Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/07/2015, a pag. 14, con il titolo "Se l'Isis minaccia Israele: il nuovo fronte del Sinai", l'analisi di Davide Frattini.
Davide Frattini
La penisola del Sinai
I sessanta cadaveri depositati sul fondo bluastro di una piscina vuota. Le ruspe che scaricano le armi e le munizioni catturate ai miliziani. La parata davanti al presidente ridiventato per un giorno generale che si presenta davanti alle truppe con l’uniforme mimetica. Per dimostrare che la capitale non ha abbandonato la penisola di sabbia, che è tempo di lasciar andare con il vento del deserto le parole di un intellettuale locale, a trentaquattro anni dal ritiro israeliano: «Il Sinai è ritornato all’Egitto, l’Egitto non è mai ritornato al Sinai». Abdel Fattah al Sisi è volato dal Cairo per incoraggiare gli «eroi in prima linea» mentre la guerra va avanti e rimbalza verso Israele: venerdì tre razzi sono stati sparati contro il sud del Paese, l’attacco è stato rivendicato dal gruppo che alla fine dell’anno scorso ha giurato fedeltà allo Stato islamico.
L’esercito israeliano è in allerta da mercoledì, la strada numero 12 che corre lungo la frontiera è rimasta chiusa da quando gli estremisti hanno assaltato quindici basi militari egiziane nel Nord del Sinai e hanno ucciso 70 persone tra militari e civili. In tre giorni la controffensiva ordinata da Sisi avrebbe ammazzato 250 miliziani. I droni telecomandati israeliani controllano le montagne di pietra rossa, volteggiano dove i caccia egiziani non si arrischiano a volare, i miliziani di questo nuovo distaccamento del Califfato sono equipaggiati con missili antiaerei. La cooperazione tra i due Paesi avvicinati dalla pace fredda non è ufficiale ma di certo il governo di Benjamin Netanyahu ha acconsentito a un incremento delle truppe arabe nella penisola (il limite è stabilito dall’accordo di Camp David del 1979).
«Dobbiamo sperare che gli egiziani siano in grado di risolvere i loro problemi — commenta Shaul Shay, già vicecapo del consiglio di sicurezza nazionale — prima che si riversino su di noi. Stiamo assistendo a un livello di confronto militare mai visto nel Sinai». Gli analisti temono che i gruppi locali tentino di utilizzare i blindati catturati all’esercito del Cairo per attaccare i valichi e la barriera lungo in confine. «Gli uomini di Ansar Bayt al Maqdis, l’organizzazione che ha stretto un’alleanza con il Califfo, hanno sviluppato grandi capacità tattiche — scrive Ron Ben-Yishai sul quotidiano Yedioth Ahronoth —.
L’operazione coordinata di mercoledì dimostra che non si tratta più di una banda di criminali capaci al massimo di sparare a qualche bus israeliano o tentare un’imboscata a una pattuglia». Netanyahu considera i sessantunmila chilometri quadrati di deserto il «selvaggio Far west», ancor più adesso che — avverte — «lo Stato islamico è alle nostre porte». Il premier e i suoi consiglieri sembrano tentati di sfruttare il caos dall’altra parte della frontiera per indebolire Hamas. Il generale Yoav Mordechai, che coordina le attività nei territori, sostiene («con prove») che i fondamentalisti palestinesi abbiano aiutato gli estremisti egiziani a organizzare i raid di mercoledì. L’obiettivo è riammorbare i rapporti tra la fazione che domina la Striscia di Gaza e il governo egiziano: negli ultimi mesi Sisi sembra aver deciso di «perdonare» il movimento palestinese dopo averlo accusato di appoggiare la ribellione dei Fratelli musulmani in tumulto dalla deposizione del loro presidente Mohammed Morsi due anni fa.
«Non possiamo permettere che il Califfato spalleggi Hamas dal Sinai — spiega Alex Fishman su Yedioth — e non dobbiamo illuderci: lo Stato islamico non si è installato solo nella penisola, sarebbe ingenuo non rendersi conto che è penetrato nel deserto del Negev e la sua ideologia sta influenzando gli arabi con carta d’identità israeliana. È una malattia infettiva ed è già tra noi».
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