Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/07/2015, a pag. 1-21, con il titolo "Il pericolo non viene più da Teheran", il commento di Roberto Toscano; dalla REPUBBLICA, a pag. 1-2, con il titolo "L'alleato ayatollah", il commento di Bernardo Valli.
Per Roberto Toscano l'Iran è il "baluardo" contro lo Stato islamico. Di conseguenza, Toscano festeggia senza mezze misure l'accordo con uno dei regimi più sanguinari del Pianeta. Ma in questo frangente Toscano non si limita a disinformare sostenendo che da Teheran mai più giungeranno pericoli per il mondo libero e che l'idea di distruggere Israele sia frutto di una misteriosa "ossessione" di Netanyahu (poco importa se in Israele ne sono consapevoli i partiti di tutto l'arco parlamentare, da destra a sinistra). Eppure Toscano riesce a scrivere anche, mentendo esplicitamente, quando afferma che la resistenza iraniana in esilio si sia schierata in modo compatto a favore degli accordi. E' vero esattamente il contrario, come ci ha segnalato con indignazione lo stesso Presidente degli esuli iraniani in Italia, Davoud Karimi. La dissidenza iraniana è del tutto contraria a un accordo che normalizza le relazioni con un regime islamista e sanguinario, e apre a questo le porte all'ottenimento della bomba atomica.
Anche Bernardo Valli saluta l'accordo come l'esordio di un nuovo mondo di pace. Si dimentica, però, che quasi tutti i conflitti che sconvolgono oggi il Medio Oriente sono legati all'espansionismo iraniano. Lo stesso Stato islamico è nato soprattutto come reazione violenta e criminale sunnita alla presa di potere, in Iraq, degli sciiti filo-iraniani, che già controllavano la Siria con il dittatore Bashar al Assad e in buona parte il Libano con i terroristi di Hezbollah. E come possiamo dimenticare il sostegno dell'Iran a Hamas e ai terroristi houti in Yemen?
Non riprendiamo, invece, l'intervista a Federica Mogherini pubblicata oggi da diversi quotidiani. Niente più delle solite chiacchiere, riassumibili sotto la cifra comune dell'incompetenza. Mogherini farebbe meglio a pensare alla sicurezza dell'Europa, ma dubitiamo che sia in grado di farlo.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Roberto Toscano: "Il pericolo non viene più da Teheran"
Roberto Toscano
Oltre dieci anni di negoziati accompagnati da accanite polemiche e da quasi quotidiani dibattiti a livello politico e tra esperti. Ultimamente, una serie di scadenze che non erano tali, proroghe, negoziati ad oltranza. Finalmente, un accordo. Un accordo la cui importanza è dimostrata nello stesso tempo sia dalla difficoltà di raggiungerlo che dalla determinazione di entrambe le parti di conseguirlo nonostante critiche, accuse, ostilità e dubbi.
Per quanto riguarda le difficoltà, non ci si dovrebbe lasciare trarre in inganno dalle pur autentiche complessità del dossier nucleare, per superare le quali è stata necessaria tutta l’abilità di negoziatori di grande professionalità. Se si fosse applicato il Tnp, il Trattato di non-proliferazione, una soluzione sarebbe stata trovata oltre dieci anni fa, ai tempi del governo riformista di Khatami, allora pronto ad accettare sostanzialmente gli stessi compromessi che sono alla base dell’intesa di Vienna. In sintesi, un do ut des fra riconoscimento del diritto iraniano all’energia nucleare e l’accettazione di limiti e ispezioni.
Ma
l’Iran era considerato «speciale» per tutta una serie di motivi: il lungo isolamento internazionale; la reciproca ostilità con gli Stati Uniti, retaggio di una storia difficile da superare; il sospetto delle sue ambizioni egemoniche da parte dei Paesi arabi del Golfo; le accuse israeliane di antisemitismo e intenzioni genocide, alimentate dalla retorica islamo-populista di Ahmadinejad.
