Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/09/2015, a pag.44, con il titolo " La solitudine degli ucraini " il commento di Paolo Mieli.
La parola 'olocausto' nel titolo del libro edito da Rizzoli, doveva essere sostituito da 'Shoah', come ormai usa in Italia, dopo decenni di pedissequa traduzione dell'infausto e offensivo 'Olocausto', come usa ancora in GB e Usa. Peccato, un'occasione persa.
Paolo Mieli
Anche negli anni Trenta il mondo fu destabilizzato da quel che accadde in Ucraina. Fu proprio l’Ucraina (assieme alla Polonia) ad essere protagonista di un sisma che avrebbe messo in moto la valanga della Seconda guerra mondiale. E a proposito della Polonia — la cui invasione da parte delle truppe naziste il 1° settembre 1939 fu l’atto d’inizio del secondo grande conflitto — colpisce quanto fosse trascurata negli scritti hitleriani degli anni Venti. Scritti nei quali, pure, era già in grande evidenza l’ostilità nei confronti del popolo ebraico. Eppure, nei confronti della Polonia e dell’Ucraina, Adolf Hitler fu intellettualmente sciatto. Lo nota lo studioso dell’università di Yale Timothy Snyder in una delle pagine iniziali del libro Terra nera. L’Olocausto tra storia e presente , che esce domani da Rizzoli. La Polonia verrà menzionata da Hitler, per di più come «auspicabile alleata», solo dopo il 1933, cioè quando il capo nazista sarà già andato al potere. Ciò appare ancora più curioso, scrive Snyder, «alla luce del fatto che la maggior parte degli ebrei europei viveva proprio lì; i cittadini ebrei polacchi erano dieci volte più numerosi di quelli tedeschi; in città come Varsavia e Lodz risiedevano tanti israeliti quanto in tutta la Germania».
La Polonia, dopo la Grande guerra, era un nuovo Stato che riuniva territori di tre ex imperi: russo, asburgico e tedesco. Gli ebrei, presenti in gran numero in quasi tutto il Paese, annoveravano la maggior parte dei medici, degli avvocati, dei commercianti, e per questo «fungevano da mediatori con i mondi più vasti della conoscenza, del potere e del denaro». Pagavano più di un terzo del totale delle tasse e a loro aziende faceva capo oltre la metà del commercio estero. Perciò il resto dei cittadini interagivano con loro ogni giorno. Per di più la Polonia era il Paese che separava la Germania dall’Unione Sovietica. Il Führer commise dunque un errore con la Polonia «considerandola solo uno strumento nel quadro di una più ampia iniziativa tedesca; il Paese si comportò invece da agente politico, da Stato sovrano».
L’errore di sottovalutazione commesso in partenza con la Polonia, prosegue Snyder, se ne trascinò dietro uno di pari importanza che riguardò l’Ucraina. Mentre Hitler e i nazisti la consideravano una zona di colonizzazione, Jozef Pilsudski (tornato al potere in Polonia nel 1926) essendo lituano e avendo studiato nell’Ucraina orientale, le attribuiva una dignità statuale. Molti uomini di Pilsudski erano polacchi provenienti dall’Ucraina e sulle terre ucraine avevano combattuto la guerra del 1919-20 contro i bolscevichi. Ciò induceva i gruppi dirigenti polacchi a non guardare all’Ucraina come a una tabula rasa, una terra senza popolo, ma a considerarla — a differenza dei nazisti — un «luogo abitato da esseri umani». Di qui il loro progetto, che prese il nome di «prometeismo», che prevedeva — nel nome del titano della mitologia greca che diede all’umanità il dono della luce — l’appoggio alle nazioni oppresse contro gli imperi. E nello specifico il sostegno agli ucraini contro l’Urss.
Quando Stalin — tra il 1932 e il 1933 — provocò deliberatamente l’Holodomor, la grande carestia in Ucraina per piegare i contadini ai rigidi criteri della collettivizzazione, e causò la morte di tre milioni e 300 mila abitanti, migliaia di piccoli agricoltori, talvolta interi villaggi, fuggirono dall’Ucraina sovietica alla volta della Polonia, chiedendo ad essa che si mettesse alla guida di una guerra di liberazione dai comunisti. Nel «frettoloso rapporto» steso dalle guardie di confine polacche, incaricate di interrogare i rifugiati provenienti dall’Urss, si leggono sempre le stesse parole: gli ucraini auspicano «l’intervento armato dell’Europa» contro Stalin. Ma nel 1931 la Polonia aveva accettato la proposta sovietica di discutere un trattato di non aggressione. Trattato che firmò nel luglio del 1932, provocando la delusione degli ucraini.
