Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 12/07/2015, a pag. 9, con il titolo "L'Egitto nazione 'in guerra'. Islamisti ed emuli del Califfo: il nemico viene dall'interno", l'analisi di Davide Frattini.
Davide Frattini
La scena dell'attentato di ieri al consolato italiano del Cairo
Quando si è annodato la cravatta sotto al completo scuro per dare il via alla campagna presidenziale nella primavera dell’anno scorso, era la prima volta che Abdel Fattah al Sisi toglieva la divisa in una quarantina d’anni. Figlio di mercanti del bazaar, cresciuto vicino alla moschea Al Azhar nel quartiere islamico della Cairo vecchia, ha frequentato l’Accademia militare fin dalle medie. L’Egitto che il primo ministro Ibrahim Mahlab definisce ormai «una nazione in guerra» si è affidato a questo generale diventato presidente perché avrebbe dovuto garantire la sicurezza e avrebbe saputo reprimere gli attacchi dei fondamentalisti come un suo comandante era stato in grado alla fine degli anni Novanta.
Sami Enan, che sarebbe diventato capo di Stato maggiore, ha dato la caccia e ha eliminato uno a uno i terroristi che nel 1997 hanno massacrato a Luxor 58 turisti e 4 egiziani. «Il problema è che in questi decenni l’esercito si è addestrato e preparato — commenta Steven A. Cook sulla rivista Foreign Policy — a un conflitto su larga scala con nemici esterni, uno scontro che probabilmente non scoppierà». Invece è cominciata la guerriglia con gli attentati e i raid degli islamisti. Solo nella settimana che ha segnato l’anniversario della deposizione nel 2013 di Mohammed Morsi: il 29 giugno un’autobomba ha ucciso il magistrato Hisham Barakat (incaricato di cacciare e schiacciare i Fratelli musulmani, a partire da Morsi), il giorno dopo quindici basi militari sono state attaccate nella penisola del Sinai (70 soldati uccisi). «Dopo il conflitto del 1973 i militari hanno goduto del prestigio e dell’influenza — continua Cook — derivati dall’essere i garanti dell’ordine politico senza esserne responsabili verso nessuno.
La violenza che sta trascinando l’esercito in una guerra civile prova che quel sistema non funziona più». Gli arresti, le incarcerazioni e le condanne a morte hanno alimentato le minacce di vendetta dei Fratelli musulmani. Che hanno incitato il popolo alla rivolta contro Al Sisi, dopo che le forze speciali hanno ucciso 13 capi del movimento in un’operazione a poche ore dall’attentato a Barakat: la polizia ha sostenuto che i ricercati nascondessero armi nell’appartamento alla periferia del Cairo. Le leggi d’emergenza minacciano i giornalisti che riportino cifre discordanti da quelle ufficiali annunciate dal governo, come il numero di soldati uccisi negli attacchi in Sinai: il ministero della Difesa ha stabilito 17, anche se i caduti calcolati dagli ospedali — con conferme dal ministero della Sanità — erano molti di più.
L’Osservatorio egiziano per i diritti e le libertà ha comunque inventariato la repressione attuata da Al Sisi in un anno al potere: i tribunali tra civili e militari hanno comminato 94.420 sentenze di cui 464 pene capitali, 4.800 egiziani sono stati condannati in totale a 39.040 anni di carcere, 772 all’ergastolo. L’accesso a quello che gli storici egiziani chiamano lo «scatolone di sabbia» è stato chiuso ai giornalisti. Il Sinai è zona militare, le informazioni arrivano dalle fonti locali, dai portavoce dell’esercito o dai comunicati e i video degli estremisti Ansar Bayt Al Madqis, il gruppo che a novembre dell’anno scorso ha giurato fedeltà allo Stato islamico e ne ha importato le tattiche dell’orrore nella penisola, dalle decapitazioni dei «traditori» alle operazioni coordinate per dimostrare ai clan locali di poter controllare il territorio.
I sessantunomila chilometri quadrati di deserto e montagne di roccia rossa rappresentano il «selvaggio Far West sul nostro fronte Sud» per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il problema più complicato per Al Sisi. La rivolta si sta diffondendo dal Sinai verso la valle del Nilo, dove le proteste (400 manifestazioni negli ultimi tre mesi) sono per ora motivate dalla crisi economica. Per togliere sostegno al Califfato il presidente ha chiesto agli studiosi dell’Università Al Azhar di pensare una «rivoluzione religiosa» che interdisca l’idea di imporre l’Islam al mondo.
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