Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 10/07/2015, a pag. 1-4, con i titoli "Contro il deal 1", "Contro il deal 2", le analisi di Mattia Ferraresi, Paola Peduzzi.
Paola Peduzzi: "Contro il deal 2"
Paola Peduzzi
I negoziati sul nucleare. L'Iran agli Usa: "Siamo affidabili"
“Sono pessimista sul sorriso del lupo. Sono pessimista sulla grande bugia. I colloqui si stanno scaldando. L’assedio si sta facendo più stretto”. Così recita la canzone – secondo la traduzione dal farsi di Radio Free Europe – lanciata dai falchi iraniani in una clip video dal titolo “Hotel Coburg”, che è un albergo di Vienna che ha ospitato i colloqui sul nucleare tra l’occidente e l’Iran. Secondo l’agenzia Fars, il video – nel quale compaiono immagini di morte, le proteste, il presidente Obama, i teli bianchi sui cadaveri – è stato prodotto dalla Casa della musica dei bassiji, dopo che la Guida suprema, Ali Khamenei, aveva detto, il primo luglio scorso, che “i poeti non possono essere imparziali nella battaglia tra la verità e il male”: “Se i poeti e gli artisti – diceva il leader supremo, secondo la trascrizione pubblicata sul sito Khamenei. ir – assumessero una posizione neutra, getterebbero via il dono che Dio ha dato loro”.
La canzone dei bassiji descrive i colloqui come una partita di scacchi in cui una parte, l’Iran, negozia sotto “l’ombra della minaccia”. Tra continue complicazioni negoziali e deadline che slittano – ne era prevista un’altra per oggi, ma è slittata – l’ostilità di chi, dentro la Repubblica islamica, s’oppone all’accordo con l’occidente è diventata più irriverente. I vignettisti hanno ironizzato sui continui incontri tra il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, e il suo collega americano in stampelle, John Kerry, rappresentandoli come due innamoratini. In un racconto sul New Yorker, si dice che i falchi hanno firmato una petizione contro la sconveniente “intimità” che c’è tra i due negoziatori. Zarif è stato convocato in Parlamento per riferire su un incontro di quindici minuti avuto sul lago di Ginevra con Kerry, fuori dai luoghi consueti della diplomazia e quindi sospetto, per alcuni parlamentari era materia da impeachment e per altri un atto di tradimento da punire con si sa quale pena. Stiamo capitolando, insistono i falchi, altro che diplomazia, stiamo concedendo troppo e avremo poco o nulla in cambio: uno dei giornali dei falchi, Kayhan, ha scritto che coloro che non considerano l’America il grande Satana “sono dei sempliciotti convinti che tutti i nostri problemi in terra e in cielo saranno risolti, e che il paese diventerà la terra delle rose e degli usignoli”.
Oggi è anche la festa annuale che il New York Times definisce dell’“anti Israel extravaganza”: “Non marceremo soltanto contro Israele”, ha detto l’ayatollah Ali Jannati la settimana scorsa alla Fars, “è molto più di questo. Marciamo contro i poteri arroganti”, che saremmo noi occidentali, grandi e piccoli Satana (e sull’arroganza dei poteri forti pare di sentire Tsipras con tutti i suoi fan). “Che cosa resterà della nostra rivoluzione, della nostra posizione nel mondo islamico – ha detto un organizzatore delle proteste contro l’America – se iniziamo ad avere relazioni con un paese che si dedica all’oppressione del nostro popolo e di molti altri?”. Ricorrono, in televisione e nelle proteste, le parole pronunciate dall’ayatollah Khomeini: “L’America deve essere presa a pugni in bocca”. “L’antiamericanismo è un pilastro del nostro sistema”, ha spiegato il giornalista riformista Nader Karimi Joni a Thomas Erdbrink del Nyt, “ora che stiamo parlando direttamente con gli Stati Uniti, la reazione è quella di esagerare con l’antiamericanismo, per enfatizzare il fatto che l’America continua a essere il nemico”.
I conservatori meno inventivi sostengono che, anche se il deal ci sarà, la lotta contro l’America non si fermerà, “un cessate il fuoco non significa la fine della guerra”, ha detto al Wall Street Journal l’ex guardia rivoluzionaria Hossein Kanani Moghadam, ed è proprio questo che è in gioco a Vienna, non solo il numero delle centrifughe o la data di scadenza delle sanzioni, ma la domanda decisiva: l’Iran sarà un paese diverso? Chi pensa che Zarif e Kerry siano amanti non lo vuole nemmeno, un paese diverso, vuole portare avanti il progetto di annientamento dell’occidente e di conquista del medio oriente alla base della rivoluzione, e questo rende l’accordo pericolosissimo. Poi c’è più della metà del popolo irianiano nato dopo la rivoluzione, che ha meno di 35 anni e ha imparato, morendo in piazza, che il regime non lo puoi tirar giù da solo, ma cambiarlo un po’ alla volta forse questo sì.