Il console di Charkiv, a quei tempi capitale della regione, nel febbraio del 1933 riferiva che al suo ufficio si presentavano uomini in lacrime perché avevano lasciato morire di inedia moglie e figli. «Sulle vie di Charkiv», scriveva un altro diplomatico, «si vedono moribondi e cadaveri». Ogni notte si rimuovevano centinaia di corpi senza vita: i residenti della città si lamentavano dicendo che «la milizia non li portava via abbastanza rapidamente». Ma la milizia sovietica trascurava i morti in putrefazione, perché era indaffarata ad arrestare i vivi: contadini giunti in città, assieme ai figli sopravvissuti, per cercare di guadagnare, chiedendo l’elemosina, qualche giorno di vita. La milizia aveva l’ordine di catturare almeno duemila bambini al giorno. Nel marzo del 1933, mentre il numero delle vittime saliva da centinaia di migliaia all’ordine di milioni, il capo dei servizi segreti polacchi scriveva: «intendiamo restare fedeli» all’accordo con i sovietici «benché i russi ci provochino e ci ricattino senza sosta». Ed è per questo che il voltafaccia polacco, scrive Timothy Snyder, «poteva essere visto dagli ucraini come un tradimento e in effetti fu così che lo intesero».
Un esperto polacco nella questione delle nazionalità scrisse: «La firma del patto ha annullato la speranza di salvezza dall’estero e così il potere sovietico è diventato, agli occhi della popolazione, il padrone assoluto della vita e della morte. Questa convinzione ha trovato conferma nella strage della popolazione rurale nella primavera del 1933». In quel momento i contadini ucraini «riconobbero» che «l’ultima speranza era l’invasione tedesca e la distruzione dell’ordine sovietico». E questo proprio nei giorni in cui Hitler, quell’Hitler che nulla fin lì aveva capito né della Polonia né dell’Ucraina, andava al potere.
Il dittatore nazista, sottolinea Snyder, con ogni probabilità non colse nessuna di queste sfumature. Voleva occupare, quando fosse stato possibile, l’Unione Sovietica e impadronirsi dell’Ucraina, «ma con l’obiettivo della colonizzazione razziale e non della liberazione nazionale». Stalin e la leadership sovietica (che lo avevano già capito all’inizio degli anni Trenta, prima ancora della vittoria di Hitler) erano preoccupati soltanto dall’eventualità che la Polonia potesse intervenire nel corso della crisi provocata dalla collettivizzazione e fu per questo che intavolarono trattative con Pilsudski. I gruppi dirigenti polacchi, costretti a tagliare i budget della difesa a causa della Grande Depressione, nonostante avessero la giusta percezione del tradimento che stavano consumando a danno degli ucraini, acconsentirono a firmare il trattato con l’Urss del luglio 1932. Ed è in quelle ore che furono poste, secondo Snyder, le basi della Seconda guerra mondiale.
Pilsudski che, come si è detto, aveva accettato il patto con l’Urss perché spinto dalla necessità, cercò di riequilibrare la propria politica spingendo il proprio ministro degli Esteri Jozef Beck (nominato nel novembre del 1933) a cercare di firmare con la Germania un patto analogo a quello sottoscritto con l’Urss. E Hitler accettò tanto che i due Paesi lo sottoscrissero già nel gennaio del 1934. I polacchi, in base a quel patto, si impegnarono a impedire al congresso internazionale delle organizzazioni ebraiche di riunirsi nel loro Paese.
Stalin capì al volo l’antifona: da quel momento il suo odio all’indirizzo della Polonia fu totale, inventò su due piedi un complotto polacco ai danni della patria del socialismo, fece fuori il Partito comunista polacco e avviò «la campagna di fucilazioni etniche in tempo di pace più vasta della storia». Per lui, come disse esplicitamente, si trattava di distruggere la «feccia dello spionaggio polacco nell’interesse dell’Urss».
A questo punto la Polonia iniziò a preoccuparsi di cercare una destinazione per gli ebrei dei quali, sulla base degli accordi presi con la Germania, intendeva liberarsi. Beck riprese in considerazione un progetto del 1926, che era quello di indirizzarli verso il Madagascar. Nell’ottobre del 1936 fu autorizzato dal primo ministro francese Léon Blum a mandare sull’isola africana una missione esplorativa. Ad un tempo però i polacchi ritenevano più realistica l’ipotesi che gli ebrei si concentrassero in Palestina: fecero pressioni sul Regno Unito perché ammorbidisse il blocco delle immigrazioni e offrirono armi e addestramento all’Haganah, la principale organizzazione sionista di autodifesa in loco . Il leader del sionismo revisionista Vladimir Jabotinskij colse al volo l’opportunità e cominciò ad operare perché la Polonia ereditasse dalla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina: quello che gli appariva (e forse sarebbe stato) un primo passo verso la nascita anzitempo dello Stato di Israele. Si ebbe così il paradosso di uno Stato, la Polonia, ad un tempo filonazista ed apprezzato da una componente di rilievo del movimento sionista.
Dopo il 1935, rileva Snyder, «il regime autoritario polacco tollerò l’uso della pressione economica per indurre gli ebrei a lasciare il Paese; la polizia stroncò i pogrom, ma considerò i boicottaggi delle aziende ebree una scelta economica legittima; il parlamento proibì la macellazione kosher , anche se il divieto non fu mai applicato; la società civile si mosse nella stessa direzione; le università tollerarono che gli studenti ebrei venissero picchiati e intimiditi perché andassero a sedersi nelle ultime file delle aule, dette “banchi del ghetto”; la Chiesa cattolica romana, in Polonia e in altre parti dell’Europa, continuò a ribadire che gli ebrei erano responsabili dei mali della modernità in generale e del comunismo in particolare».