Se alla fine un accordo è stato raggiunto è perché sia americani che europei sono arrivati alla conclusione che - al di là della storia, delle rivalità geopolitiche, della retorica rivoluzionaria - l’Iran è in realtà un Paese razionale, come ha detto Obama commentando l’accordo, e che quindi con l’Iran si possono raggiungere intese, accettare compromessi basati su considerazioni di interesse nazionale piuttosto che di ideologia, instaurare rapporti fatti di una miscela di collaborazione e contrapposizione, di contenimento e riconoscimento di legittimi interessi nazionali.
Il vero scontro sull’opportunità o meno di arrivare a un accordo sul nucleare, uno scontro che rimane aperto e che ancora potrebbe produrre sorprese (soprattutto nel Congresso americano - dove, come ha detto Obama, per evitare una bocciatura potrebbe essere necessario l’uso del veto presidenziale), non è mai stato, nonostante le apparenze, davvero centrato sul numero di centrifughe o sulle scorte di uranio arricchito, ma sulla natura del regime iraniano, sul suo ruolo regionale, sulle sue ambizioni geopolitiche.
E’ al riguardo rivelatore che negli ultimi giorni il negoziato abbia minacciato di arenarsi su un tema che non ha niente a che vedere con il nucleare, l’embargo alla vendita di armi all’Iran - che l’accordo di Vienna mantiene comunque per i prossimi cinque anni - e che i nemici dell’intesa, invece di prospettare improbabili «primi colpi» nucleari iraniani contro Israele, abbiano messo l’accento sul pericolo che la fine delle sanzioni possa mettere a disposizione del regime iraniano enormi risorse finanziarie aggiuntive da adibire a una politica eversiva ed espansiva a livello regionale.
Ma è proprio dal contesto regionale che è dipesa la disponibilità al compromesso (inevitabile quando non si tratta di una pura e semplice resa) da parte del Presidente Obama, e non solo. Si fa davvero molta fatica, oggi, ad accogliere la tesi di Netanyahu sull’Iran come nemico principale e minaccia alla stabilità regionale se non mondiale nel momento in cui lo Stato Islamico rivela non solo una tremenda sostenibilità militare, ma anche ambizioni espansive dal punto di vista sia ideologico che territoriale. Ambizioni che il regime iraniano ha da tempo abbandonato, dopo i primi anni di illusioni rivoluzionarie, per una realistica constatazione dell’impossibilità di estendere a livello regionale il khomeinismo per un Paese irrimediabilmente minoritario, in quanto persiano e non arabo, sciita e non sunnita.
L’Iran rimane anche dopo l’accordo sul nucleare un interlocutore/avversario problematico ma tutt’altro che irrazionale o fanatico. Se mai cinico, abile nella strategia e nella tattica, ma nel perseguimento del proprio interesse nazionale e non di un disegno smisurato ed apocalittico (il Califfato) come quello dello Stato Islamico. Uno Stato Islamico la cui minaccia crediamo abbia non poco pesato nel convincere i 5+1 della necessità di raggiungere, attraverso la rimozione dell’ostacolo costituito dalla questione nucleare, un tipo di rapporto meno conflittuale con l’Iran, nella convinzione che Teheran possa costituire, come già peraltro sta già facendo in Iraq, un indispensabile baluardo contro l’avanzata dello Stato Islamico e la minaccia di un crollo dello Stato iracheno.
A Vienna si è pensato certamente all’Iraq, e anche alla Siria, dato che soltanto un deciso intervento iraniano potrebbe fare pendere la bilancia verso quella soluzione diplomatica che Assad, incapace di prevalere ma difficile da sconfiggere militarmente, potrebbe accettare soltanto dietro pressione del suo alleato principale, l’Iran. Un Iran che non è da escludere che sia pronto ad accettare un compromesso piuttosto che correre il rischio che la Siria finisca per cadere sotto il controllo del jihadismo più radicale, contemporaneamente anti-occidentale e anti-iraniano.
