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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.09.2015 L'America e le coalizione: strategie
Analisi di Guido Olimpio

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 settembre 2015
Pagina: 11
Autore: Guido Olimpio
Titolo: «La guerra dei cieli»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/09/2015, a pag.11, con il titolo " La guerra dei cieli ", il commento di Guido Olimpio.


Guido Olimpio

WASHINGTON- I raid da soli non bastano, ma senza le incursioni chissà quali sarebbero ora i confini dello Stato Islamico. Di certo hanno salvato Kobane anche se è costata macerie e profughi. Di certo hanno rallentato l’avanzata in alcuni settori e tolto di mezzo molti jihadisti. Dai 10 mila ai 15 mila mujaheddin. Gli ultimi a farlo i britannici, con un target killing per sbarazzarsi di un paio di terroristi ed esperti di cyber-propaganda. Le bombe, però, non hanno sconfitto il nemico. Perché la scelta di affidarsi all’aviazione è stato pur sempre un ripiego. Un contenimento — con forze ridotte — per evitare perdite. L’America di Obama ha optato per la scelta minima, comunque costosa. Il conto provvisorio è di 3,7 miliardi di dollari, 9,9 milioni al giorno, dei quali 4,6 in missili, razzi e bombe. Ripartiamo proprio dai numeri. Dall’8 agosto di un anno fa la coalizione ha condotto oltre 6600 «strikes» in Siria e in Iraq. Sono stati sganciati 23 mila ordigni e sono state eseguite 23 mila missioni di rifornimento in volo. In agosto la media giornaliera delle sortite è stata di 23,6. Quasi zero rispetto ad altri conflitti. Cifre dietro le quali c’è un fatto chiaro: la maggior parte del lavoro è ricaduta sugli Stati Uniti, nonostante l’alleanza sia composta da una dozzina di Paesi. La Francia, che ora ha iniziato le ricognizioni in Siria per preparare gli attacchi, ha coperto solo il 2,6 per cento, limitandosi all’Iraq. Alcuni Stati hanno mandato i loro caccia ma non è chiaro se abbiano «aperto il fuoco». Washington ha fatto finta di nulla. Serviva uno schieramento internazionale per evitare l’unilateralismo. Non una guerra «amerikana», bensì un impegno corale. Anche se poi tutti chiedono spiegazioni agli Stati Uniti. La campagna ha avuto due fasi. La prima ha preso di mira le strutture militari. E spesso gli aerei statunitensi hanno distrutto materiale made in Usa. I tank, i fuoristrada Humvee, i blindati che l’esercito iracheno ha abbandonato nelle mani del Califfo. Messi fuori combattimento anche 119 carri armati, 2.577 postazioni di combattimento. Successivamente il Comando centrale si è dedicato all’apparato economico dello Stato Islamico: 196 gli impianti petroliferi inceneriti. Nei primi mesi del 2015 si è passati alla seconda fase per eliminare i quadri del movimento. Missioni che hanno portato a risultati, anche se l’Isis rimpiazza in fretta i suoi «martiri». L’uccisione di numerosi esponenti è stata legata al successo dell’intelligence che ha violato il sistema di sicurezza dell’avversario ed ha contato su buone informazioni. Azione combinata della Cia — con un centro a Langley — e del comando speciale Jsoc a Fort Bragg, North Carolina. Gli agenti segreti hanno fatto da battitori con spie e occhi elettronici. I militari hanno chiuso la trappola con i droni. Due le basi: Incirlik (Turchia), al Salti (Giordania). Le vittorie dei «mietitori senza pilota» hanno bilanciato gli aspetti negativi. C’è un’indagine per capire se siano stati gonfiati gli esiti dei blitz. In diverse occasioni i velivoli sono rientrati senza essere riusciti a scovare il bersaglio in quanto non c’erano elementi a terra in grado di guidarli. Ancora: l’Air Force avrebbe colpito pochi campi d’addestramento (appena il 3%) per evitare danni collaterali, che pure ci sono. Stessa prudenza per i lunghi convogli di mezzi. I difensori della strategia hanno replicato sostenendo che il processo di ricerca-e-distruggi è complesso. Tutto inizia con la ricognizione che raccoglie i dati, migliaia di ore di video, registrate da droni, velivoli, satelliti che confluiscono in «fusion center» per l’analisi. Come a Shaw, in South Carolina, dove le immagini sono studiate per poi essere inviate al Centcom e allo snodo Jfacc, dislocato in Kuwait. Altre informazioni sono rastrellate dagli avamposti sul terreno, a Erbil, a Bagdad e pochi altri siti. Infine l’attacco. Con i suoi tempi: tra le 2 e le 3 ore di volo prima per raggiungere l’area di intervento. Ora che Ankara ha messo a disposizione Incirlik sono sufficienti 20-30 minuti. Sono poi nati patti operativi per singole battaglie. A Kobane i curdi hanno beneficiato di un rapporto quasi diretto con gli Usa attraverso i peshmerga iracheni. Fissavano le coordinate e le passavano al comando per raid precisi. Scenario che si è ripetuto di recente a Tuz, strappata all’Isis dall’offensiva congiunta di curdi e alleati, con 72 incursioni dalla fine di luglio ad oggi. Proprio la collaborazione in Kurdistan è usata da chi invoca lo schieramento di militari che possano illuminare i bersagli. Un coinvolgimento di reparti che la Casa Bianca ha sempre escluso autorizzando però azioni delle forze speciali. Colpi di mano per liquidare un capo terrorista o per cercare di liberare gli ostaggi. Episodi di guerra leggera che riflettono due preoccupazioni di Barack Obama. 1) La sfiducia nei partner locali, tutti molto ambigui. Alcuni dicono di partecipare all’offensiva però non lo fanno, ma al tempo stesso offrono le piste per gli aerei. O — si pensi alla Turchia — sono nemici dei migliori alleati di Washington, i curdi. 2) La volontà di non impelagarsi, di nuovo, in un conflitto di lunga durata. Almeno sotto il suo mandato. I cocci, parafrasando l’ex segretario di Stato americano Colin Powell, restano. La lotta al Califfo è un dossier che brucia tra le mani. E toccherà al prossimo presidente decidere se basterà affidarsi ancora all’aviazione o decidere di mandare gli «scarponi sul terreno » .

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