Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/09/2015, a pag.II, con il titolo " Il socialista lunare ", il commento di Paola Peduzzi.
Jeremy Corbyn
Bin Laden, Arafat, Assad ...
La figura del candidato leader del partito laburista inglese Jeremy Corbyn viene tratteggiata nel pezzo di Paola Peduzzi con toni a metà fra l'ironico e il serio. Secondo noi il primo non si addice alle idee di Corbyn. Sottovalutarne la pericolosità non si addice ad un esame serio del candidato. Se dovesse vincere e diventare capo dei laburisti, sarebbe un gran brutto giorno. Peduzzi dedica poche righe all'ideologia di Corbyn, particolarmente sui leader politici che ritiene esemplari della politica che attuerà nel caso dovesse diventare capo del governo alle prossime elezioni parlamentari. Corbyn, è un razzista della peggior specie, antisemita, fanatico odiatore di Israele e dell'Occidente, amico e sodale dei criminali più pericolosi, da Bin Laden ad Arafat, crede in Hamas, la Russia di Putin e la Siria di Assad. Il partito laburista nelle sue mani diventerà una mina vagante.
Sadiq Khan
Ma veniamo al 'caso Sadiq Khan', che si è candidato nel partito laburista inglese alle prossime elezioni (2016) a sindaco di Londra. Si dà il caso che Khan sia figlio di immigrati pakistani musulmani , quindi lui stesso della medesima religione. Diversi giornali hanno titolato " un sindaco musulmano per Londra?", certo, con un punto interrogativo, ma la domanda conteneva un avvertimento: attenti, è un musulmano, facendo di ogni erba un fascio. Khan, da quanto apprendiamo dai media, appartiene invece a una famiglia sì di pakistani, ma completamente integrata nella società inglese, è in parlamento dal 2005, i suoi programmi politici sono quelli di un politico europeo che ha idee progressiste su come guidare un paese, esattamente come tutti gli altri candidati, inglesi da generazioni. Negargli questo diritto, solo perchè musulmano, sarebbe una forma di razzismo inaccettabile. Khan non è la Sharia che avanza, ma - almeno dal suo comportamento sino ad oggi - è quell'islam moderno la cui assenza da sempre lamentiamo. Chi lo critica a priori, si comporta da razzista.
Ecco il pezzo su Corbyn:
Paola Peduzzi
Oggi attorno a mzzogiorno sapremo se Jeremy Corbyn, quel signore con la barba bianca, la coppola e il borsello a tracolla, sessantasei anni di frugalità e ribellione, sarà il nuovo leader del Labour britannico. I suoi rivali, che finora hanno giocato il ruolo delle comparse riottose e disperate, ripetono che nulla è ancora detto: la storia della leadership dei laburisti è costellata di sorprese dell’ultimo momento – le elezioni di maggio poi ci hanno insegnato a non credere a nessun sondaggio, a nessuna analisi, a nessuna previsione – e tutto può accadere. Ma certo, nella stagione dello storytelling, a raccontare la storia del Labour degli ultimi mesi è stato unicamente Corbyn, con le sue proposte da socialismo lunare, la sua fronte corrucciata su un fisico secco, la sua capacità di esaltare giovani e giovanissimi, che in questo zio bizzarro hanno individuato la loro icona.
Da dove sia arrivato, Jeremy Corbyn, non si sa. Se chiedi cosa è accaduto da quando ha depositato la candidatura all’inizio dell’estate a quando è diventato il frontrunner con titoloni e sondaggi dedicati, nessuno riesce a dare una risposta precisa. Forse non è accaduto nulla, forse è proprio questo il problema: l’ala riformatrice del partito, dopo l’umiliazione nelle urne nel maggio scorso e le dimissioni dell’ex leader Ed Miliband, ha spiegato che la sinistra old fashion non ha più cittadinanza. Ma poi non è riuscita a presentare un piano e un nome in grado di ridare compattezza a un elettorato che – oggi lo confessa – non ha votato il Labour perché Miliband non era rassicurante per niente.
