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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
08.09.2015 Il film di Gitai su Rabin: per Fiamma Nirenstein 'tesi ideologica insensata'
Cronaca e recensione di Valerio Cappelli, commento di Maurizio Molinari

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Valerio Cappelli - Maurizio Molinari
Titolo: «Nel film sull'inchiesta Rabin accuse ai comizi di Netanyahu - Interrogativi mai risolti sempre attuali»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/09/2015, a pag. 39, con il titolo "Nel film sull'inchiesta Rabin accuse ai comizi di Netanyahu", la cronaca e recensione di Valerio Cappelli; dalla STAMPA, a pag. 31, con il titolo "Interrogativi mai risolti sempre attuali", il commento di Maurizio Molinari.

Ecco gli articoli:

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CORRIERE della SERA - Valerio Cappelli: "Nel film sull'inchiesta Rabin accuse ai comizi di Netanyahu"

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Ytzhak Rabin, Fiamma Nirenstein

È il ritratto di un assassinio che ha cambiato Israele per sempre. Amos Gitai torna alla Mostra di Venezia con un potente atto d’accusa contro il fanatismo religioso e politico, che vent’anni fa armò la mano di un giovane studente di Legge di 25 anni. Tre colpi di rivoltella, e il premier Itzhak Rabin morì. Ma ciò che farà scoppiare un putiferio, quando il film (in gara) Rabin, the Last Day uscirà in Israele, è il ruolo controverso che esercitò l’attuale leader Benjamin Netanyahu. Il quale nelle manifestazioni di quei giorni, in cui la pace con i palestinesi sembrava a portata di mano, incitava i suoi sostenitori «a riversarsi nelle piazze» e a «difendere Gerusalemme».

Ecco Rabin che accusa il suo avversario politico di «fare discorsi che mi discreditano, e ha alle spalle il fotomontaggio che mi ritrae in divisa da ufficiale nazista». Per la giornalista Fiamma Nirenstein, indicata dall’attuale leader conservatore come futura ambasciatrice d’Israele in Italia, «è insensato sostenere che Netanyahu abbia avuto parte, sia pure ideologica, nell’omicidio di Rabin». Il killer di Rabin è stato solo il grilletto, «per questo — dice il celebre regista israeliano — non è lui il centro del mio film. La teoria del complotto fu sostenuta dall’estrema destra, che si volle lavare le mani dal senso di colpa per avere spinto al gesto omicida. La società per strani motivi è stata generosa con lui, tra quattro-cinque anni uscirà di prigione, e gli hanno permesso di fare un figlio». Il clima politico in Israele era arroventato.

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Amos Gitai

Rabin, l’uomo del dialogo, offrì il petto «ai rabbini lunatici, ai coloni estremisti e ai parlamentari di destra, che non furono attivi nell’omicidio, ma felici nel vedere demolito, da una campagna terroristica, il suo progetto politico». Immagini d’epoca mescolate a quelle di fiction: «Non ho inventato nulla, tutto è documentato», dice il regista che ieri è stato salutato dall’ex presidente Napolitano, alla Mostra per la proiezione serale. Quei vecchi filmati sono scolpiti nella pietra. Peres, all’epoca ministro degli Esteri, ricordava «la propaganda feroce, Yitzhak veniva ritratto in una bara con scritto: “Qui giace Rabin”. Sapevamo che in caso di elezioni probabilmente non avremmo vinto, ma non eravamo disposti a cedere. Senza l’assassinio di Rabin avremmo avuto sicuro una situazione più stabile”».

La commissione che indagò sull’omicidio aveva un mandato limitato alla scena del crimine. Vengono fuori, se non le complicità, le negligenze. Era d’uso che l’auto di Rabin avesse una via di fuga dalle occasioni pubbliche: quella volta, dice l’autista, non ci fu alcun piano d’emergenza; per la polizia lo studente agì da solo; il responsabile della sicurezza nella piazza, in cui «si aprirono dei varchi» e si spararono i tre colpi di rivoltella, contro la prassi ebbe l’incarico all’ultimo momento. E soprattutto il consulente legale del governo archiviò per insufficienza di prove il ruolo dei fanatici religiosi che additarono Rabin come «nemico del popolo», invocando «gli angeli della distruzione per ucciderlo». Fu convocata una psicologa a quegli incontri farneticanti: paragonò Rabin a Hitler, «è un megalomane, uno schizofrenico che ha perso il contatto con la realtà».

Rabin aveva congelato gli insediamenti dei coloni: ciò era contrario al concetto teologico affiorato dopo la vittoria militare del 1967, secondo cui, per costruire una grande Israele, bisognasse incoraggiare l’espansione del territorio. «Ma Israele è nata da un progetto politico, non religioso», ricorda Gitai. «Italia e Israele sono simili — dice ancora l’autore —, possiamo essere brutali e sofisticati... Anche voi avete avuto un tipo corrotto, kitsch e volgare, non a caso amico di Netanyahu. Oggi in Israele c’è uno scivolamento dell’opinione pubblica, rischiamo di isolarci dal resto del mondo». Il caso Rabin è il JFK israeliano. Ma rispetto all’America di Kennedy, «noi dopo 20 anni ancora viviamo con il risultato della sua morte».

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Interrogativi mai risolti sempre attuali"

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Maurizio Molinari

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Una scena del film

Con Rabin, The Last Day il regista Amos Gitai pone gli interrogativi irrisolti sull’assassinio del premier israeliano avvenuto il 5 novembre di 20 anni fa. Riguardo alle possibili complicità che favorirono l’assassino Yigal Amir, Gitai pronuncia il nome di Avishai Raviv, l’agente dello Shin Beth - il controspionaggio - sospettato di aver infiltrato i gruppi estremisti di destra e svolto un ruolo da «provocatore» fino all’istigazione del killer a uccidere il premier, ma poi assolto da ogni accusa nel 2003 per sparire letteralmente nel nulla. Al punto che oggi nessuno sa dove si trovi o che cosa stia facendo.
E poi c’è il contesto dell’omicidio di Rabin, a cui Gitai dedica maggiore attenzione, puntando l’indice sull’atmosfera di delegittimazione di Rabin e di fanatismo estremista a cui addebita la responsabilità di aver posto le premesse per l’omicidio. Gitai chiama in causa i leader religiosi ultrà che pronunciarono sentenze contro Rabin - il «Din Rodef» - imputandogli di aver violato il patto che lega Dio e Terra di Israele consegnando parte di quest’ultima ai palestinesi con gli accordi di Oslo del 1993.

È una denuncia dell’estremismo ultra-nazionalista ebraico molto d’attualità in Israele per via della ferita dei «terroristi ebrei», come il premier Benjamin Netanyahu li definisce, responsabili dell’attacco incendiario al villaggio palestinese di Douma nel quale è morto in luglio il piccolo Ali Saad.

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