Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/08/2015, a pag. 12, con il titolo "Un clima tossico e selvaggio, i bambini pagano la nostra inerzia", il commento di Khaled Diab; dalla REPUBBLICA, tre brevi notizie; da AVVENIRE,a pag. 1, con il titolo "Oltre le feroci simmetrie", l'editoriale di Fulvio Scaglione; dal MANIFESTO, a pag. 9, con il titolo "Ali arso vivo mostra la violenza dei coloni", il commento di Michele Giorgio.
Oggi quasi tutti i quotidiani italiani presentano i fatti accaduti a ieri presso Nablus in modo da criminalizzare non i responsabili, come sarebbe giusto, ma Israele tutta. Palesando, ancora una volta, un doppio standard: mai, di fronte ai frequenti attentati di terroristi palestinesi contro ebrei israeliani, abbiamo visto una reazione del genere sulla stampa.
Alla criminalizzazione dello Stato ebraico concorrono anche fotografie e titoli, con foto del bambino arabo ucciso sulla prima pagina dei più importanti giornali. Ancora una volta, assistiamo a una vera e propria pornografia del dolore gettata in prima pagina da redazioni che identificano, sempre e comunque, nei "poveri palestinesi" le vittime. Questo a prescindere dall'episodio in questione, di cui sono colpevoli alcuni criminali ebrei israeliani.
Ecco gli articoli:
Doppio standard di giudizio
CORRIERE della SERA - Khaled Diab: "Un clima tossico e selvaggio, i bambini pagano la nostra inerzia"
L'ipocrisia del giornalista di nazionalità belga-egiziana Khaled Diab è evidente fin dalle prime righe, dedicate al Gay Pride di Gerusalemme. Diab avrebbe potuto, per esempio, scrivere come mai nel mondo arabo non solo non esistono Gay Pride, ma gli omosessuali vengono perseguitati e non di rado impiccati nelle pubbliche piazze. E invece no, preferisce dipingere a tinte fosche un ritratto di Israele che non rispecchia la multiforme realtà.
Diab, inoltre, trae spunto dall'omicidio compiuto ieri per sostenere che Israele sia un Paese impregnato di odio. Non sa di che cosa parla, è pura propaganda..
Ecco il pezzo:
Khaled Diab
Avremmo voluto partecipare alla sfilata del Gay Pride di Gerusalemme, ma i nostri figli avevano in mente altro. Si divertivano troppo a giocare sull’erba del parco da cui sarebbe partita la marcia. Purtroppo, la giornata è stata segnata più dal pregiudizio e dall’odio che dall’orgoglio e dalla tolleranza. Yishai Schlissel, un ebreo ultraortodosso, ha accoltellato sei partecipanti del corteo. Il fanatico Haredim («Colui che trema davanti alla parola di Dio») aveva precedenti di crimini d’odio ed era appena uscito di prigione, dopo una condanna per un assalto simile in occasione della parata dell’orgoglio omosessuale del 2005. «Dobbiamo garantire che in Israele ogni uomo e donna viva in sicurezza a prescindere dalle proprie scelte», ha dichiarato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, malgrado l’impegno della sua coalizione di estrema destra per minare tale sicurezza e demonizzare sinistra e progressisti.
Mentre i nostri figli giocavano, discutevamo la storia triste ma edificante di un altro ragazzino. Nel 2005, Ahmed Khatib, 12 anni, di Jenin, fu ucciso da un soldato israeliano che scambiò per vera la sua arma giocattolo. Quando Ahmed morì in ospedale, i suoi genitori non si arresero all’amarezza e all’odio, e decisero che la morte del loro figlio avrebbe dovuto dare vita e speranza ad altre persone. Quattro ebrei e due arabi ricevettero i suoi organi. «Sei israeliani ora hanno una parte palestinese e forse lui vive ancora dentro di loro», affermò all’epoca il padre afflitto di Ahmed. «I bambini non c’entrano niente con questo conflitto».