I blairiani, pronti a decrittare le motivazioni della sconfitta con una grinta che soltanto i nostalgici degli anni Novanta sanno apprezzare appieno, hanno fatto un pasticcio via l’altro, bruciando un candidato che pareva popolare (Chuka Umunna), dividendosi sugli altri, impantanandosi in un piagnisteo deludente.
E così è arrivato Corbyn, il primo ad avere la consapevolezza di non essere rappresentativo di alcunché – certo non del Labour, essendo lui un indisciplinato cronico – ma sostenuto dai sindacati e dal coro anti austerità e anti sistema che, in contemporanea, si alzava nel resto dell’Europa ispirandosi ai capricci dei greci di Syriza. Il candidato più improbabile della compagine è così diventato, nella sonnolenza altrui, il più probabile di tutti. E non è l’unico: oggi si porta molto il leader attempato, con una solida carriera di politico anti establishment alle spalle, qualche vezzo retorico o personale (per Corbyn vale la frugalità, la casa piccola, la bicicletta, i vestiti del discount: solo con le mogli è stato poco sobrio, se ne contano tre e si raccontano liti e sgarbi sfrenati) e con un seguito inaspettato tra i giovani.
Fa parecchio male constatarlo, ma “the boy” è morto. Non Tony Blair in persona, “the boy” per eccellenza, il ragazzo che arrivò e cambiò tutto il Labour, che anzi ha cercato di resuscitare se stesso e il suo pensiero riformatore e liberale in tutti i modi, chiedendo ai laburisti di farsi un trapianto di cuore nel caso provassero qualche sentimento per Corbyn.
E’ morto semmai la fascinazione per il ragazzo che arriva e cambia le regole, che tinteggia la casa e dice: venite tutti, forse non lo sapete ancora, ma è qui che volete stare. Blair questo piccolo mutamento di psicologia sociale non l’ha capito, e le sue parole hanno ottenuto l’effetto contrario: gli elettori si sono tenuti il loro cuore e lo hanno fatto diventare matto, non soltanto perché Blair è un brand ormai inavvicinabile in buona parte del paese (l’ingratitudine di questo elettorato è di proporzioni incalcolabili), ma perché è la storia dei boys a essere stata sepolta. Con l’eccezione dell’Italia e di poche altre realtà, la rottamazione è finita, ma non è stata superata dal ritorno dell’establishment, non è che il sistema abbia trovato una cura ai ragazzi monelli e spaccatutto che hanno sbaraccato quel che c’era, non è che il sistema abbia risanato quel che D’Alema ha definito “il cedimento strutturale”: no, la rottamazione è finita per mano degli zii con il cappello o il parrucchino, un po’ suonati e parecchio irragionevoli, con una lunga esperienza, una certa età e un passato da integerrimi custodi di valori di eguaglianza e giustizia, o perlomeno percepiti come tali.
Basta guardare, al di là dell’oceano, il candidato democratico alla Casa Bianca, Bernie Sanders, e al di là della barricata della sinistra, il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Donald Trump. Bolle estive, certo – qui si continua ostinatamente a credere che ora scoppia tutto, e alla fine rido io –, ma a parte che l’estate sta finendo e la bolla invece no, oggi a guardare da vicino il Labour, con Corbyn o senza Corbyn, si vedono soltanto macerie: le storie raccontate da questi zii burloni non sono destinate a scomparire in fretta.
