Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 13/08/2015, a pag.34-35, con il titolo " Io foreign fighter buono ", il reportage di Ivan Compasso.
Mike Enright Ivan Compasso
HASSAKÈ (SIRIA)
Quando il ricordo di Mike si sofferma su quella bimba di cinque anni, ormai sola al mondo, negli occhi un orrore che si porterà dentro per tutta la vita, il dolore si trasforma in una smorfia di rabbia difficile da contenere. «Quella storia è un incontrato e ci ha raccontato le atrocità del Califfato. Come il massacro di un'intera famiglia davanti a una bimba di appena cinque anni colpo al cuore, il mondo non pub restare indifferente davanti a un'atrocità del genere». Mike Enright è un foreign fighter inglese di 51 anni che ormai da cinque mesi combatte contro il Califfato. Una 'missione" che ha sentito dentro dopo aver visto le immagini di devastazione e i video nei quali un suo connazionale, il boia Jihadi John, decapitava giornalisti evolontari delle ong. E dire che nella sua "precedente vita", Mike faceva ben altro e apparentemente non aveva alcuna ragione di mollare tutto e rischiare la pelle in Iraq e Siria. Era un attore di Hollywood, una stella di film miliardari come la saga dei "Pirati nei Caraibi'. Profondamente turbato dall'uccisione del fotoreporterJames Foley, decise di lasciare il set e gli hotel di lusso per combattere in prima linea il terrorismo unendosi all'esercito curdo, i Kurdish People's Protection Units (YPG ). «La cosa che mi ha ferito di più - spiegò alla tv araba Al Aan -è che il boia fosse inglese. Mi sento in debito con l'America, la amo con tutto il mio cuore e ho pensato che devo provare a corn-battere queste ingiustizie. Il più grande rimorso della mia vita - aggiunse quella volta - è non essere partito per l'Afghanistan subito dopo I' 11 settembre. Sento di avere un debito nei confronti di questa nazione che mi ha accolto a braccia aperte. Ad Hassakè, la città siriana che ospita l'Arcieparchia e che dal 3 agosto scorso è stata liberata dai curdi, i racconti di Mike sono minuziosi e pieni di dettagli, molti dei quali raccapriccianti.
Dal 2012 Hassakè è stata nelle mani degli uomini del Califfato. L'avevano strappata al regime di Assad, poi la coalizione con i suoi raid aerei e l'azione continua sul terreno delle milizie curde hanno permesso che la città di centomila abitanti, fosse liberata. «Il 2 agosto ci siamo spinti fino oltre il quartiere di Nashwa per completare la bonifica dell'area dalla presenza dell'Is - ci spiega Mike - Li ho trovato oltre a qualche anziano questa bambina. Istintivamente le ho chiesto cosa stesse facendo in quell'inferno e lei ha risposto che era l'unica a essere sopravvissuta al massacro. È stata costretta ad assistere a quanto stava accadendo. Ha dovuto guardare mentre i miliziani dell'Is sgozzavano sua madre. Prima avevano tagliato la testa agli zii e gliel'avevano appoggiata sulla pancia". E una delle strategie degli islamisti questa di diffondere il terrore. Non solo usando il web e il meglio della tecnologia di cui hanno disposizione, ma anche con il "passaparola".
È l'unico motivo che li spinge a lasciare qualche superstite. Entriamo a Hassekè che sono passati due giorni dalla sua liberazione. Nel quartiere di Nashwa, abitava circa metà della popolazione di questa città. Nulla è rimasto in piedi, tutto è andato distrutto. Ospedali, scuole, abitazioni, un cumulo di macerie. Prima di andarsene dalla città quelli del Califfato hanno minato case e strade e portato via tutto quello che può essergli utile.
Soprattutto dagli ospedali. E' uno scenario apocalittico quello che ci si presenta di fronte. Attraversare la città, soprattutto questa parte devastata, non è semplice ma è un'occasione per raccoglie re testimonianze dirette e le conseguenze di questo conflitto. L'acre odore di bruciato non smette mai di farsi sentire. Ci sono circa cinquanta gradi, un caldo insopportabile. I guerriglieri curdi si riposano sotto un mosaico enorme di Hafiz al-Asad, il padre di Bashar che controlla ancora una buona parte del Paese con il suo esercito.
