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Corriere della Sera Rassegna Stampa
15.09.2015 Se all'Europa di oggi manca un Churchill
Editoriale di Angelo Panebianco

Testata: Corriere della Sera
Data: 15 settembre 2015
Pagina: 1
Autore: Angelo Panebianco
Titolo: «Rimettere i piedi per terra»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA del 14/09/2015, a pag. 1, con il titolo "Rimettere i piedi per terra", l'editoriale di Angelo Panebianco.

A destra: Winston Churchill

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Angelo Panebianco

Si può forse dire che non è ancora apparso all’orizzonte un nuovo Winston Churchill in grado di dare la sveglia agli europei. Le benemerenze della Merkel (mettere in riga i dissipatori di risorse altrui senza scassare l’unione monetaria, usare il bastone del comando per tentare di governare il flusso dei profughi) sono indubbie ma anche circoscritte. C’è sproporzione fra quanto l’Europa fa o si propone di fare e l’intensità del terremoto mediorientale in atto (la guerra civile siriana, il caos libico, l’avanzata dello Stato islamico). Di fronte a così radicali sconvolgimenti governi e opinioni pubbliche dovrebbero interrogarsi su come impedire che la guerra arrivi prima o poi, sotto forma di devastanti azioni terroristiche, nelle stesse città europee.

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È difficile non concordare sul fatto che gli europei abbiano un interesse vitale alla sconfitta dello Stato islamico (condizione necessaria, oltre a tutto, perché si trovi una soluzione di compromesso in Siria). C’è chi pensa che occorrerà aspettare la nuova Amministrazione americana e un radicale cambiamento della strategia statunitense in Medio Oriente. Ma se gli europei, per lo meno, si chiarissero le idee fra loro, potrebbero poi parlare agli alleati americani, quale che sia il presidente in carica, con una voce sola. Ci sono eccellenti ragioni morali (fermare lo sterminio di esseri umani, nonché la distruzione di un patrimonio culturale che appartiene a tutti) per voler mettere alle corde lo Stato Islamico. Ma c’è anche il nostro interesse a non diventare i suoi prossimi bersagli. C’ è qualcosa, anzi molto, che non va nel modo in cui noi europei invochiamo abitualmente «soluzioni diplomatiche», e ci muoviamo di conseguenza, per fermare l’azione di coloro che noi stessi definiamo «nemici».

Sembra quasi che la nostra ricetta diplomatica consista nel tentare di sfinire il nemico a chiacchiere nella speranza che, alla fine, per disperazione, si suicidi. Sembriamo ignorare che, nelle zone di guerra, non può avere successo alcuna azione diplomatica che non sia sorretta dalla forza militare e dalla disponibilità a farne uso. Federica Mogherini, l’alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, dell’Europa fa propria anche la fragilità, quando immagina, ad esempio, che la guerra in Siria possa essere semplicemente risolta facendo sedere le parti intorno a un «tavolo» ( Corriere della Sera , 6 settembre).

Come se, in guerra, non siano gli esiti dei conflitti armati a decidere se e quando, e con quali carte negoziali in mano, le parti combattenti si renderanno disponibili a trattare. Sfruttando l’inerzia occidentale, gli «scarponi sul terreno» li sta mettendo Putin. Forse, come pensano certi analisti militari, le forze che egli è in grado di schierare possono servire solo a puntellare il regime di Assad, non a infliggere, in alleanza con gli iraniani, duri colpi allo Stato islamico. Forse è davvero così. Ma, di sicuro, più il tempo passa senza che gli occidentali siano capaci di scuotersi e di dotarsi di una strategia plausibile, più il loro spazio di manovra andrà a ridursi.

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Proprio in un’area così vitale per la sicurezza europea. In un certo senso, possiamo dire che noi europei (soprattutto noi europei occidentali) siamo vittime del nostro successo. Abbiamo alle spalle il più lungo periodo di pace della storia d’Europa. È umano che ciò abbia creato in tanti, forse nella schiacciante maggioranza, la falsa convinzione che la pace di cui godiamo appartenga all’ordine naturale delle cose, che essa non sia — come invece è — il frutto di equilibri che possono in qualunque momento spezzarsi. Gli europei (con la parziale eccezione di francesi e inglesi) sembrano ormai largamente inconsapevoli del fatto che la pace, per durare, debba essere tutelata dalla forza e dalla volontà di usarla contro le minacce.

Non c’è nessun «ordine naturale», in quanto tale pacifico: la pace di cui abbiamo goduto è stata garantita, durante la Guerra fredda, dalle armi americane e poi, a Guerra fredda finita, dal fatto che lo «scongelamento», in Medio Oriente e altrove, degli equilibri affermatesi dopo la Seconda guerra mondiale, non si è verificato immediatamente ma ha richiesto un certo lasso di tempo. A conclusione di un’epoca (davvero d’oro) in cui gli europei hanno potuto illudersi di vivere in un mondo post-politico, senza più le grandi contese mortali fra visioni del mondo contrapposte, essi, purtroppo, devono oggi rimettere i piedi per terra, devono fare la fatica di ricominciare a pensare politicamente.

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lettere@corriere.it

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