Corbyn, come si sa, è nel Parlamento inglese dal 1983, non ha quasi mai votato seguendo le istruzioni del Partito laburista, ha conquistato premi per la sua ribellione, porta la maglietta della salute, ha una parlata pacata e precisa, prende in mano il microfono privo dell’istinto da showman, ma racconta una favola al suo pubblico nella quale il contesto è tutto banalmente condivisibile – chi è che non vorrebbe più eguaglianza o più pace o più aiuti economici? – e il dettaglio è tutto banalmente impraticabile. Lo scollamento dalla realtà, tenuto insieme dalle venature bizzarre del coro anti austerità, è ciò che unisce il signor Corbyn, e il suo aggirarsi solitario in metropolitana senza alzare mai lo sguardo, alla massa di giovanissimi che applaudono felici ai suoi comizi. Il politico esperto dell’anti sistema, così poco assimilabile alla classe dirigente del suo paese – di destra e anche di sinistra – e dunque così improbabile nelle sue sortite, diventa un pifferaio magico per i ragazzi ammaliati dall’anti sistema e al contempo affascinati dall’effetto vintage.
“So che se dovesse fare il premier, il Regno Unito non diventerebbe mai l’espressione di un’utopia socialista”, ha detto un ragazzo corbyniano a una giornalista di NewStatesman, ma almeno “è uno che crede in qualcosa”, gli altri non si accorgono che con i loro abiti tutti uguali finiscono per non dire mai nulla di diverso? Corbyn crede che la Banca centrale inglese non debba più essere indipendente e anzi debba dare soldi direttamente ai cittadini, con l’ormai celebre “quantitative easing for people”; Corbyn crede che la nazionalizzazione delle poste e delle ferrovie e delle banche e di tutto quel che vi viene in mente sia la soluzione contro l’irresponsabilità capitalista; Corbyn crede che gli Stati Uniti siano un male e che il Regno Unito starebbe molto meglio fuori dalla Nato e semmai nell’orbita di influenza della Russia e del siriano Assad; Corbyn crede che gruppi come Hamas siano interlocutori validi, convincibili soprattutto, e che la fine di Bin Laden, ammazzato in un raid notturno delle forze speciale americane, sia stata una tragedia.
Crede in qualcosa, certo, Jeremy Corbyn: sulle conseguenze di questo pensiero nessuno si interroga granché, e anzi da quando un gruppo di economisti è riuscito a sdoganare la Corbynomics come se fosse davvero una dottrina, anche “il guru” di Corbyn è diventato una star.
Richard Murphy, cinquantasette anni, è definito il “Varoufakis del Regno Unito”, lui dice di non sentirsi così, forse perché il ministro greco ha già perso il posto quando lui ancora non ne ha uno, ma intanto si gode lo status, argomenta in stile stiglitziano la sua posizione e sponsorizza il proprio libro dal sapore padoaschioppano – “The joy of tax” – dicendo: “Il libro riguarda la seconda parola più eccitante del mondo composta da tre lettere e che finisce con la ‘x’”.
Murphy vuole esportare il quantitative easing popolare in tutto il mondo e dice che “quando hai delle belle idee, ti piace che siano utilizzate”.Per ora ci ha pensato Corbyn. L’uomo con la barba bianca parla come un ragazzo di vent’anni, che ha la barba pure lui, d’ordinanza.
In Italia il grillismo ha oliato un meccanismo molto simile, ma non si è insediato nel cuore del Partito democratico – e si è smembrato in fretta. Nel Regno Unito l’unione tra lo zio bizzarro e il giovane tendenza hipster sta diventando leadership, e la resa di fronte al fenomeno è dimostrata dal fatto che l’altra parte del Labour ha deciso di non combattere, di sperare in un colpo di teatro finale senza fare nulla per determinarlo, pensando che la stella Corbyn si possa staccare dal cielo per lo stesso motivo per cui si è incastonata lassù: per un caso.
L’errore di valutazione è talmente chiaro che nelle ultime settimane i blairiani hanno cominciato a dire che, se sarà infine Corbyn il loro leader, lavoreranno assieme a lui: qualche commentatore ha parlato di scissione, ma poi si è guardato intorno e ha visto che di anime da scissionisti, di leader scissionisti, oggi non ce ne sono.