Ma i bambini di entrambe le parti opposte sono, tristemente, coinvolti nel fuoco incrociato di questa dura guerra in corso da diverse generazioni. L’ultimo esempio è quanto accaduto poco dopo l’attacco al corteo. Poco lontano, un gruppo di coloni israeliani ha bruciato con una bomba incendiaria due case nel villaggio palestinese di Duma, nei pressi di Nablus, uccidendo Ali Saad Dawabshah, un neonato di 18 mesi, e ferendo il fratello di 4 anni e i genitori, oltre a un vicino di casa. «Questo attacco contro la popolazione civile è niente di meno che un barbaro atto di terrorismo — ha dichiarato il portavoce dell’esercito Peter Lerner —. È in corso un’indagine approfondita per identificare i terroristi e assicurarli alla giustizia». La condanna dell’esercito israeliano fa piacere. Al contempo, l’annosa inerzia di Israele nell’opporsi alla violenza dei coloni e il suo sostegno agli insediamenti alimentano un’atmosfera tossica di impunità, da molti descritta come la mentalità della «Selvaggia sponda occidentale» (del fiume Giordano, ndt ).
Le conseguenze di questo attacco sono difficili da misurare. Se l’estate del 2014 è indicativa, questo incendio potrebbe degenerare e diventare furioso, tanto più che poco o niente è cambiato dallo scoppio della violenza dell’anno scorso. Se le autorità israeliane intervengono tempestivamente per assicurare i colpevoli alla giustizia, si può arginare il deterioramento della situazione... per il momento. Ma non è sufficiente. Si deve realizzare un più ampio ordinamento giuridico. Data l’improbabile fine dell’occupazione in un futuro prevedi-bile, Israele deve smettere di vivere con due ordinamenti giuridici: uno per gli israeliani e uno per i palestinesi.
La legge marziale nella «Sponda occidentale» deve finire, e tutti gli israeliani e palestinesi devono godere degli stessi diritti. Il doppio sistema legale ha contribuito a creare una mentalità di superiorità e persino supremazia tra molti israeliani nella «Sponda occidentale» e a Gerusalemme. All’inizio, le vittime di questa pratica erano prevalentemente palestinesi, ma gli ebrei stanno sempre più soccombendo a questo senso di eccezionalismo dell’estrema destra israeliana riflesso nel fenomeno crescente di pregiudizi e crimini d’odio contro gli ebrei di sinistra, gli attivisti pacifisti e chi è diverso. Salvaguardare la giustizia solo per una minoranza, alla fine, comporterà una situazione di ingiustizia per la maggioranza.
(Traduzione di Ettore C. Iannelli)
Su REPUBBLICA: Tre opinioni, che qualificano il doppiopesismo di chi le ha pronunciate:
L’UNIONE EUROPEA
L’Ue, in un comunicato di Federica Mogherini, chiede “tolleranza zero” contro le violenze dei coloni e ricorda “l’urgenza di una soluzione politica”
Le stesse parole sarebbereo state usate se l'attacco fosse stato di terroristi palestinesi contro un ebreo israeliano? La risposta, negativa, è ovvia. E dunque queste dichiarazioni celano enorme ipocrisia.
Federica Mogherini
LA CASA BIANCA
Gli Stati Uniti condannano “il maligno attacco terroristico”, chiedendo a Israele di “arrestare gli assassini” e ad entrambe le parti di evitare altre tensioni
LA TERRA SANTA
Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode della Terra Santa, definisce “orribile” l’episodio e chiede: “Venite a portare solidarietà alle persone che stanno soffrendo”
Padre Pizzaballa
AVVENIRE - Fulvio Scaglione: "Oltre le feroci simmetrie"
In questo editoriale Fulvio Scaglione dipinge Israele come un Paese che sta scivolando verso l'estremismo. Così non è, anche se i criminali colpevoli dell'omicidio di ieri vanno assicurati alla giustizia e puniti in modo esemplare. Ma, come è sempre successo dopo episodi del genere, Israele si è unita nella condanna dell'accaduto e nella solidarietà alla vittima. Ma questo è un volto di Israele che, negli articoli di Scaglione, non troviamo mai.
