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Il Foglio Rassegna Stampa
06.09.2015 Pico della Mirandola e la cultura degli ebrei
Commento di Fiona Diwan

Testata: Il Foglio
Data: 06 settembre 2015
Pagina: 10
Autore: Fiona Diwan
Titolo: «Il Pico dei Prodigi»

 Riprendiamo dal FOGLIO del 05/09/2015, a pag.X, con il titolo " Il Pico dei prodigi", il commento di Fiona Diwan, direttrice del Bollettino della Comunità ebraica di Milano, al libro "Giovanni Pico della Mirandola, Mito, Mgia, Qabbalah", pubblicato da Einaudi.


Fiona Diwan                            La copertina


Giovanni Pico della Mirandola

L’ingresso nella sala di Papa Innocenzo VIII aveva dato il via alla prima seduta della commissione, riunitasi negli appartamenti del Palazzo pontificio a Roma. Il Conte Giovanni Pico della Mirandola e della Concordia aspettava da tempo. Pioggia e Quaresima si portavano via le ultime fiaccolate del carnevale romano. Quel venerdì 2 marzo 1487 Pico avrebbe finalmente esposto le sue 900 “Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae”, esito di un disegno tanto ambizioso quanto immane: dimostrare l’importanza dell’unione di tutti i saperi e dottrine, estendere il canone della sapienza cristiana alla sapienza ebraica, aramaica, caldea e araba. Creare connessioni, gettare ponti, come si dice oggi. Pico espone le sue “Conclusiones” e sembra non cogliere il gelo circostante. “… quella che da Orfeo è chiamata Pallade-Atena, da Zoroastro ‘mente paterna’, da Pitagora ‘sapienza’, da Parmenide ‘sfera intellegibile’, è senza dubbio quella che dai qabbalisti è detta Hochmà, ovvero conoscenza-saggezza…”. Come non stupirsi di tanta irritazione da parte del Papa? Che cos’era tutta questa Qabbalah? Da quale astruso scaffale del sapere saltava mai fuori?  “Filosofi greci, scolastici medievali, matematici arabi, medici e qabbalisti: il caravanserraglio delle opinioni in Pico non potrebbe essere più variopinto e affollato. Nessuno, prima di lui, aveva raccolto un campionario di dottrine così eterogeneo. Il massimo della varietà è qui antefatto indispensabile all’ascesa alla verità. Con gradini presi da tutte le culture, Pico costruisce la sua scala verso il cielo”, spiegano Giulio Busi e Raphael Ebgi nel volume “Giovanni Pico della Mirandola - Mito, magia, Qabbalah” (Einaudi, Millenni, CVI-454 pp., 80 euro),
Busi docente di Pensiero ebraico e Qabbalah alla Freie Universität di Berlino e Ebgi ricercatore presso il medesimo ateneo. Un saggio che si concentra sui punti nodali della filosofia di Pico e che nasce dalla volontà di mettere ordine “nel gran guazzabuglio del suo pensiero, nella Wunderkammer stipata di ninnoli” intellettuali, la cui comprensione non è mai stata agevole neppure per i più scaltriti studiosi di pensiero rinascimentale. Nel momento in cui discute le sue “Conclusiones”, Pico ha 24 anni (Mirandola 1463- Firenze 1494). E’ già campione di mnemotecniche, erudito insaziabile, “milite di studio”, come ama dire. Nelle opere tra il 1496-87, l’idea di concordia tra i diversi saperi domina la sua agenda. E’ compagno di versificazione di Lorenzo de’ Medici nell’Accademia platonica fiorentina, è allievo-amico di Marsilio Ficino e Angelo Poliziano, gareggia con le menti più eccelse del proprio tempo: non immagina che le sue ambiziose “Conclusiones” lo faranno sedere sul banco degli imputati, in odore di eresia e poi fuggiasco in Francia per salvarsi la pelle. Le disputationes dotte e argomentative, l’altercatio “alla moda di Parigi” e tipica delle dispute alla Sorbona – Pico si aspettava proprio questo dall’incontro con Innocenzo VIII – non sarebbero mai avvenute. Roma non è Parigi. Eccolo