Owen Jones, il giovane cantore del corbynismo, è la rappresentazione perfetta di quel che sta succedendo. Classe 1984, Jones è un giornalista della sinistra radicale, saggista, attivista, columnist del Guardian e da qualche mese anche del NewStatesman. Cresciuto a pane e trotzkismo, si definisce un socialista di quarta generazione, è gay, scrive parecchio di omofobia e sessismo, e a 27 anni ha pubblicato un libro sulla classe operaia e la sua demonizzazione – “Chavs: The Demonization of the Working Class” – che ha avuto un successo pazzesco, ponendo le basi di quella che, nel 2013, sarebbe diventata l’Assemblea del popolo contro l’austerità, una serie di eventi e di manifestazioni organizzata da Jones.
Nel libro, il giovane attivista ricostruisce la storia inglese negli stessi termini che oggi tornano buoni per raccontare la devozione nei confronti di Corbyn, un’assonanza che ha ragioni antiche e ripetute fino allo sfinimento, ma che ora suona buffamente nuova e innovatrice.
Le riforme della Thatcher negli anni Ottanta, secondo questa versione, distrussero le comunità della working class, trasformando milioni di lavoratori più o meno stabili e più o meno remunerati in un esercito di lavoratori temporanei pagati malissimo e assunti a seconda delle esigenze.
Allo stesso tempo prese piede l’idea dell’individualismo e della meritocrazia, contagiando anche il Partito laburista, che non si accorse che il lato oscuro della meritocrazia – ha scritto l’Economist nella recensione del libro di Jones – “è, secondo la stessa idea di Michael Young che coniò il termine, l’assunzione che i poveri sono poveri perché se lo meritano, a causa della loro pigrizia, della loro ostinazione o semplicemente della loro stupidità”.
Così si demonizzano la classe operaia e il povero, e questa assunzione diventa principio da establishment, secondo Jones, con l’arrivo del New Labour. Ad agosto, il cantore delle idee di Corbyn, il tramite tra il mondo azzimato del leader e il mondo dei giovani, scriveva sul Guardian che oggi gli elettori di sinistra scappano dal New Labour: i rappresentanti del “center left” farebbero meglio a inventare qualcosa di nuovo da dire, piuttosto che demonizzare il corbynismo, come avevano fatto con i poveri.
Tutto torna, insomma, nel mondo di Owen Jones – non è che la sinistra-sinistra è brutta, è che ci disegnano così – e il cerchio si chiude attorno a un euroscetticismo degno degli indipendentisti di Nigel Farage: Jones auspica una Lexit, l’uscita della sinistra dal gruppo che sostiene la causa europea.
Un paio di giorni fa, la Reuters ha ricordato che nel 1975 al referendum europeo Jeremy Corbyn votò “no”. La presenza di Jones, il bravo ragazzo colto, moderno, propositivo, è un altro elemento distintivo del golpe degli zii matti. Se si va a vedere chi è andato a lavorare per Bernie Sanders, nella sua campagna elettorale americana socialisteggiante, si ritrovano i nomi di molti talentuosi giovani campaigner dei democratici. Questi ragazzi non hanno dato la loro disponibilità a Hillary, che è nel filone degli zii sì, ma non ha nulla di integerrimo né di anti sistema dentro di sé e attorno a sé (non è nemmeno matta).
Anzi, semmai da questo punto di vista è meglio Joe Biden: è ben più simile lui a uno zio mattacchione che la ex first lady, e infatti non si è ancora mosso nulla e i social media già ribattezzano la candidatura sì-no-forse dell’attuale vicepresidente come la “Biden mania”.
Sanders è l’Howard Dean dei nostri giorni, anzi: una persona molto informata sui fatti mi ha detto che tutto comincia con Dean. Il medico del Vermont candidato alle primarie dei democratici nel 2004 fu spianato dopo qualche settimana di idillio mediatico e di piazza, ma oggi i suoi eredi sono ben più tenaci e organizzati – e hai voglia a farli scoppiare.
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