Ecco il pezzo:
Fulvio Scaglione
Alì Saad Daubasha come Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel? Il bambino palestinese di 18 mesi, bruciato vivo ieri nel rogo appiccato alla sua casa da un gruppo di coloni ultranazionalisti israeliani, come i tre studenti israeliani assassinati da militanti palestinesi di Hamas nel settembre 2014, mentre fioriva il tentativo di dialogo promosso da papa Francesco? Alla morte dei tre ragazzi seguì la più sanguinosa delle guerre di Gaza, quindi è d’obbligo sperare con tutte le forze che, al di là dell’indignazione palestinese e dell’ennesima chiamata alle armi di Hamas, prevalga la ragione, se non proprio la moderazione.
È lecito però, di fronte alla morte atroce del piccolo Alì, chiedersi che cosa stia succedendo a Israele. Il raid omicida dei coloni è l’apice di una serie di episodi più o meno gravi ma che vanno, tutti, nella direzione di un inasprimento delle relazioni esterne ma soprattutto interne allo Stato ebraico. Nelle ultime settimane: l’inutile prova di forza sulla spianata delle moschee, innescata dal ministro dell’Agricoltura Uri Ariel e da qualche decina di seguaci del partito Casa ebraica; il danneggiamento della chiesa dei Pani e dei Pesci a Tabgha, i cui responsabili sono finiti nei giorni scorsi sotto processo. Ancora: gli scontri all’insediamento di Beit El vicino a Ramallah, dove per abbattere due palazzine disabitate è dovuto intervenire l’esercito a frenare i coloni, peraltro confortati sul posto dal sostegno del ministro dell’Economia Naftali Bennett e di quello del Turismo Yariv Levin, entrambi incuranti del fatto che la demolizione fosse attuata per decisione della Corte Suprema. Con il premier Netanyahu poi subito pronto ad autorizzare la costruzione di altre 300 abitazioni nella stessa Beit El. O le frasi del vice-ministro dell’Interno Yaron Mazuz, che alla Knesset ha detto ai parlamentari arabi:«Vi facciamo un favore a lasciarvi sedere qui».
E infine: il film apologetico su Ygal Amir, l’uomo che nel 1995 uccise Yitzhak Rabin, programmato in un festival e ritirato per l’intervento di Shimon Peres. O le performance della ministra della Cultura Miri Regev, ex responsabile dell’ufficio censura dell’esercito, che ha minacciato di tagliare i fondi a una compagnia teatrale di Haifa in cui recitano bambini israeliani e palestinesi, il cui direttore rifiuta le esibizioni nei teatri degli insediamenti.
Insomma, per dira in breve: si ha la sensazione che la campagna elettorale muscolare e la recente vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu, poi costretto ad allearsi con i partiti della destra laica e religiosa per ottenere la pur risicata maggioranza di 61 a 59 seggi, sia stata da certe forze interpretata come un "liberi tutti" rispetto a certi limiti prudenziali che molti in Israele vivono come ingiuste costrizioni ma che, forse, sono l’unica barriera di separazione tra questa brutta pace e la guerra vera.
Netanyahu ha condannato l’assassinio del bambino palestinese come «un atto di terrorismo» e ha promesso di punire i colpevoli. Non v’è ragione di dubitare delle sue intenzioni, e di certo i colpevoli finiranno in cella come quelli che incendiarono la chiesa dei Pani e dei Pesci. Né possiamo trascurare, in ciò che infiamma gli animi, la lunga lista degli attacchi contro cittadini israeliani da parte di palestinesi: negli ultimi tumulti presso la spianata delle moschee, per esempio, si è visto anche il rabbino Yehuda Glick, sopravvissuto per miracolo a un attentato nel 2014.