E’ una scommessa forte e non priva di azzardo, ma non molto diversa da quella che fu a suo tempo alla base della distensione con l’Urss e della normalizzazione con la Cina, avversari ben più minacciosi, militarmente e ideologicamente, di quanto non sia mai stato l’Iran. Una scommessa il cui esito promette (o minaccia, come ritiene chi la teme) di ristrutturare l’intero quadro geopolitico del Medio Oriente e - va aggiunto - anche di determinare profonde trasformazioni interne nel regime iraniano. E’ chiaro che Obama, accettando di iniziare un difficile processo di normalizzazione con l’Iran, abbandona - e sauditi ed israeliani difficilmente lo perdoneranno per questo - il disegno, tanto ipotetico quanto rischioso, di un cambiamento di regime, ma faremmo bene a notare che non solo i cittadini iraniani, ma anche la stragrande maggioranza della diaspora iraniana, senza escludere i più coraggiosi dissidenti, la cui credibilità politica e morale è dimostrata dalla repressione patita, salutano questo accordo come la promettente premessa di un cambiamento nel regime capace di aprire la strada all’emergere di un Paese più prospero e più forte anche internazionalmente, non più isolato e boicottato. La speranza è che in queste condizioni diventi più facile riprendere anche se gradualmente un disegno di cambiamento in senso democratico. Proprio per questo motivo non mancano, nelle correnti più radicali del regime, timori sulle possibili ripercussioni interne dell’accordo concluso a Vienna.
Subito chi è contrario all’accordo lo ha definito «un regalo agli ayatollah» basato su pericolose concessioni. A Teheran, invece, è grande festa popolare, non di regime.
LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "L'alleato ayatollah"
Bernardo Valli
Ci sono voluti più di 35 anni per riavvicinare il grande Satana e il regime canaglia, caposaldo dell’asse del male. Ci vuol tempo per sradicare gli insulti diventati dogmi. La diplomazia ha dovuto faticare, ma si è rivelata più efficace delle armi in agguato. Nel mondo irrequieto, sbrigativo nell’uso della forza, è un segno di saggezza. La rivalità tra l’America bollata dall’Iran come satanica e l’Iran definito dall’America canagliesco si è risolta la mattina del 14 luglio, dopo tredici anni di trattative, in un accordo sul nucleare che resta ricco di incognite, che non è ancora la pace, ma che è pur sempre una vittoria dell’intelligenza umana, emersa con fatica dal fanatismo e dal sospetto. Il defunto imam Khomeini, fondatore della teocrazia iraniana, si stupirebbe di quel che è accaduto all’Hotel Palais Coburg di Vienna, dove i suoi successori hanno raggiunto un’intesa con gli americani, inassolvibili nemici dal 4 novembre 1979, giorno in cui gli studenti di Teheran, esaltati dalla rivoluzione e dalla caduta dello scià, assaltarono l’ambasciata Usa. E furono presi come ostaggi 66 diplomatici e impiegati.
L’intesa di Vienna è il primo passo. Resta l’approvazione dell’Onu che si annuncia rapida. Poi la ratifica del Majlis (Parlamento) di Teheran, anticipata dall’approvazione della Guida suprema Khamenei senza la quale non ci sarebbe stato un accordo: e infine quella più problematica, entro due mesi, del Congressso di Washington, dove non mancano i nemici dell’intesa con l’Iran. Gli scettici, gli indecisi si trovano tra i repubblicani e i democratici. E sono particolarmente attivi coloro che sono d’accordo col primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, da sempre favorevole a un intervento armato e adesso pronto nel denunciare, affiancato da un imprevedibile alleato di fatto, l’Arabia Saudita, come uno storico errore l’accordo di Vienna. Benché Barack Obama dica con toni rassicuranti che sia basato “sui controlli e non sulla fiducia”.
Controlli che dureranno tra i dieci e i quindici anni. Le scuole di pensiero sulla grande impresa diplomatica sono tante. Quella positiva sottolinea con ragione che non si tratta di un semplice affare regionale. La sua portata è internazionale perché riguarda la proliferazione nucleare, quindi è un esempio che non si limita alla pace e alla sicurezza in Medio Oriente, ma si estende al Pianeta. L’accordo autorizza il nucleare civile ed esclude quello militare. Dovrebbe dissuadere i grandi paesi sunniti, come l’Arabia Saudita, a dotarsi della bomba atomica, intimoriti dall’idea che l’Iran, l’avversario sciita, stia per averne una. Per quanto riguarda Israele non ha firmato il patto di non proliferazione e disporrebbe di armi nucleari da tempo. Fu la Francia, quando era stretto alleato dello Stato ebraico, a fornirgli negli anni Cinquanta il primo know how necessario. Il documento di Vienna limita con precisione la capacità d’arricchimento dell’uranio, riducendo il numero delle centrifughe, e in generale l’attività di ricerca e di sviluppo.