Mattia Ferraresi: "Contro il deal 1"
Mattia Ferraresi
John Kerry, Hassan Rouhani
Un’altra giornata di negoziati, un’altra estensione – questa volta di quattro giorni – altre parole piene di “real progress”, come ha detto John Kerry. Il politologo Walter Russell Mead aveva ottime ragioni per chiamare la sessione di negoziati con l’Iran “il giorno della marmotta”, la giornata che nel film con Bill Murray si ripete all’infinito, eternamente identica a se stessa. All’Iran questo plot circolare non dispiace, “e ormai è chiaro da tempo che mentre la Casa Bianca ha fretta di raggiungere una conclusione, gli iraniani sono contenti di continuare a fare girare la ruota”, scrive. Per l’intellettuale conservatore Michael Ledeen, critico indefesso di qualunque accordo con i nemici dell’America, “a Vienna l’Iran non siglerà alcun accordo, per ordine della Guida suprema Khamenei”, il quale vuole ottenere un paradossale “no deal deal”: l’accordo di non trovare alcun accordo, limitandosi a prendere altro tempo, a rimandare, a vivere di sospetti e improvvisi riavvicinamenti saltando di scadenza in scadenza. Un giorno della marmotta perfettamente pianificato.
Ledeen è un esemplare di falco diventato piuttosto raro nell’habitat di Washington. La pattuglia degli internazionalisti liberal contrari alle trattative con qualunque regime autoritario, e specialmente con le teocrazie apocalittiche che vogliono dotarsi di armi atomiche, è divisa e in rotta, alcuni sono allineati sul pragmatismo obamiano, altri confinati in riserve ideologicamente irrilevanti. Qualche voce fuori dal coro c’è, ad esempio Leon Wieseltier, ma la nota dominante fra gli intellettuali liberal riflette lo zeitgeist della mano tesa alle canaglie. Anche le ardenti tirate antiautoritarie di Samantha Power sono state inghiottite dai calcoli politici e dalle regole felpate della diplomazia. Ledeen dice al Foglio che “gli intellettuali liberal sono finiti perché non vogliono guardare la realtà, vivono in una rappresentazione illusoria in cui tutte le visioni possono essere in qualche modo riconciliate. Ma l’obiettivo finale dell’Iran è distruggerci e distruggere Israele, non fare accordi o negoziare i termini di una convivenza. Khamenei sa benissimo che l’America in questo stato è desiderosa, anzi ansiosa di trovare un accordo, e sfrutta quest’ansia a suo vantaggio, alimentando dialoghi che hanno il solo scopo di rimandare il problema”.
Anche chi si oppone per principio alla trattativa “ora preferisce allinearsi con Obama, che si sta comportando come un ragazzino innamorato che continua a corteggiare la ragazza che gli ha detto di no: una posizione irrazionale e di estrema debolezza”. Un gruppo bipartisan di accademici, diplomatici, militari e politici ha di recente firmato una lettera del Washington Institute for Near East Policy che contiene sostanziali critiche ai termini dell’accordo sul tavolo. Non si tratta però di una critica all’idea di un accordo con il nemico, quanto di un elenco di correzioni – talvolta molto profonde – dei termini dell’attuale negoziato. L’idea è che “no deal is better than a bad deal”, ma si coltiva la speranza che un buon accordo sia effettivamente possibile, con un accorto sistema di garanzie eppure senza escludere categoricamente la possibilità che Teheran arrivi, un giorno, alla Bomba. Concessioni immediate in cambio di una vaga promessa.
Oltre a cinque ex consiglieri di Obama, fra i firmatari della lettera ci sono anche il generale David Petraeus e l’ex consigliere della Sicurezza nazionale di Bush, Stephen Hadley, falchi che hanno fatto il nido su alture più moderate. A presidiare la fortezza degli intransigenti, quelli che non accettano un accordo con l’Iran proprio per la natura del regime, per la sua strutturale inaffidabilità e i secondi fini che occulta, è rimasto il gruppo neoconservatore di Bill Kristol e Stephen Hayes, rappresentato al Congresso dal giovane e agguerrito senatore Tom Cotton. Charles Krauthammer, opinionista neocon, dice che “il diavolo non è nei dettagli ma nell’intera concezione di un accordo che porterà l’Iran alla Bomba”. L’analista Michael Doran mesi fa ha spiegato in un dossier che il giorno della marmotta non è il frutto di circostanze complicate, ma lo svolgimento delle premesse dell’ideologia obamiana. La conclusione logica di una visione del mondo, non un complicato incidente di percorso.
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