Ma, ed è questo un punto assai rilevante, «a differenza del regime nazista il governo polacco non dipinse gli ebrei come la mano nascosta dietro le crisi internazionali e le sventure della Polonia; li descrisse piuttosto come esseri umani la cui presenza era indesiderabile dal punto di vista economico e politico; l’idea di una Polonia senza ebrei era sicuramente antisemita, però non si trattava di un antisemitismo che identificava gli ebrei con i principali mali ecologici o metafisici del pianeta». Inoltre «al contrario di quanto accadde in Germania le proteste in Polonia furono accese»: il Partito socialista polacco, il più numeroso a Varsavia, «si oppose alla linea del governo, come anche il sindaco della capitale». Il partito ebraico Bund, favorevole al socialismo in Europa e alla permanenza degli ebrei in Polonia, raccolse vasti consensi nelle elezioni amministrative del 1938.
Quello stesso anno, il 1938, a settembre, durante la crisi cecoslovacca, nelle regioni dell’Ucraina sovietica vicine al confine polacco, unità dell’Urss «si spostarono da un villaggio all’altro comportandosi come squadre della morte». E mentre la Polonia cercava la protezione dell’Inghilterra, la sua intelligence militare intensificò segretamente il tirocinio di un gruppo selezionato di attivisti dell’Irgun, che in Palestina avrebbero combattuto contro gli inglesi. Sicché si ebbe il paradosso, evidenziato da Snyder, che «quando tornarono in Palestina nel maggio del 1939 quei radicali ebrei iniziarono a usare le armi e l’addestramento ricevuti dai polacchi in operazioni contro il nuovo alleato della Polonia». Nello stesso momento Stalin — che preparava il colpo a sorpresa dell’alleanza con i nazisti (il patto Molotov-von Ribbentrop) — qualche settimana dopo la rottura pubblica tra la Germania e la Polonia «fece un gesto significativo nei confronti di Hitler… liquidò Maksim Litvinov, il commissario ebreo agli Esteri». Il mondo sembrava impazzito.
Un giovane scrittore di Kielce, Gustaw Herling-Grudzinski (che nel dopoguerra sarebbe approdato in Italia, dove avrebbe sposato Lidia, una figlia di Benedetto Croce), fu catturato dai russi, che lo accusarono di aver lasciato illegalmente la Polonia alla volta della Lituania «per combattere contro l’Urss». Chiese ai funzionari di correggere il capo di imputazione: voleva sì combattere, ma «contro i tedeschi». Gli fu risposto dai russi di lasciar perdere dal momento che era «la stessa cosa». In Palestina Avraham Stern provocò una scissione dell’Irgun e fondò il Lehi, che nel gennaio del 1941 propose una «collaborazione tra la nuova Germania e una rinnovata comunità ebraica razziale-nazionale». «Con lo smantellamento dello Stato polacco e l’espansione del potere tedesco», osserva Snyder, «un’alleanza con i nazisti poteva apparire logica, almeno ai radicali ebrei persuasi che il vecchio ordine sarebbe crollato in ogni caso».
Terra nera mette in risalto il parallelo tra i comportamenti dei nazionalisti ebrei e ucraini, pur se «le loro offerte di collaborazionismo erano destinate a fallire e, in un certo senso, fallirono insieme».
Quella ucraina in maniera ancor più misconosciuta di quella israelita. In un bel libro, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale (Rubettino), Eugenio Di Rienzo ricostruisce come nel marzo del 1921 il trattato di Riga, sottoscritto tra Varsavia e Mosca, aveva sancito la spartizione dell’Ucraina, laddove la Polonia aveva incorporato la Galizia orientale e la Volinia occidentale, altre regioni erano state annesse dalla Cecoslovacchia e dalla Romania e il resto divenne, nel 1922, parte dell’Urss. E Stalin all’inizio degli anni Trenta la immolò in quello sterminio per fame di cui abbiamo detto, l’Holodomor.
In un certo senso l’Holodomor produsse il «caso Bandera». Di che si tratta? In Anno Zero. Una storia del 1945 (Mondadori), Ian Buruma si occupa di Stepan Bandera, che in una parte dell’Ucraina, quella sotto il controllo russo, «è ancora oggi visto come un fascista per essersi schierato nel 1941 con i nazisti», mentre a Kiev è considerato un eroe nazionale. In realtà Bandera finì in un campo di concentramento hitleriano per essersi schierato a favore dell’indipendenza dell’Ucraina dai sovietici, ma anche dai tedeschi. I suoi uomini si resero responsabili dell’uccisione di non pochi ebrei e, nel 1944, di circa 40 mila polacchi. Ma la sua colpa fu quella di aver continuato ad essere antisovietico prima, durante e dopo la guerra. Al punto che fu assassinato da un agente del Kgb nel 1959, mentre viveva in esilio a Monaco di Baviera. Echi di una guerra che in quella regione che ha come epicentro i confini tra Russia, Polonia e Ucraina. Una guerra che non si è mai davvero conclusa.
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