quindi in piedi davanti all’irritazione di Innocenzo VIII, al fastidio dei padri riveriti. La Qabbalah , spiega Pico ai dotti prelati, è “autentica interpretazione della Legge, rivelata da Mosè ai 70 anziani, … fissata da Esdra in diversi libri…, libri che mi sono assicurato con grande spesa e che gli ebrei non vogliono far conoscere a noi latini…”, scrive. Il conciso volume in cui Giovanni Pico raccolse le sue 900 “Conclusiones” è arrivato a noi in pochissime copie, sopravvissuto per un soffio alla condanna inflittagli dalla chiesa nel 1487: il profumo di eresia che si sprigionava da quelle pagine era bastato a fare inorridire i censori, fogli in cui Pico intrecciava, implacabile, i saperi dei filosofi greci, dei teologi cristiani, dei mistici ebrei. Sarà il primo libro a stampa messo al rogo. Il suo autore, eretico, alla macchia. Se Pico aveva sperato di farsi ascoltare da Roma, l’impresa era naufragata. Nessuno, fino ad allora, sapeva cosa fosse la Qabbalah ebraica, liquidata tutt’al più come pericolosa stramberia. Nessuno sapeva cosa fossero le Sefirot, la Merkavà, il carro della visione biblica di Ezechiele. O forse, come suggerisce Moshè Idel, il più eminente studioso contemporaneo di Qabbalah, allievo di Gershom Sholem, Pico aveva colto la centralità della polarità sessuale postulata dal pensiero qabbalistico e l’importanza dell’equilibrio tra le potenze maschili e femminili all’interno del mondo  divino e dell’esperienza spirituale; la qual cosa poteva risultare davvero poco accettabile dall’uditorio in questione. “Eccentrico già agli occhi dei contemporanei. Troppo ricco ed esibizionista, un dilettante di genio, difficile da collocare. Il conte della Mirandola è, a più di cinque secoli, un ospite illustre e scomodo della cultura italiana. Lorenzo de’ Medici, tra i pochissimi che riuscì a confrontarsi con lui (quasi) alla pari, lo definì ‘istrumento da sapere fare il male et il bene’”, spiegano Busi ed Ebgi. Pico appare ancora come un enigma. L’“Orazione sulla dignità dell’uomo” è considerato uno dei testi più rappresentativi del Rinascimento, ma il resto della sua opera rimane quasi inaccessibile, “velato com’è da uno stile spesso sibillino e da un’erudizione lussureggiante”, scrive Giulio Busi nell’introduzione. La sua teologia poetica e la sua estetica suonano modernissime. Nel “Commento sopra una canzone d’amore”, del 1486, Pico dà una sorprendente definizione della bellezza: “Niuna cosa semplice può essere bella. Di che segue che in Dio non sia bellezza perché la bellezza include in sé qualche imperfezione…”. Imperfezione, contrarietà, dissonanze: la sua estetica rivoluziona la lunga tradizione classica dell’armonia. “Proprio Pico, che si dichiara seguace di Platone, rinuncia alla fredda perfezione del bello, per avventurarsi in un’esperienza del limite. Accumulare disarmonie, vivere di contrasti, aumentare all’inverosimile la disparità delle fonti, tale è il suo progetto”, spiegano gli autori. Solo col tempo, e vista la mala parata, Pico finirà per piegarsi al “politicamente corretto” della propria epoca, il compasso della sua curiosità diventerà più stretto, la vena trasgressiva meno graffiante. Nel frattempo, Pico è un dongiovanni, un dandy conscio del proprio censo e fascino. Presuntuoso e muscolare, si sente invincibile. Nel 1479, orfano di madre a soli 16 anni, è a Ferrara, beniamino dell’altezzosa corte estense. Poi si sposta a Padova, inizia a sgobbare sui libri e si concede i migliori maestri privati, tra i quali c’è Elisha del Medigo, un ebreo di Candia, studioso di Averroè e Avicebron, fatto venire apposta da Perugia, a cui Pico commissiona traduzioni dall’ebraico al