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La Repubblica Rassegna Stampa
10.08.2015 Razzismo & calcio: ma in Israele la società civile protesta, in Italia no
Davide Frattini incontra Rifaat Turk

Testata: La Repubblica
Data: 10 agosto 2015
Pagina: 12
Autore: Davide Frattini
Titolo: «Il goleador dà un calcio ai razzisti 'voglio un arabo nel club Beitar'»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 10/08/2015, a pag.12,  con il titolo "Il goleador dà un calcio ai razzisti ' voglio un arabo nel club Beitar' ", l'articolo di Davide Frattini.

Tutto condivisibile il pezzo di Frattini, il razzismo negli stadi va combattuto ovunque, anche perchè è strattamente collegato con il mondo del calcio. Il Beitar israeliano non fa eccezione. Ma raccontata così, senza altri riferimenti, non è giusto. Perchè non ricordare che non passa domenica senza che nei nostri stadi appaiano striscioni antisemiti ? Perchè non ricordare quando il calciatore ebreo Ronnie Rosenthal, acquistato dall'Udinese,non potè giocare neppure una partita perchè la sede della squadra sportiva era stata travolta da cartelli che ne ordinavano la cacciata perchè 'ebreo' ?
In Israele almeno scoppia lo scandalo, interviene il governo ( in Italia no) e Rifaat Turk è sempre lì, anche adesso che ha 60 anni, a zittire chi lo insulta.

Ecco l'articolo: 

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in alto Davide Frattini   a destra Rifaat Turk                                      

 Al primo allenamento è arrivato in ciabatte dalla spiaggia, i dirigenti dell'Hapoel Tel Aviv lo avevano notato calciare la palla sulla sabbia, a piedi nudi sfidava anche l'avversario di sempre, «Pelé», il muro di pietra nel cortile di casa a Jaffa. La madre abita ancora lì, quartiere di Adjami, alto sul porto da dove il padre usciva a pescare. Rifaat «Jimmy» Turk ci torna due volte a settimana da Nazareth dove dirige la squadra della città, seconda divisione. È stato il primo giocatore arabo a diventare una stella nel campionato di calcio israeliano, il primo nel 1976 a indossare la maglia della nazionale (e poi per altre 32 volte, anche alle Olimpiadi), il primo a venire insultato dai tifosi. «Ricordo partite in cui tutto lo stadio si alzava in piedi e mi urlava addosso, sputava, lanciava oggetti — racconta seduto in un caffé di Jaffa —. Ero io contro di loro». I peggiori, i più i razzisti allora come oggi, erano i sostenitori del Beitar Gerusalemme che non potevano accettare quel mediano dalla pelle scura e musulmano. Erano gli anni in cui gli estremisti ebrei avevano formato una banda clandestina in Cisgiordania per attaccare i leader politici palestinesi. «Nel giugno del 1980 ho giocato contro il Beitar mentre arrivavano le notizie degli attentati. Avevano fatto saltare l'auto di Bassam Shakaa, il sindaco di Nablus, che aveva perso le gambe nell'esplosione. Dagli spalti sbraitavano: "Maledetto arabo, è un peccato che non abbiano amputato le tue". Io pregavo Dio di lasciarmi segnare un gol». Sarebbe bastato, l'Hapoel perdeva 1 a 0. «Al 91' l'arbitro ci assegna una punizione a trenta metri dalla porta, mi avvicino al pallone e supplico: dammi la forza di zittirli tutti. Segno, pareggiamo e corro sotto la loro curva gridando il nome di Bassam». Un anno dopo è ancora Turk a sforacchiare l'orgoglio nazionalista de La Familia, il gruppo di ultrà ebrei fanatici che spadroneggia tra tifosi del Beitar. un'altra punizione, questa volta da quarantacinque metri, che garantisce all'Hapoel la vittoria del campionato e a lui un posto nella storia del calcio israeliano, il gol è ricordato come «il missile di Rifaat». Sono passati trentacinque anni, adesso ne ha 6o, e resta tutta la determinazione di zittire quei cori razzisti. Tira fuori i documenti, le lettere inviate al governo e al presidente della Lega calcio. Perché costringano i dirigenti del Beitar a ingaggiare i giocatori arabi, nella storia del club non è mai successo mentre dai tempi di Rifaat la situazione nelle altre squadre è migliorata. «I presidenti che hanno provato a spezzare íl boicottaggio sono stati costretti ad andarsene per le proteste». Quando due anni fa la società ha acquistato due calciatori ceceni (non arabi ma musulmani), la curva dell'odio ha incendiato la sede, incenerendo magliette autografate, trofei, palloni, coccarde. Poche sere prima allo stadio avevano esposto lo striscione: «Beitar puro per sempre». Pochi politici osano contrastare la profezia, anche se il razzismo degli estremisti ha estraniato quelli che nella squadra nata dal movimento conservatore creato da Zeev Jabotinsky avevano fuso passione sportiva e ideologia. Da tifoso il premier Benjamin Netanyahu ha criticato i cori razzisti. Ehud Olmert, l'ex primo ministro e sindaco di Gerusalemme, aveva il suo palco speciale allo stadio Teddy Kollek e provava a non perdere una partita delle maglie giallo-nere fino a quando ha annunciato: «Non ci vado più, queste squadracce devono essere rimosse o diventeremo loro complici». Rifaat «Jimmy» Turk sta ancora aspettando una risposta ufficiale alle sue proteste. Per ora si è mossa solo la commissione Pari opportunità al ministero dell'Economia che vuole indagare se esista una decisione formale (sarebbe contro la legge) di non reclutare giocatori arabi. È paziente e ostinato come quando da bambino calciava centinaia di rimbalzi che «Pelé» gli rilanciava: «Ho già scritto la lettera per Michel Platini e la Fifa. Se il governo israeliano non interviene, la federazione internazionale deve prendere provvedimenti e fermare chi urla negli stadi "morte agli arabi"».

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