Il disagio delle autorità di Israele è oggi trasparente. Per paradosso, i palestinesi possono trarre profitto da questa situazione. Hamas con rabbia, al-Fatah in modo più politico, sottolineando quel che tutti vedono: che gli atti di violenza incontrollata di parte israeliana sono in crescendo (secondo alcune fonti, 63 attacchi contro palestinesi o loro proprietà nel solo aprile 2015). Ma Israele sembra ora affrontare un passaggio cruciale della sua storia, una fase che potrebbe far saltare i delicati equilibri interni che hanno fatto dello Stato ebraico una democrazia vera e quasi miracolosa in quella regione e in quelle condizioni. Una cosa pare certa: il popolo degli insediamenti, spesso usato (anche in modo cinico) come punta di lancia nel confronto con i palestinesi, sta passando all’incasso. E non sembra disposto ad accontentarsi di promesse o delle briciole della politica. È dunque più che mai il momento di una politica all’altezza della sfida. La spirale dell’odio e del sangue innocente versato e le simmetrie feroci del terrorismo non si spezzeranno senza il coraggio di inusitati e quotidiani gesti di pace o anche solo di buona volontà.
IL MANIFESTO - Michele Giorgio: "Ali arso vivo mostra la violenza dei coloni"
Michele Giorgio ormai non ha più argomenti per dipingere Israele come un Paese razzista e militarista, quindi oggi scrive, per l'ennesima volta, tutte le malefatte di cui lo Stato ebraico è responsabile. Senza neanche citare, ovviamente, il terrorismo palestinese e islamico.
La sua descrizione della situazione è apocalittica. Forse potrebbe fare un viaggio in Siria, visto che il quotidiano dove scrive non si occupa del conflitto che in quattro anni ha fatto oltre 250.000 vittime. Ma non se ne può accusare Israele, e quindi, che importa?
Ecco il pezzo:
Michele Giorgio
Giovedì notte le fiamme hanno avvolto la casa dei Dawabsheh in pochi attimi. Saad e Riham hanno cercato di salvare i loro bimbi, Ahmad di 4 anni e Ali di 18 mesi. Hanno fatto di tutto ma il fuoco e il fumo sono stati letali per il piccolo Ali. Saad ha provato invano a tirarlo fumi da quell'inferno. Niente da fare. Il bimbo è bruciato vivo, come bruciò vivo poco più di un anno fa a Gerusalemme Mohammed Abu Khdeir, ucciso per vendetta da estremisti israeliani. Si è consumata così la tragedia dei Dawabsheh nel villaggio di Kafr Douma, nei pressi di Nablus. Ali ha pagato con la vita, e il resto della sua famiglia con ustioni deturpanti, colpe oscure. Hanno pagato per soddisfare il desiderio di rappresaglia di coloni israeliani fanatici, che si sentono la «spada della redenzione», decisi a far pagare a una famiglia palestinese indifesa la sentenza della Corte Suprema israeliana che qualche giorno fa ha disposto la demolizione di un paio di edifici costruiti senza permesso a Bet El.
Quando ieri mattina, alle prime luci dell'alba, è emersa tutta la gravità dell'accaduto, lo stesso Esercito israeliano non ha avuto dubbi sulla patemità dell'incendio doloso e ha dato pieno credito al racconto di alcuni testimoni palestinesi che hanno visto quattro coloni scagliare bottiglie molotov contro le due abitazioni prima di allontanarsi a tutta velocità verso l'insediamento di Maale Efraim. La «firma» degli attentatori sulle pareti delle case prese di mira non lasciava dubbi: «Vendetta» e «Viva il Messia». E il gruppo del «Price Tag», del «Prezzo da pagare», che raccoglie crescenti consensi nelle colonie nazionaliste religiose e nella destra estrema. Sono anni che colpisce e quella di ieri è la sua azione più grave e sanguinosa. Eppure questi fanatici godono di una impunità di fatto: qualche giorno di carcere, al massimo qualche mese e sono liberi.