latino. L’anno cruciale è il 1486: mesi frenetici in cui un’operosità impressionante pone le basi per la celebre “Orazione sulla dignità dell’uomo” e per le “Conclusiones”. E’ l’anno della scoperta dell’ebraico e della mistica giudaica. Pico recluta anche colui che lo guiderà su per il tronco dell’Albero della Vita e dell’Albero Sefirotico, il suo vero iniziatore al sapere qabbalistico: Shmuel Ben Nissim, alias Guglielmo Moncada, alias Flavio Mitridate, nato in una famiglia ebraica di Caltabellotta e poi convertito al cristianesimo. L’influsso che un personaggio come Flavio Mitridate ha su Pico, fanno notare gli autori, è enorme e non ancora studiato. Mitridate è un doppio del suo giovin signore: lo caratterizzano spregiudicatezza intellettuale ed eclettismo, amore per l’esoterismo e l’ars combinatoria, la conoscenza dello “Zohar - Libro dello Splendore”, di Moshe de Leon, e della Qabbalah spagnola. E’ attraverso di lui che Pico si imbarca per l’Atlantide della cultura ebraica. Pico vuole giungere a manipolare l’ebraico, la lingua con cui Dio ha creato il mondo, la via regia verso il dominio del reale, e così penetrare nella Qabbalah, che pone all’apice della scala cognitiva, fonte primigenia della conoscenza. Per Pico, l’alfabeto ebraico è strumento della creazione, la lingua ebraica è vox divina, carica di una potenza che è negata a qualsiasi altro idioma mondano. Che si tratti delle emanazioni di Plotino o delle Sefirot, il conte è convinto che per raggiungere la conoscenza si debba salire, grado dopo grado, tutta le gerarchia dell’essere. Qabbalisticamente, Dio è per Pico “colui che ha posto le tenebre come proprio nascondiglio” (Salmi 18.12). Pico descrive Dio come Colui che si eclissa in “solitaria retractione”, e questa espressione parla da sola. Stiamo alludendo al concetto di tzimtzum caro alla Qabbalah che Pico ha appreso dalle traduzioni di Mitridate e Del Medigo, e dal pensiero del filosofo sefardita Mosè Nachmanide nel suo commento al “Sefer Yetzirà”, il “Libro della Formazione”, un must dell’esoterismo ebraico. E’ Nachmanide che offre a Pico l’immagine del divino che si contrae e si nasconde in se stesso, secondo un movimento che porta alla formazione di uno spazio oscuro e vuoto, destinato ad accogliere la luce della sapienza. Celarsi per svelarsi, nascondersi per mostrarsi, secondo il tipico paradosso delle Sefirot. Per la Qabbalah e per Pico, l’esperienza della trascendenza si nasconde nelle tenebre, nel choshech, nel buio: il Creatore si ritrae, si occulta per lasciare alla Creatura lo spazio per esistere e dispiegarsi, come fa l’artista con la sua opera, come fa il padre con il figlio. Questo è lo tzimtzum, il ritrarsi di Dio che lascia il palcoscenico sgombro per la sua più alta creatura, l’Uomo (più tardi, nel Seicento, la Qabbalah di Itzchaq Luria, metterà al centro proprio il concetto di tzimtzum). Pico ha così la pretesa di fare della mistica ebraica la chiave di volta del gran palazzo dell’Umanesimo: “Niuna cosa semplice può essere bella. Di che segue che in Dio non sia bellezza perché la bellezza include in sé qualche imperfezione” una hebraica veritas, una Iudeorum arcana funzionali al suo progetto di unione delle dottrine. Per restituire la vastità della visione di Pico, Busi e Ebgi strutturano il volume come le voci di un dizionario, un’antologia tematica di brani accompagnati da un corredo visivo, immagini di pale d’altare e opere che sarebbero state ispirate direttamente da Pico: dalla “Madonna Roverella” di Cosmè Tura – con ivi dipinto il Decalogo in ebraico – fino al “San Girolamo” di Domenico Ghirlandaio e alla “Natività della Vergine” di Vittore Carpaccio. E’ proprio con Pi- co che l’iconicità dell’alfabeto ebraico entra nella pittura del Quattrocento italiano, evocatrice di un mistero straniante ed esotico, spiegano gli autori. In uno dei suoi più celebri percorsi trasversali tra culture, Pico scrive intorno al concetto della “morte per bacio”, il binsica, uno dei più felici ibridi concettuali, poi ripreso da Giordano Bruno e Baldassarre Castiglione. Da femminile, il bacio si fa maschile e biblico. C’è il bacio che l’Altissimo accetta di dare a un vecchissimo Mosè che non ne vuol sapere di morire sul Monte Tabor; ci sono Aronne e Miriam, morti anch’essi “per bocca del Signore”, secondo un commento di Rabbi Elazar incluso nel Talmud babilonese. E Pico conosce anche la “Guida dei perplessi” di Maimonide, del XI secolo, in cui il maestro di Cordova torna sul tema del bacio divino e della “morte per bacio”, tema presente anche nel “Cantico dei Cantici”. Pico ci ricama sopra e lo include nel proprio armamentario metaforico grazie a un altro gigante del pensiero ebraico, Gersonide, letto da Pico in latino. Acquisisce ancora l’opera del qabbalista Menachem Recanati che fa del binsica il culmine di un percorso mistico in cui “la morte per bacio indica l’unirsi di colui che bacia alla cosa amata, giacchè in quel momento la sua anima si unisce alla Shechinà”, la scintilla divina femminile che abita ogni uomo, anche il più malvagio. Anche qui, Pico intuisce l’importanza del tema della polarità sessuale e del rapporto complementare – più che conflittuale – tra il principio maschile e femminile, un’idea che accomunava sia il pensiero qabbalista che quello degli alchimisti, come spiega lo studioso italiano, Arturo Schwarz, in “Cabbalà e Alchimia” (Garzanti). E infine, un’ultima prodezza: il parallelismo tra Mito greco e Sefirot. Pico getta ponti, dicevamo: Pallade-Atena, simbolo della sapienza, corrisponderebbe alla Hochmà, saggezza-conoscenza. Il greco Hermes-Mercurio – dio della mediazione e della scaltrezza, arbitro e pacificatore tra le Cose Alte e le Cose Basse – viene associato alla nona Sefirà, quella di Yesod, il Fondamento. Pico traccia una trama di complesse geografie invisibili. L’immagine di Proteo, dio delle metamorfosi, simbolo della materia caotica dei primordi con le sue infinite potenzialità, non si carica forse di grande portata filosofica se lo si accosta al Tohu WaWohu, il biblico caos primigenio da cui tutto può nascere? Ed ecco ancora Saturno-Cronos che corrispondono a Netzach, l’Eternità, ovvero la settima Sefirà, quella in cui si compirebbe la piena maturazione dell’uomo e il completo sviluppo delle capacità intellettive. Ogni figura del mito ha un suo corrispettivo nelle Sefirot, ciascuna delle quali rappresentava un ponte immateriale tra l’umano e il divino, tappe della conoscenza verso i mondi superiori. Il ragionamento di Pico era che il mondo ebraico possiede una sapienza consegnata da Dio a Mosè e poi passata di generazione in generazione. Di fatto, egli ne trarrà una chiave per leggere la Scrittura con occhi nuovi, convinto del potere conoscitivo dei testi qabbalistici. Da umanista, rimodella e mescola i saperi, li impreziosisce per costruire una propria cattedrale concettuale. Ha un suo pubblico e, da buon retore, poeta, maestro di eleganze linguistiche e funambolismi filosofici, lo vuole sedurre col fascino di un pensiero meticcio. Un esperimento a suo modo geniale. Fallirà l’impresa, perlomeno con Innocenzo VIII e il suo entourage. Ma il tentativo andrebbe rubricato come tra i più audaci dell’Umanesimo. O almeno il più fecondo, agli occhi dei moderni che saremmo noi.

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