È il confine ultimo della città. Poche centinaia di metri più in là il fronte di guerra. Si sentono i boati del conflitto, esplosioni che non finiscono mai. Il rombo dei caccia che squarciano il cielo. Lo scenario contrasta con quanto s'incontra quando si comincia a uscire dal quartiere di Nashwa e si oltrepassano le trincee. Si giunge così alle porte della città controllata dai curdi che verificano i documenti di tutti quelli che transitano. Sono tantissimi quelli che tornano indietro. In migliaia stipati su auto, camion e moto che trasportano tutto ciò che hanno perché finalmente possono riprendere possesso delle loro abitazioni. Almeno chi ne ha ancora una ancora in piedi.
I negozi hanno riaperto le serrande dopo mesi, c'è perfino chi esce in strada con quel poco di merce che ha da vendere. Si intravede qualche commerciante di frutta, si cerca lentamente di tornare alla normalità. C'è però il problema delle mine. I miliziani ne hanno lasciate ovunque, com'era avvenuto a Kobane. Molta gente è morta quindi anche dopo l'assedio, un rischio concreto anche da queste parte. Gli uomini neri hanno lasciato ordigni persino tra i divani o nei frigoriferi delle case di coloro che sono fuggiti. Compiono questo tipo di azione ogni volta che sono costretti a lasciare la loro posizione dai bombardamenti della coalizioneedalle incursioni dei combattenti curdi. Anche le falde acquifere sono spesso inquinate volontariamente dai seguaci di Al Baghdadi.
A combattere contro l'Is ci sono molti occidentali come Mike. La sua storia è molto particolare. Originario di Manchester, da giovane è nell'entourage degli Smiths, band molto popolare negli anni Ottanta. Poi, come detto, si dà al cinema e appare anche in film di grande successo. Negli Usa la folgorazione per la causa curda e dal marzo scorso è qui a lottare al loro fianco.
«Ci sono diversi occidentali - racconta Mike - che combattono qui come me. Non si pub restare con le mani in mano e assistere ai massacri di questi criminali. Per questo ho lasciato tutto e sono venuto qui. Ho incontrato anche degli italiani sai? C'è in particolare un ragazzo, molto in gamba. Non conosco il suo nome ma so che in Italia ha lasciato un figlio .
Dopo Karim Franceschi, il giovane di Senigallia che ha combattuto a Kobane e Alessandro De Ponti, il ragazzo di Bergamo che è rimasto ferito e che è rientrato da qualche settimana, ci sarebbe quindi un terzo combattente italiano nel Rojava, il cantone siriano quasi completamente in mano ai curdi. «È una guerra di cui nessuno parla, nella quale i curdi che da anni subiscono vessazioni soprattutto dai turchi, adesso si trovano tra due fuochi - rincara Mike - A Nord devono guardarsi proprio dai turchi che attaccano le loro postazioni, a sud e nel resto del territorio c'è invece l'Is.
Migliaia di persone sono state uccise, molte donne e bambine sono state prese come schiave e vendute ai califfi. Sono le donne a subire le violenze peggiori. Stupri e torture, a loro non viene risparmiato nulla. E qualcuno parla di guerra santa---»- Questo accanimento contro le donne in una terra come quella del Rojava dove proprio loro sono le protagoniste della rinascita curda colpisce ancora di più. La proposta politica del Califfato, se cosi la si può definire, cozza completamente con quel modello di società libertario e paritario che giorno per giorno stanno costruendo i curdi di Siria. E le dorme sono sempre più le protagoniste di questo progetto, combattono e partecipano alla vita politica. Ma allo stesso termpo sono le vittime principali di questo conflitto.
Qui una generazione intera di bambini è cresciuta sotto i colpi di mortaio o in fuga con mezzi di fortuna. La principale preoccupazione di chi vive in queste terre è proprio quella di aiutare questi piccoli a superare questo tipo di trauma. E il sostegno psicologico ai minori è una delle attività in cui investono maggiormente i curdi nei campi profughi sparsi per la Siria. «Ho trovato tanta umanità e mi stanno insegnando tante cose alle quali in più di cinquant'anni non avevo nemmeno pensato - si commuove Mike Enright - lo starò qui con loro fino a quando avrò le forze per aiutarli. Paura? Chi non ne ha quando vivi 24 ore al giorno sotto le bombe? Ma io non scapperò, e se il destino sarà quello di morire, ne prenderò atto. Almeno sarà stato per una buona causa.
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