Uniti-Iran sul nucleare. Una posizione di debolezza estrema conseguente alla logica che spinse Obama nel 2013 a fare dietrofront all’ultimo minuto e a siglare con Assad quel ridicolo, scandaloso, accordo sul disarmo chimico. Quell’accordo ha avuto l’unico effetto di riammettere con piena dignità Assad nella platea internazionale, salvo poi permettergli di continuare liberamente a usare armi chimiche a bassa tecnologia con effetti letali sui civili. Una logica obamiana tanto elementare, quanto cinica – e questo ci può stare – quanto perdente – e questo è un crimine – dettata dall’imperativo di non danneggiare gli interessi geopolitici dell’Iran (il cui baricentro è appunto la continuità del regime di Assad in Siria) per non pregiudicare l’accordo sul nucleare. Il tutto avviene nel nome di una “lotta al terrorismo” che non viene combattuta da nessuno dei due leader.
Putin infatti costruisce la sua base a Latakia e dispiega la sua flotta nel palese intento strategico di difendere un mini-stato alawita, annesso di fatto alla Federazione russa, che coroni il sogno secolare di Mosca sin dal tempo degli zar di disporre una testa di ponte russa nel Mediterraneo. Non è previsto l’impiego dei “boots on the ground”, dei suoi paracadutisti e dei fanti di marina nel contrasto del terrorismo sugli altri fronti siriani, neanche nella cruciale e imminente battaglia per Damasco. Obama intanto continuerà la sua guerra aerea con bombardamenti che fanno tanto scena, ma che non hanno mai impedito allo Stato islamico e ad al Nusra di aumentare il territorio da loro controllato. Se si entra dentro lo scenario bellico siriano, la posizione in cui Obama si è messo diventa incredibile. Nel suoi due viaggi a Mosca il generale dei pasdaran Qassem Suleimaini ha raffinato una strategia, che, come rivelano le fonti israeliane del Foglio, prevede la suddivisione dei fronti: ai russi la difesa dell’enclave strategica di Latakia e ai pasdaran e Hezbollah la difesa di Damasco. Difesa contro le milizie dello Stato islamico e contro le concorrenti e avversarie milizie dell’Esercito della Conquista (Jaish al Fatah), di cui fa parte al Nusra-al Qaida, sostenuto da Turchia, Arabia Saudita e Qatar.
Obama non ha mai mosso un dito, né detto una parola, contro il ruolo militare decisivo dei pasdaran e di Hezbollah in Siria e ora paga il prezzo di questo silenzio (sempre motivato dalla volontà di non irritare l’Iran) non solo con la sua totale irrilevanza politico- militare, ma anche con un quesito diabolico. Durante la battaglia di Damasco i suoi bombardamenti aerei chi colpiranno? In ogni caso saranno decisivi pro o contro Assad: se bombarda lo Stato islamico aiuta il dittatore direttamente; se bombarda l’Esercito della conquista, colpisce i terminali siriani di un paese suo alleato nella Nato e dell’Arabia Saudita, fulcro, assieme all’Egitto, dell’intero mondo arabo. Se non bombarda, ammette la sua irrilevanza. Questo è soltanto l’inizio del dispiegarsi delle conseguenze politiche implicite nell’accordo sul nucleare, che è la realizzazione del discorso di Obama del 6 giugno 2009 al Cairo, in cui offrì una “mano tesa” agli ayatollah per definire una gestione concordata del medio oriente. Inizio disastroso a cui seguirà – e sarà interessante verificarle – l’implementazione nel merito dell’accordo sul nucleare con le ispezioni, la attuazione della diminuzione delle centrifughe, dello stock di uranio raffinato eccetera.
E’ la riprova, insomma, del fatto che quell’accordo è sciagurato non tanto – o non solo – in sé: è rovinoso sul piano politico. Perché si basa su un giudizio di affidabilità del regime di Teheran – pur smentito da anni dalla destabilizzazione iraniana di Libano, Iraq, Siria e Yemen – non comprendendo quale è la straordinaria natura del regime di Teheran. Regime nato da una rivoluzione popolare che tiene ancora insieme – di fatto armonicamente – Kerensky, Trotzky e Stalin, per fare una citazione di scuola. Là dove la Cina stupisce l’occidente dimostrando di saper far convivere uno Stato autoritario e a pianificazione socialista con una enorme componente di capitalismo non solo libero, ma selvaggio, l’Iran lo spiazza con un nuovo modello di stato rivoluzionario. Un sistema che si regge sull’equilibrio tra la componente riformista e quella tutta e solo dedita alla “esportazione della Rivoluzione islamica, a iniziare da Baghdad”, vecchia parola d’ordine di Khomeini. Un regime che mai si adatterà alla parola d’ordine : “La rivoluzione in un paese solo”. Con il non piccolo particolare, che sfugge sia a Obama sia alle cancellerie occidentali (e al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni) che il nucleo duro del potere, militare e industriale, è saldamente nelle mani della componente rivoluzionaria che sa fare tattici passi indietro quando pensa che fare avanzare la componente riformista, alla fine, ne rafforzerà le possibilità di “esportare la rivoluzione”. Come sta accadendo in Iraq, Siria, Libano e Yemen.