Un meccanismo ristabilisce le sanzioni automaticamente in caso di violazione dell’accordo, e comunque esse non vengono sospese tutte insieme, ma via via che sono assolti gli impegni. Le centrali nucleari d’Arak e di Tatanz saranno soggette, come tutte le altre, a continue ispezioni dell’Agenzia atomica dell’Onu, tese a controllare la produzione dell’uranio arricchito, combustibile indipensabile per il nucleare militare. L’arsenale di Parchin sarà soggetto a verifiche concordate. E le armi che vi si trovano, cioè quelle convenzionali, sanno sottoposte a embargo, come i missili mobili, per cinque anni. Dopo l’approvazione del Consiglio di Sicurezza l’Iran dovrà prepararsi per tre mesi ad applicare i vari capitoli dell’accordo. Quest’ultimo dovrebbe essere rispettato nel suo insieme all’inizio del prossimo anno. Oggi, stando agli esperti più ottimisti nelle valutazioni tecniche, l’Iran sarebbe in grado di realizzare una bomba atomica nello spazio di due mesi. Applicate tutte le clausole dell’accordo di Vienna, la sua capacità si allungherebbe a 12.
Queste valutazioni hanno subito e subiscono molte variazioni. Gli specialisti israeliani hanno spesso contraddetto il loro primo ministro, che accorciava drammaticamente i tempi di preparazione della bomba. Ma adesso i giudizi divergono in particolare sulla fiducia, sull’efficacia dei controlli e su quello che accadrà quando sarà scaduto l’accordo. Ossia tra una decina di anni. Gli scettici e gli scontenti non mancano nei due campi. Tra gli stessi iraniani c’è chi considera il documento di Vienna una gabbia in cui il suo paese resterà imprigionato. Ma la posta in gioco non è soltanto il nucleare. Se l’accordo del 14 luglio sarà applicato, l’Iran recupererà il ruolo di grande potenza della regione. La ripresa degli introiti del petrolio, ridotti dalle sanzioni, il rilancio dell’economia favorito dagli investimenti stranieri impazienti di riversarsi su un paese di 80 milioni di persone ansiose di consumare, il riavvio dell’attività bancaria con l’Occidente, insieme al ritorno alla normalità in tanti altri settori accrescerà l’influenza della Repubblica islamica fondata da Khomeini.
Gli alleati tradizionali dell’America, quali l’Arabia Saudita e Israele, non perdonano a Obama di avere favorito, anzi voluto, il ritorno in società a pieno titolo del loro avversario. Non credono nell’efficacia della camicia di forza sul nucleare imposta dai negoziatori dei sei paesi impegna- ti nelle trattative (Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina, Stati Uniti più Germania). L’Iran diventa un partner economico, politico e militare di grande rilievo. Vladimir Putin è pronto ad accoglierlo nel Brics, il club dei paesi emergenti animato oltre che dalla Russia, da Cina, India, Brasile, Sudafrica. E il suo peso nella crisi mediorientale è destinato ad aumentare.
Le milizie sciite, finanziate e spesso comandate da iraniani sono già, insieme a quelle curde, le forze più efficaci nella lotta contro il califfato, che occupa un vasto territorio a cavallo di Iraq e Siria. Gli Hezbollah libanesi, spina nel fianco di Israele, ma anche efficienti alleati del regime di Damasco, sono di fatto un appendice di Teheran. Secondo una scuola di pensiero il più ampio ruolo del regime degli ayatollah inaspirirà il conflitto. Altri invece, e tra questi Barack Obama, contano sul pragmatismo dimostrato dai negoziatori di Vienna. Tenaci, polemici, orgogliosi, ma infine pronti ad accettare severi condizionamenti pur di uscire dall’isolamento. Insomma pronti ai compromessi e a una cooperazione.
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