Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/07/2015, a pag. 19, con il titolo "Ma l'accordo sancirà la fine del primato Usa nella regione", l'intervista di Davide Frattini a Michael Oren, ex ambasciatore di Israele in Stati Uniti.
Davide Frattini, Michael Oren
"Mi dispiace interrompere, ma le interessa firmare una petizione per il boicottaggio culturale di Israele?"
Il primo giorno di lavoro si presenta all’ingresso dell’ambasciata e la guardia gli chiede: «Dove sta andando, ha un appuntamento?». Michael Oren arriva a Washington senza alcuna esperienza diplomatica: è uno storico del Medio Oriente e — racconta — «nessuno al ministero degli Esteri mi aveva dato istruzioni e spiegato quale fosse la nostra posizione sulla proliferazione nucleare o gli scambi commerciali, per esempio».
La lezione inaugurale gli viene data da Henry Kissinger, che Oren incontra nel maggio del 2009 all’inizio dell’incarico. «Gli dico: “Di certo la Casa Bianca è consapevole che un’intesa con l’Iran significherebbe la fine della supremazia americana in Medio Oriente”. Kissinger mi risponde: “E che cosa le fa pensare che a qualcuno nell’amministrazione interessi ancora la supremazia americana in Medio Oriente?”». I quattro anni passati a Washington confermano allo studioso-diplomatico quella prima opinione «scoraggiata» dell’anziano ex segretario di Stato. O almeno così li ricorda in Ally - My Journey Across the American-Israeli Divide, pubblicato di recente negli Stati Uniti adesso che Oren è un politico a tutti gli effetti come parlamentare del partito Kulanu nella coalizione del premier Benjamin Netanyahu. Cresciuto in New Jersey, sposato con Sally (californiana, negli anni Sessanta era una musa dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane), da emigrato in Israele rivela anche la sua «frustrazione» verso gli ebrei americani per le loro critiche alla politica del Paese che ha scelto. Da americano è indignato da quanto Barack Obama (nelle memorie I sogni di mio padre) «non mostri segni di rispetto verso gli Stati Uniti».
Così il libro ha contribuito a esacerbare le divisioni di cui racconta perché Obama viene presentato come il presidente che ha «abbandonato Israele»: «Fin dagli inizi del suo mandato — scrive Oren in un editoriale per il quotidiano Wall Street Journal in cui riassume il saggio — ha promosso il programma di sostenere la causa palestinese e raggiungere un accordo con l’Iran. Scelte che l’avrebbero messo in conflitto con qualunque primo ministro israeliano». Se poi quel primo ministro è Netanyahu, il conflitto diventa ancora più aspro. Il premier considera bloccare il programma atomico degli ayatollah la missione della vita (Oren lo definisce «una figura biblica») e si è opposto all’intesa in discussione a Vienna con qualunque mezzo (anche a costo — ammette lo studioso — di inimicarsi l’amministrazione Obama): «Netanyahu ha commesso degli errori, mai premeditati però». Il presidente americano invece — sostiene l’autobiografia poco diplomatica — ha volutamente rinunciato ai due principi al cuore dell’alleanza: «Ci possono essere disaccordi tra i Paesi ma non visibili in pubblico perché renderebbero Israele vulnerabile verso i nemici. E niente sorprese. Questi capisaldi sono stati ignorati soprattutto sulla questione iraniana: solo nel 2014 abbiamo saputo che il nostro alleato più importante stava negoziando in segreto con il nostro nemico più acerrimo ed era pronto a raggiungere un accordo, anche se il documento fosse stato inaccettabile per noi. Di più: la Casa Bianca ha indebolito le possibilità di un attacco israeliano contro Teheran rivelando e commentando le operazioni della nostra aviazione in Siria. Nonostante il proclama “tutte le opzioni sono sul tavolo” mi è risultato chiaro abbastanza presto che il presidente non avrebbe mai ordinato di bombardare l’Iran».
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