Paola Peduzzi: "Mosca ha già fatto il primo passo per allargare la sua coalizione"
Paola Peduzzi
“Penso che ci sia una cosa che ora condividiamo con gli Stati Uniti – ha detto Vitaly Churkin, l’inviato all’Onu della Russia, alla Cbs mercoledì – Non vogliono che cada il governo di Bashar el Assad in Siria. Non vogliono che cada. Vogliono combattere lo Stato islamico in modo che non ci siano danni per il governo siriano. Ma non vogliono che il governo siriano si avvantaggi della loro campagna aerea contro lo Stato islamico. E’ davvero una situazione complicata”. Le parole del ciarliero Churkin – che hanno fatto imbestialire l’inviata americana all’Onu, quella Samantha Power che inorridisce davanti ai regimi, sbraita, dice che favorire un dittatore che gasa il suo popolo “non può funzionare”, ma non riesce a convincere Barack Obama a indignarsi allo stesso modo – segnalano qual è il primo obiettivo della Russia: creare una convergenza sulla tenuta di Assad, che sul campo esiste, ma che formalmente è da sempre smentita.
Se non fate cadere Assad, dicono i russi, allora possiamo parlare: gli esperti continuano a escludere un coinvolgimento attivo delle forze armate di Mosca contro lo Stato islamico, ma la grande coalizione contro il terrorismo invocata da Vladimir Putin è un collante sufficiente per avviare un dialogo tra Russia e Stati Uniti che ormai gli americani considerano inevitabile. Nessuno ha mai creduto davvero che Assad potesse cadere sotto i colpi dell’operazione militare aerea guidata dagli americani: sentendo i generali del Pentagono due giorni fa davanti alla commissione del Senato, è stato di nuovo chiaro che non si è mai lavorato a una strategia alternativa ad Assad, né dal punto di vista dell’intelligence né da quello della formazione delle forze di opposizione.
Ora i russi vogliono far sì che quel che è stato sancito sul terreno venga esplicitato, in modo che il loro uomo a Damasco – loro non hanno bisogno di un’alternativa – possa avere la legittimazione che chiede come partner della lotta al terrorismo jihadista dello Stato islamico, esattamente come sono ormai legittimati gli iraniani e le loro forze armate, i pasdaran e Hezbollah. Che gli americani possano davvero convergere verso una coalizione a guida russa dai chiari connotati antiamericani e anti israeliani sembra piuttosto bizzarro, soprattutto per il fatto che condividere piani strategici e militari con le forze al Quds iraniane sembra ben oltre le premesse dialoganti del deal sul nucleare e invero troppo sciagurato persino per il tentennante Obama – come ha quasi urlato davanti al Congresso americano il premier israeliano Benjamin Netanyahu: “Il nemico del mio nemico è mio nemico!”.
La settimana prossima il premier israeliano farà una visita d’emergenza a Mosca per discutere con Putin del fatto che l’afflusso di armi sofisticate russe in Siria e le operazioni a braccetto con i pasdaran sono una minaccia per Israele. Ma accordarsi sulla tenuta di Assad non è poi così difficile. Al Congresso americano, i democratici iniziano a chiedere se davvero allontanare il rais siriano sia una soluzione efficace. I francesi, che sono gli europei più interventisti e anche i meno filoassadisti, hanno già cambiato i toni durante l’estate: Assad non se ne deve più andare, ma “è necessario creare le condizioni per una transizione che neutralizzi” il dittatore siriano.
Se si pensa che alla parola “transizione” ormai Assad si prende il lusso di dire (alle televisioni russe, naturalmente): ma come potete chiedere la mia testa visto che combatto il terrorismo?, è chiaro che le condizioni non si creeranno più. Alcuni diplomatici sono stati più espliciti. Il ministro degli Esteri tedesco, Ursula von der Leyen, ha detto allo Spiegel che ci sono “interessi mutuali” con la Russia in Siria. Il ministro degli Esteri austriaco aveva detto già la settimana scorsa che l’occidente “deve coinvolgere Assad e i suoi alleati, l’Iran e la Russia, per combattere lo Stato islamico (il presidente austriaco era a Teheran a incontrare il suo collega iraniano Hassan Rohani, in quei giorni, e si era fatto convincere dalle parole suadenti del presidente della Repubblica islamica: ci sediamo a qualsiasi tavolo ci garantisca la stabilizzazione della situazione siriana). Il ministro degli Esteri spagnolo, José García-Margallo y Marfil, ha dichiarato più o meno le stesse intenzioni: i negoziati con Assad “sono cruciali” per garantire un cessate il fuoco in Siria (argomentazione invero poco comprensibile: chi smetterebbe di sparare se si apre il dialogo con il regime di Damasco? Lo Stato islamico? La coalizione a guida americana? Il regime stesso di Damasco?).
Molti governi europei sono convinti che l’intervento russo in Siria possa avere effetti positivi sul contenimento dei flussi migratori. Putin accusa gli americani, sostenendo che la crisi dei rifugiati era prevedibile e che l’accanimento della coalizione con i bombardamenti l’ha accelerata, facendo intendere che un intervento a favore di Assad potrebbe creare la stabilità necessaria per fermare la fuga. Per questo inchinarsi alla regia russa non risulta poi così difficile, in un’Europa che da sempre si divide sul proprio rapporto con Mosca e che è abituata a farsi risolvere i propri problemi di sicurezza da qualcun altro.
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