«Fino ad ora sembra che abbiamo affrontato il fenomeno del terrorismo ebraico troppo debolmente. Forse non abbiamo ammesso con abbastanza decisione che siamo di fronte ad un gruppo ideologico che è pericoloso e determinato a distruggere i ponti che abbiamo costruito con fatica. Sono fortemente convinto che affrontiamo un pericolo serio e dobbiamo attaccarlo alla radice», ha commentato il presidente israeliano Reuven Rivlin, affermando ciò che non pochi, anche questo giomale, ripetono da anni. Il fanatismo che trova terreno fertile nelle colonie israeliane sparse nei Territori palestinesi occupati è un pericolo molto serio. Eppure continua ad essere sottovalutato, ridimensionato, soprattutto dai media occidentali che tendono ad accreditare la tesi di azioni di gruppi marginali. Si continua a resistere all'idea di definirli «fascisti». Esitazioni che invece non hanno alcuni studiosi israeliani dell'estrema destra, consapevoli di ciò che hanno di fronte.
Il premier Netanvahu ieri mattina ha condannato l'accaduto e, come il capo dello stato Rivlin, ha parlato di «terrorismo» e ha fatto visita al piccolo Ahmad Dawabsheh ricoverato in ospedale a Tel Aviv. Ha anche ordinato indagini rapide per arrivare ai responsabili dell'incendio e non ha mancato di telefonare al presidente dell'Anp Abu Mazen per esortare una lotta comune contro «ogni forma di terrorismo, da qualunque parte arrivi». Il primo ministro ha «dimenticato» un particolare non insignificante. Il suo governo è stretto alleato dei coloni. Lo stesso Bibi qualche mese fa, chiese i voti ai «settler» promettendo una rapida espansione di tutti gli insediamenti in Cisgiordania e a Gemsalemme Est.
Questo in carica è un governo che include ministri che non fanno mistero di condividere l'ideologia dei coloni più fanatici e che si proclamano alleati degli esecutori della «volontà divina» di redimere la biblica terra d'Israele, Eretz Israel. Naftali Bennett e Uri Ariel, tanto per citarne due. Il primo qualche giorno fa era a Bet El - un serbatoio di voti del suo partito, Casa ebraica - a protestare contro le demolizioni di due edifici illegali sentenziate dalla Corte Suprema. Il secondo domenica scorsa era nella città vecchia di Gerusalemme a dar sostegno alle dozzine di attivisti della ricostruzione immediata del Tempio ebraico - definiti «escursionisti» in un servizio diffuso qualche giorno fa dalla principale agenzia di stampa italiana -, al posto della Moschea della Roccia che si trova in quel luogo da 1.300 anni. In questo clima di collusione palese o segreta tra governo ed estremisti, inevitabilmente qualcuno finisce per pensare che la violenza contro i palestinesi, gli arabi, sia permessa o, almeno, tollerata.
Usa e Ue hanno condannato l'accaduto e chiesto indagini serie e rapide. Abu Mazen e i vertici dell'Anp hanno annunciato il ricorso alla Corte penale internazionale. La rabbia e lo sdegno dei palestinesi sono enormi, l'escalation è dietro l'angolo. Ieri sera la situazione appariva esplosiva dopo la lunga calma irreale seguita all'incendio a Kfar Douma. Scontri violenti, con alcuni palestinesi feriti, sono avvenuti a Qalandiya, Issawiya e diverse località della zona di Nablus. Colpi sono stati sparati contro un'auto di coloni israeliani in Cisgiordania ma non hanno causato danni. ll movimento islamico Hamas ha diffuso un comunicato in cui proclama che tutti i soldati e i coloni israeliani sono «bersagli legittimi della resistenza». Il Jihad Islamico da parte sua ha avvertito che «ll terrorismo dei coloni e dell'esercito israeliano saranno fronteggiati dalla volontà palestinese che non accetta di arrendersi». ll Fronte popolare per la Liberazione della Palestina ha esortato il popolo palestinese ad «aumentare la resistenza» contro Israele e ha chiesto ad Abu Mazen di proclamare lo stato d'emergenza.
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